Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Valzer al crepuscolo ~ Requiem

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Mirkito15
view post Posted on 23/5/2011, 20:16





SPOILER (click to view)


• Tender moment in a field of harmony •
_ __ ___ ____ _____ ______ _____ ____ ___ __ _

Avete mai immaginato il pianeta come un immenso essere vivente?
Un'anima gigantesca, che vi accoglie e vi culla nella sua armonia.
Lo avete mai immaginato?
E se il giorno questo spirito inspirasse profondamente, per raccogliere i profumi delle vostre più vive esperienze?
E se la notte - questo stesso spirito - espirasse con forza, per muovere i venti, per scivolare sulle onde increspate e spumeggianti?
Se tutto questo fosse vero - ve lo immaginate? Quanto dev'essere bella come fantasia! - l'alba e il tramonto non sarebbero altro che delle pause.
Infinite pause tra dentro e fuori, fra l'alzarsi del diaframma e il suo contrarsi.
Tutto si ferma in questi momenti, l'avete mai notato?
Avete mai notato che i rami non si muovono, gli uccellini non cantano e il vento non soffia?
C'è proprio un vero e proprio istante di immobilità; una pace tanto avvolgente che persino voi vi sentite in dovere di non muovervi, di trattenere il vostro di respiro.
Vi è mai capitato? Mai? A me tante volte.
Quando tutto si tinge d'arancione, quando sento quella serenità che mi porta al pianto, in quei momenti sento di essere parte di un tutto, di non essere inutile dopotutto.
Allora non è tanto sorprendente che alcuni tra i miei più bei ricordi siano legati ad un tramonto o ad un sorgere del sole.
Non è affatto strano, non trovate?
Così come la musica sospende i propri battiti, alternando pause a suoni melodici, così il passato sospende il pensiero, su quei tratti di silenzio totale, assoluto.

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Ricordo in particolare un giorno.
Penso fosse Giugno.
Lo dico non tanto perché io ricordi in qualche modo la data, ma l'acre profumo del grano appena colto mi permea ancora le narici quando penso a quel che accadde.
Sono fatti così i ricordi. Non hanno una logica precisa, semplicemente colleghi odori, suoni, colori a volti, luoghi e momenti.
Così, come immagini, quelle sensazioni prendono forma: i cereali spersi sul terreno, con gli esili steli tagliati con precisione; il sole basso sull'orizzonte, caldo e sensuale; i morbidi capelli di lei tra le dita, fluenti e vellutati; soprattutto ricordo il silenzio, quello di cui vi parlavo prima, l'attimo di pausa nel respiro del mondo.
Lei era accanto a me, con la testa appoggiata sulle mie gambe incrociate. Ero seduto in terra, con le braccia tese all'indietro a reggermi. Intanto fissavo il mio sguardo lontano, sussurrandole una poesia che descrivesse le tante bellezze che avevo attorno in quel momento. Lei intrecciava fili d'erba e fiori di campo in una collanina; la potevo vedere sorridere.
Era bella - mio Dio quant'era bella.
I lunghi capelli biondo cenere, appena mossi, simili alle onde del mare, incorniciavano un viso angelico, puro, privo delle corruzioni che il mondo vero riserba per i suoi sfortunati avventori.
Era bellissima, non bella, più bella del bello!
Io le sorridevo di rimando, perché lei aveva scelto di rispondere al mio invito. Aveva saltato la lezione di postura, solo per seguire un garzone allievo di un artista.
Mi aveva seguito fino a quei campi appartenenti ai mugnai. Bendata, senza fiatare, fidandosi di me.
È difficile descrivere i brividi che ti attraversano il corpo quando sai che una persona che ti stringe la mano e non vede si fida di te; la potresti tradire, condurre fino ad una scogliera lontana per poi farla precipitare, eppure lei si fida, segue i tuoi passi senza fiatare. Senza nemmeno essere impaziente, non una domanda, mai si era azzardata a chiedere "Siamo arrivati? Dove mi stai portando?". Lei mi seguiva e il mio cuore si riempiva di emozioni.
Ora eravamo lì, seduti sul grano, con il tramonto davanti, il silenzio attorno, il cielo d'arancia sopra, il mondo lontano.
» Questo posto è bellissimo. «
Mi tolse il fiato, fermai il mio respiro assieme a quello del mondo.
» Balliamo allora... «
Non ci credere mai, ve lo assicuro.
Non rise, non chiese...
Si alzò, mi invitò con il palmo aperto.
Ballammo in mezzo alla meraviglia, come corpi fluttuanti a lontani dall'influenza dell'universo.
Non sentivo nulla, eppure tutte le sensazioni erano amplificate all'ennesimo grado.
I respiri sempre più affannati, i corpi sempre più stretti, i volteggi, un valzer danzato nei caffè viennesi.
_ __ ___ ____ _____ ______ _____ ____ ___ __ _

Sapete cos'è veramente bello? Cos'è magico in tutto questo?
Lo è il fatto che questo è stato il mio ultimo ricordo prima di addormentarmi, prima che quelle piccole tenaglie divorassero l'ultimo brandello del mio corpo.
L'evento che più avrei legato a terribile sofferenza, alla più indicibile tortura, si era trasformato nel mio più grande regalo.
Proprio quelle zampette pelose che salivano le gambe, sul corpo, lungo le braccia.
Quei passettini brevi e leggeri che mi provocano solletico, mi avevano ricordato il grano;
infondo morii felice, ecco perché il tutto è veramente bello.


CITAZIONE

Tommaso Valbasso
Energie • 100%.
Stato Mentale • Sofferente.
Stato Fisico • Incolume.
R&C•375 ○ A&V•325 ○ P&Rf•150 ○ P&Rm•500 ○ Ca&M•250


Note • Ammetto che può sembrare particolare come post, ma vi assicuro che la musica ha scritto per me. L'ho sentita qualche giorno fa ad un concerto e le immagini si sono create da sole. Dopodiché, senza che ve ne fosse un motivo, ho avuto un irrefrenabile impulso di utilizzarla per questo post. Lo so che non è la morte classica che ci si aspetta, ma penso che sia bello anche presentare un modo di morire "diverso": un predominio cioè di un ricordo particolarmente significativo, che ci accompagna verso il sonno eterno.


 
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view post Posted on 25/5/2011, 22:52
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Like a paper airplane


········

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Aveva le palpebre serrate ma non come quando si dorme, bensì con forza, con tutta la propria forza. E le orecchie tappate con le mani, i palmi premuti contro di esse fino quasi a provarne dolore. E il viso era affondato nel petto al tempo stesso gelido e sudato di lui, le labbra tremanti che gli sfioravano la pelle, l'intera figura raggomitolata contro il suo fianco in cerca di una protezione che lui forse non avrebbe saputo darle.
Perchè lui non conosceva la pietà. Perchè era stato sbalzato lì come una statua improvvisamente dotata di volontà, ma priva di qualsiasi sentimento meno grezzo delle più animali passioni.
Forse era la mano di lui quella che quasi con imbarazzo le cingeva la schiena, cercando inutilmente di fronteggiare quella debolezza inaspettata. Forse erano state le sue dita poco prima – o forse giorni, o forse mesi prima, chi avrebbe potuto dirlo? – ad asciugare le sue lacrime bollenti.
Era come un cucciolo impaurito, le membra contratte scosse da frequenti tremiti, ogni centimetro di pelle che tentava di aderire all'altro il più possibile. Il tentativo infantile di sfuggire del tutto a quel luogo e a quel mondo.
Il tentativo fallimentare.
Perchè nemmeno in quel silenzio artificiale, in quel buio, era riuscita a scacciare le voci e le immagini. Ritornavano continuamente, come attori mai stanchi di salire sul palco.
Sentiva quel grido. Un grido apparentemente immenso, un grido Golia, un grido gigante che premeva enormi mani callose contro la parete del suo cranio cercando di frantumarla e sfuggire all'esterno. Ed era il grido del suo compagno, avvolto da decine di immonde creature zampettanti. E i colori erano nero, rosso, il biancore della sua pelle, l'ultima lama luminosa del suo sguardo.
Lo aveva fatto per lei come un folle, forse pensando così di liberarsi dal proprio debito. E invece si era imprigionato per sempre lì dentro, una voce tra le altre. A gridare il proprio strazio. A pronunciare pacatamente la propria condanna.
Per lei.
Aggiungendo una colpa a tutte le altre. Erano come piccole perle nere su un pavimento candido. Così tante da ricoprirlo. Una bambina dai capelli corvini giocava con esse, senza mai romperle, con una cura che le era naturale. Quella bambina alzava ogni tanto occhi tristi, occhi ricolmi d'attesa. E lei non poteva tornare.
Un mugolio le sfuggì dalle labbra.
La mano la premette un poco di più al riparo di quel goffo abbraccio.
Aderì a lui, come se cercasse di leggergli addosso una pergamena senza parole. Non avrebbe trovato la propria soluzione dove le sue dita lo toccavano, e nemmeno tra quelle labbra che desideravano baciarla. Che la volevano. Perfino in quel momento. E lei lo sapeva, perchè percepiva il lieve tremito di desiderio che lo scuoteva tutto.
Erano soli. In una stanza completamente buia. Tanto scura che se strizzava le palpebre riusciva a far comparire nugoli di lucciole colorate. Non c'erano finestre. Non c'erano vie di fuga. Perfino le emozioni ristagnavano sul pavimento sudicio. Erano emozioni umide.
O forse non erano soltanto emozioni. Perchè quella che le inumidiva le cosce era più della sua paura, ne era la manifestazione acre, sfuggita in un grido quando aveva visto per la prima volta quel luogo. Lei sapeva come andavano le cose in luoghi come quello. Sapeva come a lungo andare le segrete voglie si arrampicassero negli angoli, discendessero dal soffitto e prendessero forma.
La forma di due occhi.
La forma di un ghigno sorridente, di due mani sottili e fameliche, curiose. Pronte ad avventarsi su di lei come artigli di una fiera.
E un grido. Ed era suo. Allora.
E uno squittio. Ed era suo. Ora.
Ed era di nuovo contro di lui, di nuovo preda dell'incubo. Labbra secche si posavano sui suoi capelli da troppo non lavati. Parevano ignorare il suo sudore e la sua sporcizia, parevano andare oltre. Era ciò che si era cercata, ciò che aveva voluto.



Non lasciarmi mai.



Ma lo aveva solo pensato, e lui non avrebbe potuto udirla.



Salvami.



E avrebbe voluto dirlo. Ma lo disse la porta per lei, cigolando straziata quando mani possenti la spalancarono. Non alzò lo sguardo, perchè non le interessava. Ritrasse invece le gambe, le belle lunghe gambe che celavano un fiore ormai sciupato da troppi sguardi, e se le portò ancora più vicino al petto. Perchè lui non potesse sfiorarla, perchè l'ombra se la portasse via come un ricordo lontano.
Via da quel dolore.
Via verso la bambina con le perle che la aspettava.



Sto arrivando. Sto...



Qualcosa di morbido la colpì in viso.
Seta. Velluto.
Qualcosa dentro di lei riconobbe la materia, registrò la realtà, le aprì gli occhi. Sete e velluti che anche nella penombra portavano i suoi colori. Che profumavano di pulito, del tepore della casa di una lavandaia.
Alzò il proprio sguardo smeraldino e tagliente sul loro visitatore, ancora senza abbandonare la propria posizione. Aveva gli occhi vacui, questo vide lui, vacui come di chi sia ancora incerto sulla soglia di un mondo o dell'altro.

Forse sarebbe morta così, questo sperò, impazzita dentro se stessa senza possibilità di uscire mai più. E li avrebbe liberati di un grosso peso.
Ma l'aveva sottovalutata. O forse semplicemente aveva mal interpretato quello sguardo. Perchè d'improvviso una mano si mosse afferrando un lembo della veste, stringendolo come una scialuppa con cui salvarsi dal naufragio. Esitò, osservando con un brivido la consapevolezza scivolare dentro quella donna folle e misteriosa.



Alzatevi e vestitevi” disse duramente “Ho bisogno di voi”.



Lei lo guardò in silenzio, senza espressione. Cenere guardò lei, quasi ne aspettasse il verdetto.
Trenta secondi, forse meno, in cui Cheval pensò che sarebbero divenuti parte di un'immagine di ritratto.
Poi un sorriso sornione, suadente, schifosamente femmineo si disegnò sul volto di quella che non era certo una fanciulla. Le gambe da cerbiatta si ripiegarono sotto i glutei, consentendole di alzarsi con una grazia innaturale. Non mosse nemmeno un passo verso di lui, ma inclinò il collo, lasciando che i capelli le scivolassero in un'onda fiacca lungo la schiena.
Era solo un ricordo, un miraggio, una pittura offuscata da anni di ceneri e d'incuria. Ma da sotto si poteva intravedere quale fosse il suo potere.
Si vedeva chi avesse il comando.
Il magistrato si scoprì ad odiarla. Tutto in lei, dalla smorfia di trionfo ingiustificato alla lieve esasperazione nei gesti, era elegante e ricolmo di una nota, quasi un aroma, che lo disgustava.
Poi parlò. E la sua voce era come miele, troppo dolce, troppo appiccicoso, semplicemente troppo.



Pensavamo ci avresti eliminati tutti uno ad uno.
Che fossimo terribilmente colpevoli.
Ma evidentemente hai cambiato idea
”.



Dalys fece una pausa.
Rischiava come una piccola fiamma in balia di un fiato capriccioso. Avrebbero perso tutto se solo avesse fatto un passo falso, se la sua danza fosse stata interrotta. Al suo fianco, Zephyr le strinse il braccio con una forza convulsa. La disapprovava, o forse semplicemente la amava troppo per consentirle di rischiare.
Vide l'uomo stringere le nocche fino a renderle livide, ma seppe che non li avrebbe sfiorati. Lo seppe dalla linea delle sue labbra. Dura e intransigente. Ma anche insicura.
Aveva bisogno di loro. E sarebbe stata la chiave della loro fuga.
Si inchinò lievemente, più con scherno che con rispetto, mostrando le curve e i segreti di quel lascivo omaggio. Ambedue gli ascoltatori sobbalzarono. Ognuno per un motivo diverso, per aver intravisto o forse solo immaginato.



Ci dica dunque, nobile accusatore. Quale compito ci spetta?
E siate breve”.



Ora anche l'angelo aveva preso coraggio. Ammiccò non vista, sentendosi improvvisamente sicura di sé. Non era più la stanza buia, non era più la reclusione e la morte. Era l'ingresso a una sala del trono, a una casa accogliente. E la sua bambina la aspettava al di là.



Un uomo ha commesso un grave crimine, mettendosi in combutta con i nostri nemici.
Lo avete visto nel tribunale. È l'uomo che lei, signora, o forse dovrei dire tu, sgualdrina, hai cercato di sedurre con le tue arti demoniache
”.



Desiderò schiaffeggiarla non una, ma più volte, finchè non le fosse sgorgato il sangue dalle labbra o avesse implorato pietà.
Desiderò ridurre il suo volto a una collezione di lividi e tumefazioni e chiederle gridando se avesse ancora voglia di condurre quello sporco, logorante gioco di bellezza.
Se volesse ancora resistergli.



A voi il compito di trovare le prove della sua colpevolezza, recuperandole dal suo studio.
Questa sera ci sarà un ballo, e forse perfino due insetti luridi come voi riusciranno ad entrarvi.
Portatemi ciò di cui ho bisogno e – forse – sarete ricompensati
”.



Cenere fissò sull'interlocutore le proprie iridi scarlatte. Tra le dita aveva ancora il corpo di lei, ma non ne percepiva più il terrore.
L'ombra tra loro pareva suggerirgli mille possibili usi di quel luogo, nessuno riferibile, tutti accavallati nella sua immaginazione. Grovigli di gambe, braccia e baci rubati tra soffocati sospiri. Quello si aspettava di cogliere nel momento in cui lei si fosse calmata. Una volta che lui fosse riuscito a placarla.
E invece giungeva quel maledetto carceriere a portargliela via, ridonandole apparentemente il sorriso.



Mi sembra solo uno spreco di tempo. Del nostro tempo”.
Ma ugualmente accetteremo”.



Non ebbero bisogno di guardarsi. Lampi di sdegno si riversarono su di lei, che resistette come un giunco indomito nella tempesta.



Abbiamo bisogno di una cosa soltanto”.



Un battito di ciglia, mentre la lingua rapida di lei saettava sulle labbra.
Cheval la guardò soffocando le proprie emozioni per riuscire a dominare la voce.



Che cosa?



La sua voce era un gracidio reso stridulo dall'ira.



Un bagno”.

---------



La prima danza era già iniziata e gli ospiti parevano tutti ormai disposti nella sala da ballo, intenti a cercarsi un compagno o una compagna con cui sfoggiare la propria galanteria.
Il maggiordomo si grattava di nascosto il volto grigiastro, incenerito chissà dove e chissà quando, lasciando che le dita ossute penetrassero negli squarci che gli restavano al posto del naso.
Non c'era niente di interessante lì, non più interessante del solito. Ci sarebbe forse stata una rissa, e quello avrebbe potuto essere un buon



E ultima viene la morte.
O così vorreste.
Perchè è lei che quelli come voi più vogliono.



La guardò per un istante.
E avrebbe giurato fosse vestita di rosso. Uno scarlatto e grigio familiare.
Ma doveva essersi sbagliato.
Perchè ora indossava un lungo vestito di velluto nero, che le ricadeva aderente sul seno e sui fianchi. Un velo le copriva il volto, poco più che uno scheletro candido, e lunghi capelli corvini scendevano setosi fin quasi alla vita.
Era bella, anzi bellissima, perchè le sue ossa parevano aver superato lo stadio in cui la pelle si decompone e si sfilaccia in maniera disgustosa. Perchè le sue membra parevano non aver conosciuto l'inferno delle fiamme.
Una corona d'argento le scivolava tra le ciocche, rubandone la simmetria come una falce di luna fa con la notte.
Sorrideva, ne era certo pur non avendo lei labbra, e si muoveva con grazia innaturale. Sulla sua spalla un corvo, pennuto dalle piume di pece, gracchiò una volta.
Ed era bellissima, davvero, per quanto si potesse stentare a crederlo.
Tutti trattennero il fiato un istante. E poi fu di nuovo ballo.

Cenere espresse il proprio disappunto con un gracchiare roco. Era tutto ciò che gli restava da fare, perchè l'idea di lei in fondo gli era piaciuta.
Ma non lo avrebbe ammesso mai, non avrebbe mai manifestato davanti a lei ciò che veramente provava in quel momento, stando con le mani – o zampe che fossero – a contatto con la sua spalla.
Era meravigliosa anche così, anche con quell'aspetto che in un attimo era mutato, lasciando di lei l'immagine futura, remota e premonitrice.
Avrebbe rabbrividito, se solo avesse potuto.
Ma no, non poteva.
Non poteva perchè lei gli aveva esposto il proprio piano senza lasciarlo ribattere, immersa nell'acqua tiepida che le era stata preparata. Perchè quando lui si era chinato su di lei per protestare, lo aveva afferrato e baciato quasi con violenza, possessiva e volgare come sempre, impedendogli di esporre la propria idea, facendolo cedere come mura d'argilla sotto i tiri di una catapulta.
Sarebbe finita male, e lui lo sapeva.
Sarebbe finita malissimo.
Ma lei continuava a sorridere, certa di quanto aveva ideato. Gli parve quasi di cogliere lo scintillio del suo sguardo in quelle orbite vuote, di percepire l'eccitazione dentro di lei, l'aspettativa che le faceva contrarre e distendere i muscoli della schiena.
L'aveva percepito quando ancora era se stessa, e non dubitava continuasse ancora.
Era finalmente diventata ciò che aveva sempre sognato in fondo.
Utlima è venuta la morte, Danzatrice.
Verrà anche per te un giorno.

Le dita scheletriche gli solleticarono il collo.
Sì, stava sorridendo, lì, al centro dell'attenzione di tutti. Sorridendo con gli occhi che non erano occhi ma che avrebbe voluto socchiudere.
Ora mancava solo la ciliegina sulla torta.
Volteggiò tra tutti loro, silente dama bruna di quella festa.
Passò di mano in mano con il proprio compagno dagli occhi di fuoco.
Prima o poi sarebbe arrivata abbastanza vicino alla porta che le interessava.
La lingua bagnò labbra questa volta dipinte di rosso, ma che nessuno di loro poteva vedere.
Un vero peccato, questo pensò. E nel pensarlo le si scatenò un piacevole ribollire all'altezza dell'addome.

image



Equipaggiamento: //
Consumi: Medio x2 (-16%)
Energia Residua 100 - 16 = 84%
Danni riportati: //
Azioni: Descrizione introdduttiva della stanza e della missione. Per entrare alla festa Dalys usa Nostalgia, per trasformarsi nella "donna ideale" di un non morto. Questa è la morte, per l'appunto ( mi sono presa in proposito una libertà interpretativa). Con queste sembianze danza per la sala in attesa che posti gemini di capitare nei pressi della giusta porta.
Gems è trasformato in corvo con la pergamena Trasformazione.

Mi scuo se non ci sono immagini ma sono in collegio.

Passive in utilizzo




Autocontrollo ~ Al 10% Dalys non sviene

Ammaliamento ~ Risparmio energetico dall'1% al 5% per le tecniche illusorie e aumento di un livello dei loro effetti

Intimità ~ Abilità passiva che induce fascino nell'osservatore

Dominio ~ Equilibrio su qualsiasi superficie

Danza di Salomè ~ Sfuggevolezza dei movimenti (abilità passiva)

Equilibrio ~ Equilibrio su qualsiasi superficie



Attive Utilizzate



Nostalgia ~ Ogni uomo si vanta con i propri compagni, in taverna o prima della battaglia, parlando di quella donna, proprio quella, che gli ha rubato il cuore. Ipocriti, pensa la Rosa, ipocriti. Eppure grande è il potere che tale donna, mutata d'aspetto grazie al desiderio del proprio amante, può esercitare. E così anche la danzatrice, capace di trasfigurare il proprio aspetto nell'arte, la geisha, bianca maschera di cera plasmata dai desideri del proprio mecenate, potrà ricreare il desiderio. Essa riuscirà, sfruttando il desiderio del proprio bersaglio, a ricoprirsi di un incanto che le faccia assumere l'aspetto fisico della donna che egli avrà maggiormente amato o che maggiormente desidera, acquistandone anche il tono della voce e qualsiasi altro dettaglio possa contribuire ad indentificarla.
Naturalmente la trasformazione, creata grazie all'abilità della Rosa, sarà puramente illusoria e non modificherà il reale potere, agilità o forza della ballerina.
Come reagirai, uomo, vedendoti colpito dove sei più debole? Questo si chiede la Rosa, già oggetto dei più sfrenati desideri, rigirando l'anima del proprio bersaglio tra le dita.
[Consumo Medio, dura finchè è presente il bersaglio e coinvolge anche i terzi presenti sulla scena, sempre finchè il bersaglio è presente.]

 
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Tristàn Cousland
view post Posted on 30/5/2011, 21:16




SPECIAL CHAPTER


The black hole forever mine.
I need fear.
Push me out; oh be brave!
If you could be the things I need
I'll crawl through knives;
These knees, they bleed for you.
Feed the lie. Force the reason.
Leave me in doubt.
Need some motivation.
It's burning. It's for me to decide.
If flames will reach heaven tonight.

In Flames



«Noooo! Questo processo è una farsa!»
Tuonò impetuosamente Tristàn con tutto il fiato che aveva in corpo non appena venne emessa la loro sentenza di morte.
Oscillò in avanti, quasi volesse scagliarsi contro il presunto uomo di legge, incurante delle catene che gli avrebbero effettivamente impedito ogni azione offensiva. Non aveva con sè la sua spada, nè la sua armatura: non sarebbe mai uscito vivo da quell'aula se avesse fatto affidamento esclusivamente alle sue capacità combattive, eccessivamente compromesse dalla totale mancanza di equipaggiamento.
Quell'uomo aveva messo in piedi quel finto processo per una semplice - ed inutile, per coloro che si trovavano sotto giudizio - questione di forma, perfettamente consapevole che gli imputati non sarebbero comunque mai usciti vivi dalle massice porte del tribunale.
Si ritrovò a meditare, trattenendo a stento l'ira che dilagava vergognosamente sul suo cuore, una volta puro, su quanto fosse profondamente errato il sistema grazie al quale un giudice poteva amministrare la pena di morte con così tanta semplicità, senza che nessuno controllasse e limitasse le sue decisioni. Più che un uomo di giustizia, ben deciso a scovare il vero, nonostante le apparenze e le presunte prove, agli occhi di Tristàn appariva come un cane rabbioso, disposto a tutto pur di raggiungere lo scopo che avrebbe placato i fantasmi della sua coscienza. Era innocente, tuttavia la sua uccisione - ne era certo - avrebbe saziato la sete di giustizia di Cheval, nonostante i reali colpevoli si trovassero ancora in libertà. Anche nel Ferelden vi erano sì palazzi dove veniva amministrata la legge, tuttavia gli unici a poter mandare a morte un uomo erano i Bann e il re in persona, individui reputati da tutti sufficentemente saggi e incorruttibili, quindi in grado di punire con estrema precisione, senza mai abusare dei propri privilegi, senza mai violare il diritto di un essere umano. Andava, però, anche notato come nella sua terra natale erano rari gli assassini che arrivavano dinnanzi ad una corte: la giustizia sommaria, la vendetta privata era largamente diffusa, indipendentemente dal rango sociale dei coinvolti.
L'indole umana è però estremamente mutevole.
Se un giudice, in un fastidiosissimo eccesso di zelo, aveva scelto di condannarli a morte senza porsi alcun rimorso, quell'altro, sicuramente ben più intelligente - e forse spietato -, intervenne sorprendentemente a loro difesa, proponendo un'alternativa. Un viscido approfittatore, anch'egli convinto della loro colpevolezza ma disposto a conceder loro la grazia se avessero servito il regno.
Nonostante la tensione, al cavaliere non sfuggirono alcuni piccoli dettagli che lo portarono a capire che tra i due uomini di legge non doveva correre buon sangue. Dovevano avere due idee di giustizia completamente differenti, il che doveva portarli spesso a durissimi scontri nel momento in cui andavano sancite le sentenze.
Serrò le mascelle e si irrigidì quando giunsero ad un compromesso: ne avrebbero eliminati due, mentre gli altri sarebbero stati utilizzati per i loro scopi. Onestamente dubitava che avrebbero scelto di eliminarlo, infondo era stato quello più ragionevole, tuttavia temette per Rekla, la quale con il suo scoppio di furia aveva attirato parecchia attenzione su di sè. Lanciò un sguardo interrogativo a Viktor, non trovando però alcun sentimento nei suoi occhi: non aveva aperto bocca, come se davvero non gliene importasse nulla di ciò che gli sarebbe accaduto. Timida rassegnazione - piuttosto improbabile, conoscendolo - o assoluta fiducia nelle proprie capacità?
Gli istanti che seguirono furono carichi di tensione, almeno da parte del cavaliere, il quale sarebbe stato disposto a tutto pur di non morire in quel modo così poco onorevole, lontano da tutto ciò che amava, da tutto ciò per cui aveva sempre combattuto.
Le parole, quando pronunciate, rimasero sospese nell'aria e nulla accadde per una frazione di secondo.
Il vecchio che non ha parlato.
Non gliene importò nulla del secondo: era stato un pazzo, un folle a parlare in quel modo, era andato incontro alla Morte e le aveva donato una spada, scoprendo il petto e supplicandola di colpirlo. Ma il cavaliere germanico, lui no, lui non aveva fatto alcunchè per attirare l'attenzione.
Lo spettacolo cui assistettero fu agghiacciante.
«Vi... Viktor...»
Mormorò sconvolto, mentre il volto si pietrificava, pallido come il puro marmo.
Il borioso Viktor von Falkenberg era un guerriero, un nobile, un ufficiale del clan Goryo, una di quelle rare creazioni divine dotate non solo di un'astuta intelligenza, ma anche di un potere in grado di piegare intere nazioni. Sarebbe dovuto morire sul campo di battaglia, nel mezzo della mischia, tra i fiotti del sangue nemico, tra gli arti mozzati dei nemici, circondato da centinaia di avversari, così da ottenere una morte eroica: quella sarebbe stata la fine migliore, l'ultimo atto della tragedia che era stata la sua vita, la degna conclusione che lo avrebbe elevato da uomo a Leggenda.
Quando la vita venne estirpata dai cadaveri fino a poco prima ancora pieni di vita, Tristàn trattenne a fatica un conato di vomito. Non esitò quindi a seguire le guardie, accanto a Rekla. Ora sapeva di cos'erano capaci, ora sapeva che avrebbe dovuto stare ai loro ordini fino a quando non fosse riuscito a trovare un piano d'azione. Ce l'avrebbe fatta, il processo era superato, la strada - pensava - sarebbe stata tutta in discesa.
Non poteva sapere quanto stesse sbagliando.

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L'essere umano, per sua stessa natura, è portato a temere l'ignoto, tutto ciò che non può logicamente comprendere - per questo, ad esempio, i Maghi venivano tenuti sotto costante controllo dei Templari - ciò che non può affrontare con lucida chiarezza. Ciò che esula dalla sua conoscenza, ciò che lo costringe a venire a patti con un mondo apparentemente irreale, magico e quindi pericoloso.
Tristàn, ovviamente, non era immune allo sconforto causato dal ritrovarsi nel bel mezzo di una guerra della quale non sapeva più del poco che il sovrano del Toryu - o del continente stesso? - aveva detto loro quando li aveva richiamati alle armi. Paradossalmente, avrebbe preferito ritrovarsi nuovamente alle prese con un Arcidemone. In passato, infatti, durante la guerra che aveva dilaniato le sue terre, la malvagità cui mettere fine era incarnata in una grottesca e fisica figura di dragone, quindi una creatura cui sarebbe stato possibile tagliar via la testa per porre fine a tutto. Aveva sempre avuto la certezza di chi fosse il nemico, la certezza di dove avrebbe dovuto affondare la lama, di quali carni avrebbe dovuto tagliare, di quali ossa avrebbe dovuto rompere.
Attualmente, invece, era stato catapultato nel centro di uno scontro tra invisibili titani, in cui faticava a distinguere le due - o più - fazioni coinvolte. Un conflitto dai termini solo vagamente accennati. Nel Ferelden, per quanto critica era stata l'invasione delle Darkspawn, aveva sempre tenuto saldamente il suo destino tra le mani, era sempre stato un indiscusso protagonista.
Da uomo chiave, a semplice pedina. Ancora una volta la sua vita veniva capovolta.
Le lucenti spade, assicurate con uno spesso laccio di cuoio alla cintola, emettevano ad ogni passo un familiare sferragliare: quel rumore, per quanto alle orecchie di stolti sarebbe potuto sembrare fastidioso, lo faceva star bene, era il segno che qualsiasi avversità gli fosse capitata avrebbe potuto affrontarla al meglio delle sue capacità. L'armatura, pulita ed in perfette condizioni, copriva ogni centimetro del suo possente corpo, facendolo sembrare un castello vivente in movimento. La visiera dell'elmo, alzata, lasciava intravedere il volto, bruciato dal caldo e sfigurato da una barba incolta, chiarissima. Il pennacchio ricadeva all'indietro, mosso leggermente dalla tenue brezza.
Era tornato ad essere un uomo.
Nulla sembrava rimasto della bestie in catene che, contro la sua volontà, era stato.
Cavalcava fiero sullo stallone nero che gli era stato fornito, un magnifico esemplare dal manto scuro come la notte. Nonostante inizialmente li avessero trattati come animali, dopo aver raggiunto un accordo erano stato forniti di ogni cosa avessero chiesto, nonchè di tutti i bene in precedenza confiscati.
Cavalcava verso l'Ignoto.

Non erano più prigionieri in attesa del verdetto, erano cavalieri al servizio di una città sconosciuta, in missione per lo stesso governante che aveva evitato loro il peggio. Lo stesso che però aveva causato la morte di Viktor e dello sconosciuto che non aveva esitato a prendersi ogni colpa. Forse, se erano ancora vivi, era anche grazie al suo sacrificio, al gesto che, seppur tanto folle, aveva limitato la quantità di sangue che era stato sparso.
Con profonda ammirazione, salutò mentalmente il suo amico ormai morto, sperando che si trovasse in un posto migliore. Sperava di raggiungerlo il più tardi possibile.
Voltò lo sguardo e posò gli occhi sulla pesante borsa in pelle marrone che era stata legata alla cavalcatura: al suo interno vi erano delle speciale armi date loro da Raeghar in persona.
Erano sì scampati ad un esecuzione sommaria, ma si erano ritrovati divisi e in prigione. Lì, Tristàn e Rekla passarono diversi giorni senza mai parlare molto, entrambi troppo riservati e affliti dai propri problemi. La donna, in più, gli era sembrata fin troppo asociale e schiva, tanto che aveva sempre evitato ogni suo tentativo di dialogo. Il Custode aveva intuito che doveva nascondere un qualche segreto, un qualcosa che avrebbe potuto far cambiare la sua opinione su di lei, tuttavia aveva deciso di non insistere e di lasciarle fiato. Erano già in un enorme guaio, le domande avrebbero potuto aspettare.
Erano stati giorni di ansie e preoccupazioni.
Non ricordava con esattezza quante volte avesse attraversato nervosamente i pochi metri quadrati a loro disposizione, imprecando per quella inutile perdita di tempo: non era quello il luogo in cui sarebbe dovuto marcire un cavaliere. Si sarebbe dovuto trovare al fianco di Ray, alla ricerca del tesoro, alla ricerca del potere.
Una mattina si era finalmente presentato loro Raeghar. Quel pomposo ufficiale, nascondendo a malapena il sadico divertimento che doveva star provando, aveva fatto loro un patto: come segno di redenzione si sarebbe dovuti recare in una caverna piuttosto distante dalla città per catturare una creatura piuttosto rara: un Bebilith.
Tristàn era una persona ragionevole, che avrebbe riflettuto a lungo su quella proposta, tuttavia il desiderio di lasciare quella prigione lo fece accettare con estrema impulsività: meglio morire che vivere giorno dopo giorno sapendo di non star facendo nulla per la sua famiglia.
E anche se fosse morto, sarebbe stato ugualmente grato al Creatore per avegli dato la possibilità di ricevere una fine dignitosa, con l'arma in pugno.
Ci vollero diverse ore di viaggio per arrivare al luogo in cui si sarebbero decise le loro sorti. Durante il tragitto, nessuno parlò. Nemmeno le quattro guardie mandate con loro. Queste avevano cavalcato divise in due gruppi: due avevano aperto la strada, mentre le restanti avevano galoppato alle spalle dei prigionieri, così da non dar loro alcuna possibilità di fuga.
Quando uno di questi annunciò con la sua voce roca e burbera di essere arrivati Tristàn si sentì sollevato. Quell'attesa era snervante.
Smontò da cavallo con un agile balzo nonostante l'armatura - sin da bambino era stato abituato ad indossarla, quindi il suo corpo si era perfettamente abituato a quell'ammasso di metallo che tante volte lo aveva salvato da un tragico destino. L'animale si imbizzarrì, brontolando e impennandosi, calmandosi solo quando Tristàn lo afferrò per le briglie e prese ad accarezzarlo dolcemente sul muso, calmandolo come gli aveva insegnato suo padre. Aveva forse imparato prima a cavalcare che a camminare. Una volta calmata la bestia, lasciò le redini ad una delle guardie che li avevano scortati fin lì, afferrando la sacca con tutto ciò che sarebbe stato necessario alla cattura: due pesanti reti, munite di segmenti metallici molto pesanti che avrebbero impedito alla preda di liberarsi e una boccetta con un potente estratto d'erbe; il contenuto di questa, una volta versato sul muso della bestia, l'avrebbe fatta cadere in un profondo sonno, rendendo così possibile il suo trasferimento.
Solo allora, con la boccetta trasparente dal liquido nerastro, si rese conto di non avere idea dell'aspetto dei loro nemici. Aveva chiesto a Raeghar una vaga descrizione, ma questi si era limitato a lanciargli un'occhiata divertita, spiegando che quando si sarebbero trovati dinnanzi a loro non avrebbero faticato a riconoscerli. Quelle parole non lo avevano rassicurato per nulla.
«Voi non venite?»
Domandò riferendosi agli altri uomini, i quali effettivamente non si erano nemmeno degnati di smontare. Questi, scoppiarono in una fragorosa risata che spiazzò non poco il biondo cavaliere: dissero che non avevano alcuna voglia di divenire il pasto di quei fottuti ragni.
Sputò ai loro piedi in segno di disprezzo: codardi, maledetti codardi.
Un attimo dopo varcava sicuro l'entrata della caverna. Cominciava il loro viaggio verso l'Inferno.
Avanzarono adagio con le armi sguainate, dandosi reciprocamente la schiena.
Fortunatamente alcune crepe nel soffitto permettevano ai deboli raggi solari di penetrare, illuminando seppur debolmente l'ambiente, fin troppo angusto e claustrofobico. Tunnel cosparsi di ossa, animali ed umane mischiate in una grottesca rappresentazione della vittoria della morte sulla vita, si alternavano ad ampi spazi circolari, in un continuo susseguirsi di rumori lontani e impossibili da definire.
Ogni passo era compiuto con estrema cautela, posando un piede dopo l'altro sulla ruvida roccia, nella speranza di non far rumore. Respiravano appena. L'uomo cercò di scrutare negli angoli più oscuri, cercando di distinguere qualcosa fra le rovine. Le ombre danzavano beffarde nel silenzio. Si mossero furtivamente lungo quello che gli parve un sentiero artificialmente scavato nella pietra, risalente probabilmente ad un periodo precedente all'insediamento dei Bebilth.
Un rumore di scatti concitati si levò tra le ragnatele immerse nel buio intorno a loro. Echeggiarono nella caverna e li circondarono.
Un sibilo acuto, come il fischiare di una freccia nel cielo, fece voltare di scatto il Custode, in tempo per vedere la donna colpita alla gamba da un'orrenda creatura, apparsa dal nulla.
Come avesse fatto a muoversi così silenziosamente nonostante l'enorme stazza era un mistero.
Si voltò nuovamente, in tempo per assistere all'apparizione di altri due aracnidi.
Il tempo sembrò congelarsi. Erano accerchiati.

Vedendo quelle creature, i Bebilth, lo sguardo del cavaliere si indurì, cercando subito dopo con la coda dell'occhio Rekla: la vide impegnata in un difficile corpo a corpo con il primo di essi. Avrebbe voluto aiutarla, ma se avesse voltato le spalle per lanciarsi al suo salvataggio sarebbe rimasto del tutto scoperto, inerme, alla totale mercè delle zannute bestie. Cominciava a capire perchè avessero chiesto a dei forestieri, accusati di gravissimi crimini, di compiere quella missione: nessun soldato, nemmeno il più impavido mercenario, si sarebbe mai spinto ad accettare una missione di quella portata, dove le possibilità di sopravvivenza erano appese letteralmente ad un filo.
Le bestie non persero tempo. La prima delle due caricò il cavaliere, forse attirato dalla sua lucente armatura, tentando di travolgerlo grazie al suo peso, nella speranza di schiacciarlo con le zanne, impalandolo così contro una parete rocciosa. Rabbrividì vedendosi caricare da così tanta mostruosità. Strinse saldamente le spade, divaricò le gambe ma non si mosse, conscio che avrebbe schivato solo all'ultimo momento, evitando così che quella potesse puntellarsi sulle zampe e travolgerlo in ogni caso. Una frazione prima che impatassero, e quando già poteva odorare l'agghiacciante tanfo proveniente dal corpo di quello, Tristàn si lanciò orizzontalmente verso la sua destra, rotolando sicuro sul lastricato, con le braccia strette ai fianchi, senza ferirsi in alcun modo con le sue stesse armi. Il Bebilth, con un tonfo fragoroso, andò a sbattere contro la nuda parete, perdendo per istante la concentrazione ed il senso dell'orientamento: ciò basto al Custode per colpirlo alle spalle. Risvegliò Dumat, la quale si illuminò di luce propria, e bruciò rapidamente la distanza che lo separava dall'obiettivo: portò in avanti la gamba destra, il busto seguì lo slancio e si piegò, mentre la sinistra restava saldamente ancorata al terreno con la sola punta, evitando di sbilanciarlo eccessivamente: portò un doppio fendente, incrociando le braccia, alle spalle dell'aracnide, tranciandogli di netto un paio di arti posteriori. Un icore biancastro sprizzò dalle mutilazioni, mentre il Beblith si lasciava andare ad orrendi lamenti, i quali risuonarono ancor più lugubri a causa dell'eco. Tristàn avrebbe potuto finirlo, saltargli in groppa e piantargli un metro d'acciaio nel cranio, tuttavia non poteva rischiare una simile mossa senza che qualcuno gli coprisse le spalle dalla seconda minaccia. Così, ritrovando stabilità su ambedue le gambe, volteggiò su se stesso e riuscì giusto in tempo ad incrociare sopra la testa Dinastia e Dumat, le quali si frapposero all'assalto del secondo Bebilth, il quale era strisciato alle sue spalle e aveva tentato di affondare i suoi micidiali denti nella schiena del biondo. I bicipiti di Tristàn si contrassero in uno sforzo sovrumano, mentre cercava di tener testa alla pressione che l'avversario esercitava per rompere la sua guardia. Dirignò i denti e non si lasciò andare. Sentiva il cervello pulsargli, esplodergli dentro il cranio a causa dello sforzo. Lo stallo - che avrebbe perso - non durò però a lungo. L'aracnide, inviperito per quella sua strenua resistenza, si ritrasse e lo spazzò via con un colpo di zanna. Questa volta l'uomo non potè far nulla per evitarlo e si schiantò poco lontano, contro un pilastro naturale di roccia, rompendosi quasi la schiena al momento dell'impatto. Cadde a terra e si accorse di star sanguinando. L'armatura era stata squarciata all'altezza del petto, proprio dove la zanna artigliata del Bebilth lo aveva raggiunto: non era grave, perdeva solo un po' di liquido vitale. Il dolore maggiore era dovuto allo schianto, attutito solo in parte dalla protezione. A fatica si rimise in ginocchio, boccheggiando pateticamente e sfruttando Dumat come punto d'appoggio. In linea di massima sapeva di essersi rotto qualche costola; conosceva bene quella sensazione, quell'intenso dolore, quasi la cassa toracica si stesse espandendo e riducendo convulsamente.
Prima che potesse rialzarsi per fronteggiare la minaccia, prima che ritrovasse la prontezza necessaria, si sentì spingere all'indietro: venne nuovamente sbattuto contro la parete rocciosa alle sue spalle, questa volta intrappolato, in ginocchio. Uno strano calore lo pervase e solo quando guardò il suo petto comprese di essere stato fottuto: il primo Bebilith, nonostante la mancanza delle zampe posteriosi, si era voltato - trascinandosi malamente sugli arti restanti -, aveva prodotto quella viscida sostanza, molto più resistente rispetto alle normali ragnatele, e lo aveva immobilizzato. Tristàn si dibattè come una furia, come un leone intrappola, gonfiando il petto e sbilanciandosi in avanti con tutto il peso, sperando di spezzare quelle bavose catene. Come un elastico, flessibile e resistente, questa si adattò ai suoi movimenti, dilatandosi senza però rompersi, dando solo minimi segni di cedimento.
Se solo avesse avuto del fuoco... i ragni giganti che aveva affrontato nelle Deep Roads si erano rivelati particolarmente sensibili agli incanti di quel tipo... fuoco... gli serviva del fuoco... ma come? Scartò quell'idea, a malincuore, maledicendosi per non essersi portato con sè almeno una semplice torcia. Gli sarebbe tornata molto utile.
Non potendo scappare, non gli restò altro da fare che difendersi come meglio potè.
Il secondo mostro fissò Tristàn con le molte paia di occhi, i quali luccicarono in maniera sinistra, provocandogli un'ondata di brividi di puro terrore. Smise di contorcersi solo quando si vide vomitare contro un'ondata di disgustoso liquido verdastro, il quale fuoriuscì dalla bocca del Bebilth impetuoso come una cascata.
Gli balenò nella mente l'immagine delle ossa che aveva visto in quantità sempre maggiore mentre si era addentrato nei meandri di quella caverna: molti scheletri erano ancora intatti, con sporadici filamente di pelle ustionata ancora saldamente saldati allo stesso tessuto osseo, come se i loro proprietari fossero stati sciolti vivi nell'acido o nella lava. Non avrebbe scommesso che la sua armatura avrebbe resistito ad un simile attacco, quindi chiuse gli occhi, sollevò le spalle e incassò la testa tra esse, proteggendo quanto più possibile il collo; si concentrò e riuscì ad indurire il proprio corpo a dismisura, portando ogni muscolo ad una resistenza superiore a qualsiasi metallo conosciuto.
Quando riaprì gli occhi si sorprese nel vedersi ancora tutto intero. L'armatura era stata sciolta in più punti, la tunica che indossava sotto di essa era bruciata senza oppore la minima resistenza, mentre la sua bianchissima pelle si rivelava per lo più intatta, immacolata. Ciò che però gli ridiede speranza fu il vedersi libero: l'acido aveva sciolto anche le ragnatele che poco prima lo avevano inchiodato.
Balzò in piedi con fierezza, orgoglioso della forza che era riuscito ad esprimere resistendo al temibile assalto. Prese fiato e, proprio mentre gli aracnidi stavano per piombargli addosso, lanciò un urlo spaventoso, che squarciò l'aria e ferì i loro timpani. A loro volta questi presero ad emettere sofferenti versi gutturali, che avrebbero gelato il sangue di Tristàn per tutta la durata della sua vita. Ma in quel momento non ci fece caso, prese a correre caricando - a sua volta - le creature.
Sentiva il fuoco dentro di sè. Si sentiva vivo, con l'adrenalina che pompava ferocemente nel suo sangue, spingendolo ad aggrapparsi con i denti e con le unghie alla vita, spazzando via ogni singolo miserabile che avrebbe tentato di sbarrargli la strada. E con estrema semplicità, mulinò entrambe le lame in una sequenza continua, in una danza di affondi e fendenti, tutti mirati al corpo del Bebilith già ferito. La pellaccia del ragno inizialmente sembrò resistere, deviando i primi due affondi, mentre non potè che cedere dinnanzi al resto delle offensive, portate con decisamente più potenza. La corazza naturale scricchiolò e si ruppe, permettendo al cavaliere di intingere con il loro sangue Dinastia e Dumat. Questa lanciò orride grida, dimenandosi senza però riuscire ad evitare le letali ferite. Un fiumi di bianchi icori si riversò a terra, macchiando l'armatura stessa dell'uomo, il quale non ci fece caso. Tanta era l'intensità con cui colpiva, che non si accorse nemmeno che il secondo Bebilith si era ripreso a sufficenza per erigersi a protezione del fratello.
Lo spadaccino, come dotato di un sesto senso, si voltò in tempo per vedere il ragno trafiggerlo al fianco sinistro con una delle macabre zanne. Affondò nella carne e conficcò al meglio il suo strumento di sofferenza. Non soddisfatto, inclinò il capo, sollevando l'uomo ad una ventina di centimetri da terra.
Tristàn non provò mai un dolore così acuto, intenso e maledettamente prolungato. Sentì la forza abbandonarlo lentamente, un torpore assalirlo e spingerlo ad abbandonare la lotta, a lasciarsi andare al destino. La vista gli si annebbiò e credette di sprofondare in una coma profondo. Niente poteva salvarlo se non l'intervento provvidenziale di Rekla.

Ella, probabilmente avendolo visto in difficoltà, con un sortilegio di cui il Custode non avrebbe mai voluto sapere la natura, evocò delle grottesche creature, non morti, scheletri coperti di stracci e armati con rudimentali e arruginite armi bianche, carne da cannone che doveva nascondere nel numero elevato - ben una ventina! - il proprio punto di forza. Si mossero all'unisono, animate dalla stesse sete di sangue, lanciandosi all'attacco dell'enorme creatura ferita, sciamandole addosso, accerchiandola e prendendo a farla a pezzi. Il Bebilth, già pesantemente ferito, tentò di difendersi e riuscì anche ad eliminare cinque o sei non morti, tuttavia senza riuscire a spezzare la posizione svantaggiosa.
L'unione fa la forza.
Il corpo dell'aracnide, sotto la pressione dell'orda di ombre, si ribaltò sulla schiena, prendendo a frustare in aria le zampe rimaste, fendendo il vuoto e riuscendo solo di tanto in tanto a colpire uno dei numerosi assalitori.
A quella vista, il Custode rinsavì, ritrovando la lucidità nonostante la sofferenza lancinante. Il braccio destro penzolava debolmente ai lati del corpo, incredibilmente con ancora Dumat nel pugno. Strinse i denti e con uno sforzo mostruoso riuscì a sollevarla, calandola poi sulla zanna che lo teneva sospeso in aria, trafitto.
Avrebbe dovuto catturarlo quanto più illeso possibile.
L'affilatissima lama si aprì la strada attraverso la viscida lancia organica, tranciandola di netto. Senza più alcun appoggio, crollò rovinosamente a terra. Un nuovo impatto contro la fredda roccia. Portò una mano al fianco e, nonostante il guanto d'arme, tastò il punto ferito: quando la ritrasse la ritrovò lorda di sangue.
Imprecando, non ancora in grado di rimettersi in piedi, si trascinò quanto più lontano dalla grottesca creatura, arrancando nel suo stesso sangue: la bestia non sembrò però farci caso, troppo impegnata a menar colpi contro le presenze evocate da Rekla, le quali non ressero a lungo quell'impeto feroce.
Tossì convulsamente, sputando bile giallastra e combattendo contro il suo stesso corpo, il quale sembrava non voler rispondere ai suoi comandi, provato fin troppo per continuare nella lotta. Sapeva però che se fosse rimasto lì, inerme, al suolo come un verme, come tale sarebbe stato schiacciato. Forse se fosse riuscito a raggiungere una zona d'ombra, un nuovo buio cunicolo avrebbe trovato salvezza... ma avrebbe fallito la missione e avrebbbe abbandonato Rekla. Non poteva permetterlo, doveva catturare quella schifosissima bestia. Sarebbe stata il suo salvancondotto per la libertà.
Si eresse nuovamente, barcollando incerto sulle game, oscillando pericolosamente come un ubriacone.
Per un lungo istante lui e il Bebilith superstite si fissarono con astio reciproco. Il secondo, in particolare, proruppe in striduli versi, agitandosi sulle zampe posteriori. Dal canto suo, il cavaliere ruotò Dinastia, afferrandola come un pugnale, con la lama grondante di icori rivolta verso il terreno.
Lo stallo non durò a lungo: l'aracnide schizzò nella sua direzione, allungando le zampe anteriori verso di lui, certo di trafiggerlo. Non badò minimamente a Tristàn che, con forza, conficcava la sua arma nel terreno, dando vita ad un vero e proprio terremoto. Era una mossa molto rischiosa, avrebbe anche potuto far crollare l'intera caverna sulle loro teste, tuttavia non aveva scelta. Il ragno deforme si accorse di cosa stava accadendo solo troppo tardi, quando ormai il terreno gli mancò da sotto i piedi. L'intero mondo cominciò a traballare, come se un invisibile gigante lo stesse scuotendo. L'animale cominciò a precipitare nella voragine che andava dilatandosi sotto di egli; tentò inutilmente di bloccare la caduta.
Tristàn, nel frattempo, raccolse la borsa di cuoio in cui erano tenuti gli strumenti necessari alla caduta: doveva agire prima che il ragno trovasse un modo per liberarsi da quella prigione di roccia, prima che potesse inventarsi un escamotagè. Posò entrambe le armi e impugnò le pesanti reti metalliche, trascinandole fino alla voragine. Poteva udire la bestia tentare la scalata, poteva sentire la sua agitazione. Come lo vide affacciarsi, istintivamente gli sputò contro dell'acido, senza però riuscire nemmeno a sfiorarlo, tanto era profonda la buca in cui era caduto.
E fu così che il Custode potè prima bloccarlo con le reti per poi versargli dalla sommità la fialetta con il sonnifero sul muso, facendo crollare il Bebilith in uno stato quasi comatoso, che lo avrebbe tenuto buono per molto, molto tempo.
Crollò a terra, prendendosi la testa tra le mani e godendo del silenzio. Il silenzio era finalmente tornato a regnare.
Ma non sarebbe durato a lungo.

. Una manciata di minuti dopo .



«Rekla, io... non posso... io...»
Mormorò stancamente, con un filo di voce, tentando invano di opporsi al suo desiderio.
Ella non la prese bene ed insistette con fervore, come se solo lei potesse realmente comprendere la gravità di ciò che, invisibile, la stava divorando. Sembrò perdere il controllo di se stessa, venir posseduta da un'entità maligna, sembrò sul punto di aggredirlo. In preda alle convulsioni parve sul punto di attaccarlo: allora capì, per sommi capi. Aveva già assistito a possessioni demoniache, ancora ricordava i gusci di carne vuoti che un tempo erano appartenuti a maghi come la sua Morrigan, violati e controllati da ignobili creature dell'Oblio. Non era un Templare, non avrebbe saputo come comportarsi - questi, tuttavia, non nascondevano che vi era solo un modo per dar pace a colui che cadeva nelle mani di un demone. E Rekla era una di quelle.
Sospirò, frustrato, schifato da ciò che avrebbe dovuto fare, irato nei confronti di Ray che non si era ancora palesato, che dopo averli scelti li aveva spediti in quell'inferno. Raccolse da terra Dumat, la spada della leggenda, la più degna a dare la pace a colei che si era battuta al suo fianco, a colei che aveva sofferto a denti stretti durante i giorni di prigionia, dando prova di eccezionale forza di carattere, specie per una donna.
«Che il Creatore possa avere misericordia.»
Annunciò solennemente, sollevando la spada sopra il capo della donna. La guardò un'ultima volta prima di chinare il capo per nascondere una solitaria lacrima. Avrebbe dovuto proteggerla non solo dagli altri, ma anche e soprattutto da se stessa. Aveva giurato di proteggere le donne, i bambini e gli indifesi. Era un cavaliere. E quello era un altro fallimento.
Trattenne il fiato e calò la lama, piantandogliela nel petto, proprio nel cuore, così da evitarle ogni tipo di agonia. Una morte rapida, giusto il tempo di salutare il mondo che avrebbe lasciato, giusto il tempo per pensare alla propria vita.
Trafitta, cadde a terra, ai suoi piedi, senza un lamento.
In perfetto silenzio e con la più totale apatia a muoverlo, non perse tempo e prese a scavare una fossa. Affondava le nude mani, ricoperte da ferite ed escoriazioni, nella dura terra, aprendosi costantemente nuove e sanguinolente vesciche. La regalità e la bellezza che aveva sempre mostrato erano completamente scomparse, lasciando spazio ad un immagine ben più patetica: Tristàn Cousland, il valoroso cavaliere di Altura Perenne, si era ridotto alla stregua di uno straccione, di un miserabile. Non sembrava più nemmeno un uomo ridotto in quelle condizioni: un guscio di carne vuoto, privato di ogni emozione, con un solo scopo: donare una - seppur minima - sepoltura alla ragazza prematuramente morta per sua stessa mano. Non avrebbe lasciato il suo cadavere in quella grotta, alla mercè degli altri Bebilith, probabilmente nascosti nei tunnel più profondi, dove nessuno avrebbe mai osato metter piede.
Quando ebbe scavato una fossa di almeno un metro, vi adagiò all'interno il corpo della giovane, chiudendole gli occhi e incrociandole le mani sul petto come da tradizione. Si chinò su di lei e la guardò un'ultima volta, pregando il Creatore affinchè trovasse la bontà necessaria ad assolverla e ad accoglierla al suo fianco.
Avrebbe poi ricoperto la fossa e avrebbe così dato l'estremo saluto a Rekla Estgardel.
Si sarebbe trascinato fuori da quell'inferno e avrebbe avvisato i quattro uomini della scorta: avrebbero tirato fuori dalla fossa il Bebilith.
Sarebbe tornato in città. Ma non solo per consegnare il Bebilth.
Sarebbe tornato in città a reclamare giustizia per Viktor, per lo sconosciuto, per Rekla e per se stesso.
Cheval sarebbe morto.



SPOILER (click to view)

[ReC 275] [AeV 275] [PerF 325] [PerM 325] [CaeM 700]
[Basso. 2%] [Medio. 6%] [Alto. 15%] [Critico. 33%]
[Energia. 150%]

Status Fisico: Lacerazione al petto - Una manciata di costole rotte - Fianco sinistro squarciato, trapassato da una zanna.
Energia Totale: 100%
Energia Utilizzata: 33 + 2 + 6 + 2 = 43%
Energia Restante: 57%

Abilità Passive
    ¬L'essenza di un Custode.
    ± Di tutte le razze, i mezzi demoni sono senz'altro quelli più denigrati, allontanati e scacciati di tutti. Proprio per questo, quindi, hanno dovuto imparare a cavarsela da soli e non farsi mettere i piedi in testa da nessuno. A forza di crescere in questo modo, i mezzi demoni si sono abituati a gente che tenta di intimorirli, minacciarli o irretirli e hanno sviluppato quella che potrebbe definirsi una particolare "Abilità razziale". Sono infatti parzialmente immuni alle influenze psicologiche. Non a tutte, si intende, altrimenti risulterebbero atoni e privi d'emozioni, ma senz'altro, a differenza di tutte le altre razze, si lasciano intimorire meno facilmente e persuadere con notevole difficoltà. Il timore provocato dalla vista di demoni o angeli, ad esempio, non avrà su di loro effetto. Sensazioni profonde come forti paure, o tanto grandi, però, avranno comunque effetto. Quest'abilità è una normale difesa psionica di livello passivo.
    ± Con la sicurezza migliora anche il controllo delle proprie capacità combattive; fino a quando il possessore di questo dominio riuscirà a mantenere il sangue freddo e a non lasciarsi prendere dall'ira - o da altre sensazioni che finirebbero con il turbarlo - il suo valore di CaeM risulterà raddoppiato. Questo non influirà nelle sue doti di tiratore ma lo renderà estremamente abile in ogni genere di schivata, affondo o anche nel disarmare il proprio avversario. Chiunque apprenda questa disciplina di scherma risulterà essere un combattete eccezionale e ogni suo duello sarà un vero spettacolo in quanto a grazia e maestria.
    ± Non sempre però la grazia nei movimenti e le abilità di schermidore possono contrastare la forza bruta; cercare di disarmare o anche solo contrastare un bestione di più di due metri con una spada dalle dimensioni più simili a quella di una trave di ferro risulta spesso una missione disperata anche per il combattente più abile. Questo però non vale per coloro che sono diventati sempre più abili in questo stile di combattimento; una delle ultime lezioni impartite dai maestri consiste appunto nel focalizzare la propria calma e il proprio sangue freddo per riuscire a contrastare anche il più forte degli avversari. Fino a quando il possessore del dominio non si lascerà prendere dall'ira o non si lascerà turbare ogni colpo portato con la sua spada conterà come una tecnica di livello basso rendendolo quindi superiore a qualsiasi colpo portato da avversari anche enormemente più forti di lui.
    ± Questa pergamena non conta come una vera e propria tecnica, quanto come un'abilità passiva. Aumenterà infatti i "ReC" del personaggio di 50 punti, diminuendone però i "PeRf" di 25. Esternamente non vi saranno cambiamenti, e il guerriero apparirà come quello di sempre, anche se le sue capacità di concentrazione e i suoi riflessi saranno nettamente aumentati, a discapito di un leggero indebolimento fisico.La tecnica sarà sempre attiva e non avrà un consumo. Un ulteriore vantaggio è quello di permettere al guerriero di poter combattere anche una volta raggiunto il 10% delle energie, senza svenire. Un personaggio normale, infatti, trovatisi con poca energia o nulla, si sentirà spossato o comunque non in grado di combattere. Un guerriero con questa tecnica, invece, potrà tranquillamente continuare ad avanzare, quasi senza sentire la fatica, pur senza più poter utilizzare tecniche che comportano un dispendio energetico, che lo porterebbero alla morte.

Tecniche Utilizzate
    Runa Sacra - Il Custode si concentra sulla propria arma che viene circondata da un alone oscuro, nerastro. L'arma, d'ora in avanti, infliggerà pesanti danni, e lascerà profonde ferite, indipendentemente dallo sfiorare o meno l'avversario, facendo così gravi danni. I danni saranno ulteriormente appesantiti sui demoni, che dovranno prendere le distanze dall'agente, a meno che non vogliano finire male. Il colpo non necessita di una lunga concentrazione, ma di un alto dispendio di energia. Ogni colpo inferto dalla lama in seguito all'attivazione della tecnica, quindi, va considerato come un colpo di livello Medio. Non potrà dividere in due le tecniche scagliategli contro dall'avversario, ma potrà distruggere barriere e altre tecniche difensive di livello inferiore al medio. Il potenziamento dell'arma non influisce per nulla sulla forza fisica o sul controllo e mira del personaggio. La tecnica dura due turni compreso quello d'attivazione, svanendo al termine del secondo turno. Incastonata nella spada. [consumo nullo, incastonata nella spada "Dumat" - 3 utilizzi a duello]

    Runa della Difesa - Basilare ed efficace tecnica difensiva. Quest'abilità ha salvato più volte la vita a Tristàn, il quale è così riuscito ad opporsi anche alle offensive peggiori, restando saldo come una roccia. Il guerriero è in grado di rendere il proprio corpo duro come il ferro, o il più resistente degli acciai. La tecnica può durare diversi secondi, e non richiede né di particolari tempi di concentrazione, né di particolari imposizioni delle mani. Durante l'attuazione non ci si può muovere. Utilissima per bloccare qualsiasi tipo di attacco. La tecnica non va considerata come un power up alla propria resistenza fisica, bensì come una difesa a 360° di livello Alto. Questa tecnica basa la propria potenza sulla PeRf del possessore, e non sulla sua PeRm. [consumo Critico]

    Runa della Parola - Una delle poche tecniche "psioniche" di cui possono disporre i guerrieri. Dopo aver preso un lungo respiro, dalla bocca del guerriero scaturirà un potente urlo di guerra, spaventoso e fragoroso, che si diffonderà per tutto il campo di battaglia, urtando le orecchie delle vittime. Chi dovesse sentirlo, verrà colpito da un breve attacco psionico che - se impossibilitati a difendersi - li stordirà per qualche secondo: giusto il tempo necessario perché il guerriero possa trovare un'apertura nella difesa delle vittime. Le persone influenzate sentiranno un forte giramento di testa e rimarranno scosse per qualche attimo, trovando notevoli difficoltà nell'organizzare la loro successiva difesa. [consumo basso]

    Runa dell'Assalto - Un attacco che dura pochi attimi e non ha bisogno di particolari tempi di concentrazione. In un unico secondo il guerriero riesce a scagliare fino a otto fendenti con la propria arma, rendendo il suo attacco pericolosissimo e estremamente difficile da evitare. La posizione dei fendenti verrà dettata al momento dell'attacco stesso. La tecnica non aumenta la velocità del guerriero nel percorrere alcune distanze, ma solo quella con cui scaglia i fendenti. La tecnica può essere utilizzata anche sulle armi da lancio. Ottima pergamena d'attacco. La tecnica provoca un danno totale pari a medio. Questa tecnica basa la propria potenza sulla AeV del possessore, e non sulla sua PeRm. [consumo medio]

    Runa del Terremoto - Tecnica molto utile contro un grande numero di avversari: il Custode colpisce con un'arma in terra, aprendo una voragine a forma di "V" davanti a se, utilizzando il punto colpito come vertice. La tecnica non comporta tempi di concentrazione, ma il guerriero si ritroverà a dover colpire in terra, come sopracitato, con la propria lama o con una mano, per poterla attuare. La voragine può raggiungere una lunghezza incredibile e, più avanti andrà, più diverrà profonda, scavando verso il basso con una pendenza di 30° mano a mano che procede. Se la voragine sarà lunga cinque metri, alla fine dell'apertura sarà larga due metri e mezzo, mentre se sarà lunga quindici, sarà larga cinque, all'apice. Una persona, cadendovi all'interno, riscontrerà numerosi danni da caduta e lesioni sul corpo, ma nulla di magico o di più. La voragine non si richiuderà durante il resto del combattimento.Questa tecnica basa la propria potenza sulla PeRf del possessore, e non sulla sua PeRm. [consumo basso]


Riassunto Combattimento:

- Il primo Bebilth attacca a testa bassa. Tristàn schiva e questo si schianta contro il muro.
- Tristàn attiva la pergamena incastonata "Arma Sacra" e amputa due zampe alla creatura, parando l'assalto dell'altra.
- Quest'ultima lo colpisce con una spazzata portata con la zanna, facendolo schiantare.
- Il primo gli vomita contro della ragnatela, appicciandolo al muro, mentre il secondo gli riversa contro una colata d'acido.
- Utilizzo la pergamena "Tekkai" a Consumo Critico per difendermi dall'acido, il quale scioglie anche le ragnatele.
- Utilizzo la pergamena "Urlo di Guerra" e stordisco entrambi i ragni.
- Utilizzo la pergamena "Furia" e infliggo danni ad uno dei due nemici.
- L'aracnide ancora intatto, ripresosi, infilza Tristàn e lo solleva da terra.
- I non morti di Rekla si avventano sul Bebilith ferito e lo fanno a pezzi.
- Tristàn si libera, mutilando la zanna che lo teneva sospeso in aria.
- Il Bebilith superstite li uccide tutti, dando tempo a Tristàn di utilizzare la pergamena "Voragine" grazie alla quale riesce ad intrappolarlo in una fossa.
- A quel punto, gli lancia addosso le reti e gli versa sul muso il sonnifero.

Note:
Chiedo scusa per il ritardo e per la parte prettamente combattiva, forse noiosa. I combattimenti autoconclusivi mi han sempre messo in crisi. Comunque il Bebilth catturato è fondamentalmente intatto; semplicemente gli è stata amputata una zanna.

Ah sì: l'ho reso un "capitolo speciale" in quanto i reali obiettivi di Tristàn vengono messi in secondo piano: combatte ora per la sua stessa vita, non - o almeno lui non lo sa - per l'Asgradel e quindi per Morrigan. La canzone è "Crawl through knives", degli In Flames, aggressiva al punto giusto, come il mio personaggio in questo post. Ascoltate un po' di sano Death Metal Svedese.
 
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Zephyr Luxen VanRubren
view post Posted on 30/5/2011, 21:27




Gli era parso piuttosto strano sin dall'inizio. Le uniche due anime che possedevano un aspetto comune, era pronte a tutto pur di eliminare l'altro, come avessero la segreta ambizione di governare la cittadina di morti viventi senza che l'altro li ostacolasse. E, aggiungendo il fatto che si trattava del mondo di un essere ibernatosi in uno stato di morte apparente, la morte di una delle due personalità avrebbe probabilmente rotto l'equilibrio, sconquassando il mondo del sogno che l'abominio aveva creato per sfuggire al Re.
Per quanto lo riguardava, Cenere li avrebbe volentieri fatti fuori entrambi.



L'avevano spogliato, nudo, come fosse uno schiavo e non un Duca del Toryu.
L'avevano incriminato, innocente, come fosse un fuorilegge, e non la Giustizia del Monarca.
E infine l'avevano ingabbiato, come un comune mortale, che viene tenuto in vita per chissà quale scopo, immerso nel buio e nell'umidità di un cella angusta, senza spiragli di luce a bagnare il suo volto candido, a illuminare la chioma argentea.
Eppure, per quanto oltraggiato e oltremodo incazzato dal trattamento che gli avevano riservato, non aveva potuto che godere di ogni singolo momento trascorso in cella. Perchè lei era con lui; e aveva bisogno di essere consolata. Perché lui l'aveva stretta forte a sè, consolandola con tranquillizzanti sospiri, parlandole calmo all'orecchio, sedando quel suo inspiegabile nervosismo.
Non la riconosceva, e non aveva ancora avuto il coraggio di chiederle cosa le fosse successo.
E, adesso, in mezzo alla sala gremita di morti, incapaci di lasciarsi andare l'uno all'altro per la missione che erano stati chiamati a compiere per spezzare l'incantesimo che avviluppava quel mondo di morte, non potevano lasciarsi andare l'uno all'altro.
Il dovere si era sostituito al piacere.
Anzi, peggio: le provocazioni si erano sostituite al piacere. Lasciandolo con l'acquolina in bocca innanzi a un parto che non poteva ancora assaggiare.
Evanescente nel suo trottare da trista mietitrice, poco dopo la sua comparsa era svanita, sfuggevole illusione, facendo sognare gli astanti per un momento di pura gioia prima di sottrarsi alla loro vista con un volteggio, l'ennesimo, mentre l'uccello che portava sulla spalla gracchiava furiosamente contro chiunque tentasse di avvicinarsi a lei, intimando con battiti di piume nere di starle lontano, inveendo con versi rochi verso i non-morti che ella stessa cercava inconsciamente -forse nemmeno troppo- di sedurre.
Ma nemmeno il pennuto che portava sulla spalla riuscì ad accorgersi che la Rosa aveva lanciato un'illusione sull'intera sala da ballo. Ricreando mille e più copie di sè aveva dato ai non-morti la fittizia convinzione di poter accontentare tutti loro, facendo finta di prenderli per mano, imbrogliandoli giusto il tempo di un battito di ciglia. Un tempo piccolo, ma comunque sufficiente alla vera Dalys per sfuggire alla massa e passare attraverso il portale in fondo al salone.
Un lieve cigolio, e il chiasso della folla, si fece più soffuso; voci lontane che non potevano più disturbarli.
La danzatrice richiuse il portone dietro di sè, mentre il corvo spiegò le ali per riassumere le forme lui più consone, umanoidi, seppur lontane dallo stereotipo della gente comune. Piume nere e bianche volteggiarono in aria per un momento in turbinio d'onice e avorio.
E Cenere tornò a camminare sulle proprie gambe.
« Un altro sguardo di quegli esseri, uno solo, e li avrei sterminati tutti. Dal primo all'ultimo. »
Esordì severo, i suoi occhi che parevano trafiggere sia la porta che i festanti oltre di essa.
« Non ne dubito. » Dalys gli mise una mano sulla spalla, attirando il suo sguardo, strappando i suoi occhi dall'odio che pareva provare verso l'intera cerimonia per calmarlo, riempiendo la sua vista con la propria come per ipnotizzarlo come solo lei era capace di fare. « Ma dovremmo risparmiare le energie... per dopo. »
Ci mise davvero poco a convincerlo.
D'un tratto, destata la sua attenzione verso la missione da svolgere, Cenere le pose l'indice indice sulla bocca di lei, osservandola sorridere maliziosa e poi ammiccare, mentre increspando le labbra baciava il dito che la sfiorava. Erano entrambi pronti a fare il loro dovere, a lasciar perdere la propria passione -per il momento.
Lui la prese per mano, facendole strada, incamminandosi sugli scalini poco distanti che li avrebbero condotti al piano superiore, lontano dalle stanze dei servi e dai ripostigli. Finalmente, avrebbero rivisto stanze degne del loro rango, dell'importanza che in quella città non gli veniva riconosciuta, trattati come schiavi chiamati ad assolvere il proprio scopo.
Risalirono la scalinata a chiocciola, gli stivali di cuoio del Duca che si alternavano ai ticchettanti tacchi della dama di fuoco, le loro ombre che si rincorrevano, illuminate dal debole baluginare delle fiaccole che sporgevano dai muri in solida pietra.
Durante l'ascesa, Cenere non ebbe mai l'ardire di girarsi a scrutarla negli occhi. Come un novello Orfeo, seppur tentato, non volle voltarsi a rimirare la sua bella Euridice, il Duca sapeva bene che avrebbe probabilmente gettato il dovere alle ortiche e la solerzia sarebbe scemata come acqua rovesciata da un vaso, se solo gli smeraldi di lei l'avessero guardato languidamente. E allora si limitò a stringerle dolcemente le dita, mentre le iridi scarlatte puntavano avanti, lontane da lei mentre il suo profumo gli inebriava l'olfatto. Senso contro senso, percezioni che si susseguono in discernimenti contrari prima alla volontà e poi all'istinto.
La scalata fortunatamente non durò a lungo, come la fine di una tortura alla quale fu lieto di sottrarsi. Con pochi passi a separarli dal primo piano, entrambi udirono delle voci in fondo al corridoio. I due si accovacciarono, flettendosi sugli scalini per cercare, aguzzando la vista poco sopra l'ultimo gradino, di comprendere quale ostacolo il destino gli avesse messo di fronte.
« Non capifco perchè non dobbiamo ftare qui, mentre tutti gli altri si ftanno diveftendo alla fefta... »
Due guardie, soldati armati di spada -nel fodero- sorvegliavano quella che doveva essere la stanza di Rhaegar. Al primo, quello che si stava lamentando, mancava un pezzo di bocca. Presto, e Cenere lo sapeva, gli sarebbe mancato molto di più.
« C'è poco da capire, scemo. » Sbottò il compagno, con le orbite vuote e un braccio composto da null'altro che ossa « Ser Raeghar ci paga, e oltretutto ci farebbe impiccare se non obbedissimo ai suoi ordini. »
« Rhaegar non è fer.. »
« Non era quello il punto... »
E mentre i borbottii si susseguivano soffusi e incessanti, Cenere e la Rosa, ancora accovacciati, si scambiarono uno sguardo d'intesa. Non avrebbe mai permesso che l'avanguardia fosse toccata a lei, no davvero. Da vero cavaliere distese le gambe, ergendosi in tutta la sua altezza mentre, glaciale, si dimenticava della sua amata per concentrarsi sui due cretini che riempivano il suo sguardo con le loro spoglie immonde, e i suoi timpani con il loro inutile battibeccare. Dèi, quanto avrebbe voluto avere con sè la sua spada. Sarebbe stato tutto molto, m o l t o più facile.
Senza di essa, invece, ci sarebbero voluti pochi secondi in più.
Un'eternità, perchè l'avrebbero separato dall'averla nuovamente.
« Ehi tu! » bofonchiò quello senza mezza bocca « Chi fei? Cofa fi fai qui? »
Era piuttosto strano che lui, che fosse per sua presenza terrificante o, come in questo caso, per le sue sembianze terribilmente comuni, e non marcescenti, venisse sempre bistrattato, e visto come una persona diversa dalla massa.
Non li degnò di risposta, facendo scattare le braccia, spalancandole per non dargli nemmeno il tempo di sguainare le lame alle loro cinte. Con la vista offuscata dalla parete grigia appena dipanatasi dal suo corpo, vide le loro orride braccia muoversi verso le spade, e poi sgranare gli occhi. I m p o t e n t i.
Forse nemmeno si accorsero di cosa li avesse colpiti.
Si schiantarono contro il muro, mentre le loro piccole e inutili armature cozzavano sulla pietra.
E Cenere e la Rosa gli furono addosso in un attimo.
Distratti a sufficienza dalla bordata magica che li aveva investiti, il colpo aveva lasciato le loro difese aperte e vacillanti. Si rialzarono incerti e ancora confusi su ciò che era accaduto, mentre i due Toryu colmavano con rapide falcate i metri che li separavano. Zephyr era in vantaggio sulla Rosa, i cui tacchi risuonavano leggiadri poco dietro di lui.
L'avrebbe protetta; non avrebbe lasciato che uno dei due abomini la ferisse.
Scelse quello che parlava strano -più per un'inconscia antipatia nei suoi confronti che per una ragione oggettivamente condivisibile. E allo schioccare della sua volontà delle catene di cenere spuntarono dal pavimento, affusolate e uggiose, schizzando come corde d'acciaio verso gli arti del nemico per avvinghiarsi sulle sue articolazioni e impedirgli i movimenti.
Il soldato mollò diversi strattoni, preoccupandosi più dei propri polsi e delle caviglie imbrigliate dalla magia di cenere che dell'avversario che gli fu addosso.
Zephyr scorse con la coda dell'occhio una frusta di fiamme legare il collo dell'altro soldato. E, istintivamente, sorrise.
Allungando il palmo verso l'elsa dell'arma nemica la attirò magicamente verso di sè, impugnandola saldamente, pronto a sferrare il colpo finale.
« Cedi il passo. »
Il fuoco delle torce che illuminavano l'ampio corridoio tremarono per un momento, vibrando tetre.
E mentre l'angelo fissava il proprio avversario nelle orbite scarnificate per godere dell'ennesima morte che il soldato avrebbe dovuto patire, degli spuntoni d'acciaio comparvero alle sue spalle, schizzando oltre la sua schiena per ambire alla gola carbonizzata che gli precludeva il passaggio.
Venne colpito tre volte. Contemporaneamente.
Zephyr affondò la spada nella gola, dove ne l'armatura ne l'elmo avrebbero attutito il colpo, mentre la magia infilzava il torace come un puntaspilli.
« Ho finito prima io. »
« Ho finito prima io. »
Due tonfi simultanei.
Corpi inermi che ricadevano al suolo all'unisono.
Poi dei flebili sorrisi divertiti, smorfie di ilare complicità e sguardi che per un attimo si persero l'uno nell'altro.
E allora, dopo averle negato la vittoria, dopo averla degnata solo di un pareggio poco glorioso, il Duca cedette cavallerescamente il passo. Tendendo il braccio verso il portone e mimando un inchino deferente, indicò la stanza di Rhaegar, invitando la Rosa a entrare.
« Conosci le stanze da letto molto meglio di me, mia Principessa. »
Tenue, la provocazione giunse a lei trasportata da un sorriso pregno di confidenza.
« E vorresti conoscerla con me, questa stanza? »
Cinguettò lei maliziosa.
« Sarebbe più opportuno che io rimanessi a fare la guardia, per il momento. »
Non avrebbe mai rifiutato un simile invito.
Quindi, semplicemente, lo rinviò a un tempo più consono.
E solo gli Dei seppero quanto gli costò farlo.
Chiusa la pantomima, la Rosa scivolò dentro la stanza. Zephyr si premurò così di eliminare le spoglie dei nemici con il proprio tocco, dissolvendosi così che nessuno avesse scorto dei cadaveri -cadaveri morti- oltre l'uscio della stanza dell'illustre personalità corrotta che avevano il compito di incriminare.
Poi, con le braccia incrociate, attese il ritorno della Principessa, sentendo come oltre le sue spalle essa si stesse dando da fare per frugare in quelli che gli parevano cassetti e ante. Rumori di soprammobili che venivano spostati e fogli di carte che frusciavano gli uni sugli altri.
Passarono diversi minuti, e alla fine la maniglia della porta cigolò. Dalys uscì con un sorriso tanto intrigante quanto pericoloso, mentre i suoi occhi verdi bruciavano, pronti a vendicarsi degli affrotni subìti e della morte di Tommaso, pronti a fare giustizia e ad abbandonare quel mondo nefasto.
Prima che Zephyr potesse fare domande o accorgersi del mondo oltre gli smeraldi della Rosa, ella gli sventolò in faccia delle pergamene consunte e giallastre.
« Ecco fatto. »
« Non mi aspettavo niente di meno. »
Parole non dette, speranza disattese.
Per quanto l'istinto gli suggerisse di fare tutt'altro, il Duca prese i documenti di cui la Rosa era entrata in possesso, leggendo di rapimenti ad opera dei barbari -a cui loro erano stati accostati- ricatti e favori da ricambiare. E, finalmente, accortosi di aver raggiunto il proprio scopo, Zephyr prese il mento di Dalys, tirandolo a sè per strapparle un bacio sfuggevole. Le mani che carezzarono prima i capelli e poi le guance.
« Forse, alla prossima alba, saremo già alla nostra realtà. »
« Forse, mio Duca. Ma prima della prossima alba-- »
lei sorrise di rimando
« --abbiamo ancora tutta la notte davanti. »

E la Rosa strappò un bacio al suo cavaliere.
SPOILER (click to view)
Energia Rossa
Energia 69%
Consumi:
Alto x1 = 15%
Medio x2 = 12%
Basso x 2 = 4%

Equipaggiamento //

Status Fisico: //
Status Psicologico: Sollevato.
Forma: Umana


[ReC 375] [AeV 150] [PeRf 100] [PeRm 400] [CaeM 175]

Abilità passive:



CITAZIONE

la R e s i s t e n z a dell'Oracolo
Risparmio del 3% su ogni consumo e azzeramento dei tempi di concentrazione [size=1][Pergamena Risparmio Energetico + Passiva di Azzeramento Tempi di Concentrazione] Capacità di combattere anche sotto il 10% di mana [Pergamena Aura di Energia; +50 ReC, -25 PeRf]
Tre slot in caso di immobilità [Passiva del Terzo Livello Metamagia]


CITAZIONE

T e r r i f i c a è l'anima dell'angelo di cenere
Terrore psionico passivo contro pg di livello energetico inferiore e che non siano angeli [Passiva Razziale Avatar + Effetto scenico in Forma Angelica] passiva di Auspex fisico [Bracciale dell'Auspex]


CITAZIONE

A v v o l g e la mia essenza la cenere.
Incede insieme a lui nei meandri di un mondo dimenticato dagli Dei, affiancandolo in ogni dove, sostenendolo anche contro il più forte nemico che osa muovergli contro la sua spada. In un certo senso, si potrebbe sicuramente dire che la cenere segue l'angelo come un'ombra, un compagno infaticabile e sempre presente. E forse proprio per questo dalla nera sagoma refrattaria alla luce che vigila alle sue spalle, Zephyr ha appreso come sfruttarne al massimo le capacità grazie al dominio della polvere del quale lui è padrone incontrastato. Infondendo il proprio potere nella sua ombra, infatti, egli è in grado di dividerla in numerosissimi tentacoli che, sottili e terminanti in una sorta di ago, si potranno alzare dal terreno e divenire solidi. Potranno essere utilizzati come armi atte a perforare o trafiggere il proprio avversario, capaci di allungarsi anche di qualche metro. Il numero massimo di tentacoli in cui l'ombra potrà essere divisa sarà pari a venti; e più essi saranno più diventeranno sottili.
L'ombra di grigia cenere è inoltre immune al danno fisico quindi, se tagliata o ridotta in pezzi, si ricomporrà in pochi secondi. Al contrario essa è molto vulnerabile al danno magico, al punto che non appena un incanto dovesse colpirla essa tornerà al suo stadio di quiete, mera ombra capace solo di seguire i passi dell'Oracolo.
Nel caso venga utilizzata in altri modi, la tecnica avrà una valenza pari a Medio. Mentre se verrà impiegata contro attacchi o difese fisiche, avrà il valore di una tecnica di livello superiore, mentre contro tecniche magiche, invece, di un livello inferiore.[Pergamena Controllo dell'ombra]


CITAZIONE
C o s p a r g e il Mondo la Cenere ~

Cineraceus Limbus Splendet
Dalla polvere sono nati, e polvere ritorneranno.
Il ciclo infinito dell'esistenza, un cerchio che continua a essere ripercorso infinite volte dalla stessa anima. Così è sempre stato e così sempre sarà.
Il totale e completo dominio della Cenere, non è quindi solo il dono di una divinità fatto in tempi antichi alla famiglia VanRubren, essa è anche la raffigurazione dell'anima di Zephyr, comprendendo in pieno il dovere che come Oracolo egli è tenuto a compiere. Non si tratta di una benedizione, né di un anatema, questo potere è ciò che Luxen è, e che sarà, la raffigurazione più limpida e chiara della luce che porta al suo interno.
Una luce torbida e sporcata dagli umani, ma che rimane pur sempre luce. Luce argentea, in fiocchi quasi intangibili, pregni di un potere magico che non è nato nel continente di Asgradel, e nemmeno a Kreuvall.
Nello specifico, l'angelo è in grado di manipolare alla perfezione la cenere, facendola fluire al di fuori del proprio corpo o, in casi eccezionali, di generarla a non più di mezzo metro da lui.
Argentei e brillanti, questi lievi fiocchi obbediranno alla volontà del caster che potrà manipolarli come meglio crede, raggiungendo così gli obiettivi che egli stesso si è prefissato. Potrà infatti agire sia in attacco che in difesa, sia coprendo l'intera area intorno all'angelo, sia sotto forma di raggi o scudi. Non vi sono limitazioni alle forme o alle dimensioni che potrà raggiungere. La tecnica ha consumo Variabile.
Data la provenienza divina di un simile potere, e la combinazione con un'anima angelica come quella di Zephyr, la cenere avrà un effetto più dannoso per i persecutori delle arti oscure o sui demoni, mentre sugli angeli e i paladini avrà effetti più blandi.[Dominio Variabile Personale della Cenere]


CITAZIONE
<p align="justify">il N e g l e t t o
[...][size=1][Passiva Classe Ladro] Viveva con una costante paura di essere visto, temeva che gli sguardi degli umani gli puntassero addosso tutto il loro disprezzo, così si nascondeva nei viottoli più oscuri dei quartieri malfamati. Voleva stare solo, senza nessuno intorno, senza nessuno che potesse guardarlo. Attento a ogni minima presenza, scappava al minimo risuonare delle percezioni mentali, allontanandosi da qualunque essere vivente lo stesse avvicinando. Si concedeva di uscire allo scoperto solo per prendere ciò di cui aveva bisogno, frettoloso nell'agire quanto concitato, veniva preso dalla necessità di adoperarsi celermente così che gli umani non avessero il tempo di riconoscerne il potere e di conseguenza scoprirlo. La concitazione lo rese presto elusivo e celere, capace di muoversi con disinvoltura nella ressa del mercato della cittadina di turno -per quanto non vedesse l'ora di andarsene- riuscendo a passare accanto a una bancarella e attirare a sè il bene da rubare semplicemente spalancando un mano. Frutta, piccole sacche colme d'oro, monili esposti senza nessuna cura; riusciva a prenderseli consumando un quantitativo Basso delle proprie energie. E lo stesso riusciva a fare durante le -poche- schermaglie che lo coinvolgevano durante le notti passate per strada; che fossero spade o armi varie, lui riusciva a ordinargli di involarsi verso di lui semplicemente aprendo il palmo verso di esse, scoprendo più avanti di poter fare lo stesso con oggetti più pesanti e con gli umani stessi, spendendo però un consumo Medio [Pergamene Attrazione + Attrazione Violenta][...]In breve tempo fu in grado di ottenere ciò che voleva, quando lo voleva, respingere i nemici che disturbavano la sua ombrosa solitudine; però non era abbastanza. Portava avanti a un'esistenza che tale non poteva essere definita, vivendo ai margini della società, solo e senza nessuno accanto, bramando unicamente di poter camminare liberamente tra le folle mortali senza venire additato. E nel mescersi del desiderio con la magia di cui lui era padrone, Zephyr fu presto in grado di cambiare il proprio aspetto fisico, di modificare i tratti del suo corpo per apparire come un comune mortale. Con un consumo Basso, infatti, può assumere per due turni di gioco delle fattezze a sua scelta. L'arma ideale per guarire una solitudine sempre crescente, seppur con un -grande- difetto. Per quanto di primo acchito le sembianze dell'angelo non palesarono la sua natura agli occhi mortali, la sua presenza angelica seguitava a persistere, intimorendo di conseguenza i mortali. [Pergamena Trasformazione]

CITAZIONE
<p align="justify">I n c a t e n a la volontà del MonarcaI n c a t e n a la volontà del Monarca
Punire il tradimento, giudicare l'oltraggio. Questo è il compito della Giustizia, della ferma mano irreprensibile del suddito divenuto spada del Monarca Invincibile. Ma prima che il dovere possa essere espletato, prima che il condannato venga giudicato dal filo d'acciaio dell'arma del Leviatano, esso va imprigionato. Ed ecco che Zephyr, a un consumo Medio delle proprie riserve energetiche e dopo qualche secondo di ferma concentrazione (rendendo quindi la tecnica impossibile da utilizzare durante un fitto corpo a corpo) farà comparire quattro tentacoli di colore completamente nero, che si formeranno dal terreno e dal soffitto -o da qualsiasi superficie orizzontale/verticale in mancanza di esso- e andranno, velocissimi, a bloccare gli arti dell'avversario, inseguendolo finché non riusciranno nel loro scopo, per poi tendersi, e immobilizzarlo a mezz'aria, a gambe e braccia aperte, come una croce.
I tentacoli andranno a mirare caviglie e polsi, e potranno essere attaccati, anche se, una volta colpiti, frantumabili facilmente, si riformeranno dopo solo qualche secondo, tornando all'attacco.
Una volta legato l'avversario, risulteranno leggermente flessibili, come un elastico teso.
Una volta imprigionato il malcapitato, i tentacoli resteranno attivi per tutta la durata del post, anche se potranno comunque essere attaccati prima.
Gli attacchi magici sono particolarmente efficaci su di essi, tanto che andranno considerati di un livello superiore. Quelli fisici, invece, di un livello inferiore.

[Pergamena Catene d'Ombra]

Azioni: Lasciata la sala, Zeph e Dal risalgono la scalinata per raggiungere le guardie e schiantarle abbastanza in fretta. Zeph usa un Alto con la cenere per spianare la strada alla Rosa che, dopo aver lanciato una frusta di fuoco a livello Medio per imprigionare il soldato e attirarlo a sè, lanciandogli poi un'illusione che si attiva tramite la vista di livello Alto (aumentato a Critico per la passiva del dominio illusionista). Zeph usa Catene d'Ombra per imprigionarlo dopo la bordata di cenere, in seguito gli sfila la spada con Attrazione e affonda il colpo con la lama, usando in contemporanea il Controllo dell'Ombra.
Dalys entra poi nella stanza, ed esce con i documenti che cercavano.

Note: Ho variato leggermente lo stile per adattarlo più al tipo di storia che Ray aveva in mente di raccontare -o almeno, questo l'ho pensato io :v: Mi scuso inoltre con Anna nel caso non abbia giostrato al meglio la Rosa, il suo comportamento e i suoi dialoghi, ma non penso di averla nemmeno snaturata troppo.
Detto questo, penso che dal testo si evinca praticamente tutto quello che si dovrebbe evincere, comprese tecniche e dinamiche varie.

PS: avrei potuto fare meglio, forse. Di sicuro, a causa degli impegni presi con Anna e Mirk, non mi sarei lasciato escludere per un ritardo.






Edited by Zephyr Luxen VanRubren - 30/5/2011, 22:43
 
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Kishin
view post Posted on 6/6/2011, 17:36




No-o krrr - - - no-o-on è aff-ffat t o andata così
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In quei giorni, Cheval era tormentato da uno sgradevole senso di incompletezza. Sensazione che, checché ne cercasse di tracciare l'origine, finiva sempre col condurlo in un antro cieco, privo di ragione alcuna. Una percezione nitida del vuoto, della mancanza di controllo; come se in cuor suo sapesse che Raeghar stesse complottando contro di lui, che i Dispersi che aveva mandato a morire qualche giorno prima fossero innocenti, o che tutte le persone di Luna del Deserto non fossero altro che già cadaveri, pronti a riempire le proprie tombe o le proprie urne.
Idee strane, inconcepibili, che tuttavia lo stuzzicavano continuamente, confondendo la sua percezione della realtà. Presentimenti che l'avevano reso più cauto, sospettoso e di cattivo umore di quanto fosse mai stato in precedenza.
Quella sera, infatti, s'era ritirato prima del calar del sole, nell'intento di condurre la propria cena lontano da sguardi indiscreti, nelle proprie stanze, dove nessuno avrebbe potuto disturbarlo. Un comportamento che in molti dei suoi alfieri avrebbero di certo considerato offensivo, ma che lui stesso decidette di potersi permettere. Non era forse stato lui a conferire loro quei titoli? Ad accoglierli alla propria tavola? A salvarli dalle strade impolverate della cittadina e dalla fame?
Sarebbero sopravvissuti, questo era certo.

Persino nella sua camera, tuttavia, dove alcuno avrebbe dovuto o potuto nuocergli, Cheval non si sentiva affatto al sicuro. Si sentiva perseguitato da presagi, invero, che la sua mente interpretava come immancabili segnali di pericolo.
"La paura non ha ragione" si disse, voltandosi per l'ennesima volta al fruscio dei drappi grigi e rossi che adornavano il suo studio, cercando di riportare alla mente le innumerevoli ragioni per cui lui non avrebbe dovuto temere alcunché.

Polvere di Stelle era la magione più grande e meglio protetta di tutta Luna del Deserto. Aveva mura bianco crema spesse dieci piedi e alte venti, oltre le quali i suoi numerosi alfieri si addestravano nel cortile giorno e notte, sotto le bandiere grigie, nere e rosse della sua casata: il cavallo cremisi degli scacchi su un motivo a scacchiera completamente desaturato.
Benché lui li chiamasse alfieri, nessuno dei suoi protetti era in realtà lord di alcunché. I più erano ragazzini salvati alla fame o alle razzie dei dispersi nei paesi vicini, molti altri erano schiavi liberti che aveva pagato e lasciato liberi di seguirlo senza obbligo alcuno e, in ultimo, benché fosse la categoria in minoranza, vi era un rado numero di volontari: giovani che avevano votato il proprio cuore all'arte della spada piuttosto che a quella della politica, ma pur sempre in cerca di una causa per la quale combattere.
In tutto, l'uomo del popolo poteva vantare una forza armata di circa un centinaio di uomini, per quanto solamente la metà fosse in grado di sostenere un vero e proprio duello all'arma bianca. Senza contare, poi, che l'equipaggiamento del quale disponevano era poco e leggero, adatto alle incursioni nel deserto, ma totalmente inutile in caso di attacco o di guerriglia fra le strade.

Cinquanta uomini male armati, tuttavia, avrebbero dovuto essere più che sufficienti a farlo sentire al sicuro nel corso della sua cena.
E tuttavia, non era così.

Cheval vedeva ombre muoversi dietro agli arazzi, vesti che si muovevano da sole e, soprattutto, era allucinato dalle voci. Voci che gli ripetevano che tutto quello che stava vivendo era sbagliato, che gli dicevano che avrebbe dovuto ricominciare da zero - voci che lo conducevano su una realtà differente da quella che i suoi occhi gli mostravano giorno dopo giorno.

« Satin » si rivolse al proprio attendente « ho intenzione di scendere nel laboratorio; portami direttamente lì la cena. »
"Satin" non era il vero nome del ragazzo che era lì con lui. E tuttavia, i lineamenti effemminati, i lunghi capelli lisci e neri, gli occhi altrettanto scuri e leggermente a mandorla gli avevano valso quel soprannome, che lui aveva iniziato a portare come un premio: era divenuto elegante, raffinato, bello e intrigante, per quanto non troppo scaltro e decisamente pieno di sé.
Fece un cenno del capo e si allontanò da Cheval, che fu certo che, giunto nelle cucine, avrebbe ordinato che gli venisse servito del cibo per lo "stregone", con un'autorità che non possedeva.
"Stregone", così avevano iniziato a chiamarlo. E come dargli torto? L'alchimia era una scienza lontana intere leghe da Luna del Deserto; una applicazione degli studi naturali che mai avrebbe potuto essere più distante dalle superstizioni dei suoi cittadini, ai quali bastava vedere una sigaretta accesa per inneggiare a incredibili poteri magici.

Cheval varcò una porta oltre la quale stava una scalinata che pareva condurre nelle viscere della terra. Era illuminata da torce che emanavano fiamme di colore azzurro, e tanto bastava per tenere lontano i più pavidi fra quelli che lo temevano.
La scese lentamente, sentendosi più al sicuro ad ogni gradino. Si stava dirigendo verso quel mondo che era soltanto suo; quel laboratorio che i suoi servitori erano troppo codardi per visitare, anche solo per fare le pulizie.
La discesa durò qualche minuto, fino a quando le scale non iniziarono a mordersi la coda, scendendo a spirale in un angolo della camera circolare.

Il laboratorio era illuminato dalle stesse fiaccole azzurrine che ardevano lungo la discesa a chiocciola, e tuttavia in esso aleggiava una strana sfumatura arancione, che proveniva inequivocabilmente dagli armadietti degli ingredienti che occupavano tutto un lato della sala, aperti. In alcuni si potevano vedere polveri di diversi colori e diversa consistenza, chiuse in sacchetti sfilacciati che non riuscivano in alcun modo a nasconderle; in altri, invece, stavano interi barattoli ricolmi di liquidi tutti diversi gli uni dagli altri, e nessuno dei quali tanto invitante da indurre a berlo.
E poi c'erano i tavoli, ricoperti di alambicchi, ampolle e scartoffie, tutti quanti arrugginiti e impolverati; altri ancora con sopra ingranaggi pesanti ed arrugginiti. Poi librerie che parevano cedere sotto la quantità di libri che vi erano stipati e piccoli ripiani circondati da sgabelli.
Fu proprio accanto ad uno di questi che si sedette, facendovi sopra abbastanza spazio perché potesse utilizzare la superficie come tavolo da pranzo.

Satin lo raggiunse poco dopo, portando con sé un piatto di sformato di piccione al limone; una prelibatezza che il suo stomaco non era certo riuscisse a digerire, teso com'era.
Tensione che aveva anche il suo attendente, che quasi lo graffiò con le unghie affilate - curate come quelle di una donna - mentre gli passava la cena, prima di dileguarsi il più velocemente possibile.
A nessuno dei suoi servitori piaceva quella stanza. Erano convinti che vi conducesse i più perversi esperimenti di magia nera, che vi portasse le puttane per poi trasformarle in polli, o bere il loro sangue e divorare le loro anime per sostenere la propria immonda vita. Non capivano che, invece, era assolutamente necessario che lui conservasse i propri ingredienti per gli esperimenti in un luogo umido e buio, perché conservassero le loro proprietà; un luogo che, a Luna del Deserto, poteva essere trovato solo decine di piedi sottoterra.

Non che non fu grato di quella solitudine, quando iniziò a mangiare.

.
.
.


La lama calò sul collo nudo del più austero dei due dispersi che aveva salvato; l'uomo.
Era solo una questione di tempo: lo stesso Raeghar che aveva insistito perché venisse salvato nel corso del processo di qualche mese prima, ora calava il brando su di lui per eliminarlo una volta per tutte, confermando la natura contraddittoria delle proprie azione.
Fu con uno sguardo carico di sofferenza che Cheval accolse le accuse del proprio rivale. Per quanto odiasse i Dispersi, quel ragazzo l'aveva servito bene, e con costanza. Dopo la festa lui e la donna erano tornati alla sua magione con documenti che dimostravano tutti i traffici del magistrato, nonché alcuni dei suoi futuri progetti e transazioni. Così lui li aveva sfruttati ancora: li aveva mandati nei villaggi dei dispersi per interrompere gli scambi, a difesa dei gruppi presi di mira, o addirittura a distruggere alcuni piccoli villaggi di predoni all'esterno del paese.
Lo avevano servito bene; perciò, era stata solamente una questione di tempo prima che Raeghar prendesse uno dei due e lo eliminasse, prima ancora che lui potesse abituarsi alla sua presenza.
Presenza.
Presenza.
Presenza.

N-NO-NON SONO / / / NO-ooon è SUCCEss!
NON
ESISTONO
NON
E'
ANDATA
COSI'

.
.
.

Le voci.
Furono le voci a costringerlo a rinchiudersi nel suo laboratorio.
Da lì, non uscì più.



CITAZIONE
Innanzitutto, mi scuso per il ritardo. E' stata una settimana infernale, e ne è appena iniziata un'altra non da meno.

Penso che ormai l'abbiate capito, ma è giunto comunque il tempo di precisarlo: ciò che sto cercando di conseguire con questa quest è un vero e proprio esperimento di narrativa. Un racconto a più mani. E' proprio per questo che vi lascio immensi spazi di descrizione, per quanto la finalità delle azioni sia indicativamente pilotata (anche se nulla vi impedirebbe di comportavi altrimenti e di non conseguire i compiti assegnativi. Mi regolerei di conseguenza, sappiatelo e tenetelo bene a mente: i miei sono solo suggerimenti sulla direzione generale delle azioni e della trama, ma non vanno seguiti alla lettera. Vi ho dato modo di spaziare il più possibile; spaziate!). Di questo, comunque, ho tenuto moltissimo conto nella valutazione di chi sarebbe dovuto uscire questo turno e così anche nei precedenti: iniziativa, coerenza e puntualità, oltre che scrittura, strategia e sportività. Visto che siete rimasti in pochi (3), posso stilare un piccolo podio:

Anna si merita la prima posizione anche solamente per la superiorità nello stile e nella narrazione; la perfezione dei suoi post è pressoché indiscussa; inoltre è sempre puntuale e coerente sia con la situazione che con il proprio personaggio. Se proprio dovessi indicare una nota di demerito, direi che quando descrive le azioni di altri personaggi tende a scivolare un po' troppo nella loro psicologia, rendendo il proprio post (che dovrebbe sempre e comunque essere un punto di vista di Dalys, e non di altri) un insieme di sensazioni contrastanti, ma solamente in alcuni punti - radi e brevi.

Escape si meriterebbe il primato del primo posto, se fosse per me, non fosse per il ritardo con il quale ha presentato il proprio post. Io do libertà di narrazione, ed Escape racconta, tantissimo: di come il suo personaggio si senta di nuovo uomo stando sulla sella di un cavallo, di come si chieda che cosa ci fa lì e come ci sia arrivato, per non parlare del combattimento contro il Bebilith. La realtà è che leggendo un post di Escape si ha la fortissima sensazione di leggere il capitolo di un libro (che è un po' l'obiettivo che stavo tentando di perseguire), molto più che quando ci si sofferma sui post degli altri partecipanti, senza nulla togliere loro. E' una mera questione di descrizioni, sia fisiche che psicologiche, di ciò che succede: pensieri elementari che vengono trascurati o sottointesi da molti, ma che Tristàn si premura di sottolineare (il piacere dell'aria aperta dopo la prigionia, ad esempio; il dolore, etc. etc.). Se proprio dovessi puntare il dito contro qualcosa, direi che manca una parte di descrizione approfondita del periodo passato in cella: sarebbe stato opportuno, soprattutto considerando la conclusione del post, nel quale riprendi il fatto che Tristàn sia l'unico a poter comprendere ciò che sta provando Rekla; sarebbe stato estremamente interessante assistere alle reazioni del cavaliere innanzi alla propria compagna di cella che impazzisce per la corruzione.

Di Gemini ho apprezzato moltissimo lo sforzo narrativo, e infatti la scelta su chi eliminare tra te ed Escape è stata molto dura e sofferta: entrambi vi siete soffermati sulla narrazione quasi più di quanto abbia fatto Anna (per quanto lo stile di lei sia migliore) e avete inteso meglio ciò che intendevo fare con la quest. Tuttavia, non posso ignorare il ritardo che hai fatto (come anche Escape), e il fatto che non hai chiesto proroghe (a differenza sua). Più di questo, tuttavia, mi dispiace informarti che la tua eliminazione è stata decisa più che altro per il bene della quest: benché tu ed Escape abbiate pari capacità, se avessi eliminato lui la scena si sarebbe conclusa (e la tua squadra avrebbe superato il turno) senza che avessi la possibilità di concluderla. Spero che mi perdonerai se ti dico che è stata una scelta molto difficile e che non ho trovato altre ragioni per escluderti: tu ed Escape siete ugualmente bravi - mi piacerebbe moltissimo giudicare un combattimento tra voi due, in futuro.

Infine, vorrei fare una breve menzione anche ai due post di morte. Entrambi molto belli (leggendo quello di Mirk mi sono commosso, sul serio) benché devo ammettere che se Jimmy non si fosse autoeliminato, in questo giro avrei di certo escluso lui dalla quest: il post era stilisticamente molto curato e piacevole alla lettura, ma assolutamente contrario alla linea della quest. Erano infatti praticamente assenti descrizioni che non fossero riferite alla psicologia di Rekla. Naturalmente, essendosi lei autoeliminata ho dovuto sceglierne un secondo da escludere - in questo caso, Gemini.

Ciò che vi chiedo di fare nel prossimo post, è ancora più particolare: l'essenza stessa dell'esperimento di narrativa di questa quest.
Dal punto in cui siete arrivati al prossimo post, vi sarà un timeskip. Per la precisione, passeranno due anni. Due anni durante i quali Dalys rimarrà al fianco di Cheval (compiendo alcune incursioni contro i Dispersi e contro i traffici di Raeghar) e Tristàn, al contrario, al fianco di Raeghar. Durante questi due anni, a parte il processo con l'eliminazione di Zephyr (che si risveglierà accanto a Ray), avete la possibilità di descrivere qualsiasi avvenimento.
Ad esempio: Dalys potrebbe fare conoscenza con gli alfieri di Cheval, o salvare alcuni Dispersi nonostante le venga ordinato di ucciderli o, ancora, iniziare a fare il doppio gioco. Ho descritto brevemente Polvere di Stelle proprio per dare a te, Anna, la possibilità di gestirla come preferisci.
Tristàn, d'altro canto, potrebbe divenire la guardia del corpo di Raeghar, divenire capitano delle guardie cittadine o cercare di andarsene dalla città (benché chilometri di deserto lo attendano, senza alcuna indicazione per uscirne).

Insomma, avete due anni da descrivere, entro i quali può succedere qualsiasi cosa desideriate. Potete descrivere episodi autoconclusivi, il semplice passare del tempo, inventarvi avvenimenti o limitarvi all'introspezione psicologica del vostro personaggio: qualunque sia la vostra scelta, io la rispetterò e mi adeguerò di conseguenza.
Gli avvenimenti cardine nel corso dei due anni sono il processo di Zephyr (alcuni mesi dopo gli avvenimenti degli ultimi post) e la sparizione di Cheval. Più che "sparizione", a seguito del processo Cheval si chiuderà nel proprio laboratorio di alchimia e non ne uscirà più (per due anni interi, già) - e Dalys potrebbe prendere il suo posto come donna del popolo e simbolo della casa e della magione, forse?

Insomma, voglio che diate libero sfogo alla fantasia. Sono disponibile a rispondere a qualsiasi domanda in merito all'ambientazione o alle reazione di paesani/PnG principali, ovviamente, che tratterete in maniera autoconclusiva nei vostri post. Non dimenticate che tutti gli abitanti di Luna del Deserto meno Cheval, Raeghar e Satin sono cadaveri, mi raccomando!

Al termine dei vostri post, vorrei che descriveste questo: Raeghar chiederà a Tristàn di portare il Bebilith (che in due anni è divenuto gigantesco) in un accampamento dei Dispersi abbandonati (e potrà decidere di rimanere ad assistere o meno). Lì Anna, al termine del suo post, verrà attaccata dalla creatura (a lei la scelta sul perché trovarsi lì - anche un ordine diretto di Cheval, o un invito di Raeghar stesso) e potrà risolvere lo scontro come preferisce (nel senso che potrà anche lasciarlo in sospeso, con i colpi finali che aspettano di trovare il bersaglio). Mi bastano poche righe per descrivere questi brevi avvenimenti.

Per questa ragione, questa volta imporrò una turnazione. Per primo dovrebbe postare Escape (con il termine del post nel quale conduce il Bebilith alla locazione) e nel secondo, Anna. Se non sono stato chiaro, il topic in confronto è a vostra disposizione - so di chiedere qualcosa di completamente diverso dal solito, ma il mio è, appunto, un esperimento; sentitevi liberi di chiedermi ciò che preferite.

Avete una settimana a testa per rispondere.



Edited by Kishin - 6/6/2011, 18:55
 
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Tristàn Cousland
view post Posted on 13/6/2011, 17:08




Guardians Of Asgaard


Standing firm against all odds, guarding the most sacred home.
We protect the realm of gods; our destiny is carved in stone.
Three evil giants of the south are constantly on the attack.
With lies and fire from their mouths.
But we always send them back.
We're the guardians!
Guardians of Asgaard!
Guardians, guardians of Asgaard!
Guardians of Asgaard!
We have faced our enemies a thousand times or even more.
Still they cannot make us kneel.
One thousand years of constant war.
The giants look for any chance to bring down Asgaard's mighty walls.
No matter what they send at us, we will never let it fall!
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E venne il giorno.
Si trovava nei suoi lussuosi alloggi all'interno del palazzo reale, luogo dove si era insediato dopo la sua repentina scalata gerarchica. Stava compilando gli ultimi rapporti riguardanti le attività dei briganti e dei predoni nella zona a sud della città quando era stato interrotto improvvisamente.
Vaarg era arrivato una mezz'ora prima con una caraffa di birra e liquore, mescolati insieme senza alcun problema, come fossero stati niente più che un po' d'acqua. Effettivamente, nani a parte, non aveva mai visto un uomo sopportare tanto alcool come quel bestione che ormai definiva suo amico, nonchè suo braccio destro. Come sempre si era portato con sè la lunga ascia bipenne, ora appoggiata contro la porta d'ingresso: vedendolo mulinarla in passato, il Custode Grigio ne aveva sempre tratto un'inaspettata carica di adrenalina: nessuno era mai sopravvissuto ad essa.
Non aveva avuto alcun motivo in particolare per fargli visita, forse solo per assicurarsi che i suoi nervi non avessero ceduto all'ultimo.
«Tristàn, Tristàn, quanto sei complicato!»
Sbottò, goliardico, la montagna umana dai lunghi capelli del colore del fuoco; gli cinse le spalle con forza, quasi volesse trasmettergli il coraggio che sembrava stargli vacillando, e un sorriso sornione fece capolino sul suo volto. Tristàn gli lanciò un'occhiata di rimprovero, accorgendosi che aveva alzato troppo il gomito: il pungente tanfo di sudore, il rossore che gli aveva divorato le guance e lo stesso odore di birra lo avevano tradito.
«Ho una brutta sensazione, temo che qualcosa potrebbe andare storto...»
Mormorò mestamente, provando una sincera vergogna nel dubitare del suo stesso piano: se non era certo della sua riuscita lui stesso come avrebbero potuto esserlo gli uomini che lo avrebbero seguito in quell'impresa?
«Senti, vai a farti fottere.
Tutto andrà secondo i piani. E poi ricorda che non sei più solo, hai fatto bere quella merda anche a me, a Jensen e a Samantha!»

E anche a Rotter, Paula e a Berenice. Peccato che siano morti.
Fortunatamente il vichingo non si premurò di specificare che solo la metà di loro era sopravvissuta al sangue di Prole Oscura, che solo la metà di loro era divenuta, per suo volere, parte del più grande ordine di cavalieri votati al mantenimento dello status quo mondiale.
Esattamente sei mesi prima aveva radunato un gruppo di valorosi uomini e donne e con loro si era spinto nelle Vie Profonde: analizzando alcune cartine delle terre desertiche limitrofe - le stesso che lo tenevano relegato in quella città maledetta - aveva trovato delle depressioni sospette nel terreno; avevano così scoperto delle gallerie sotterranee scavate dalle stesse Darkspawn. Era stata una spedizione difficile nella quale in molti avevano perso la vita, tuttavia era stata un successo: avevano ottenuto sufficente sangue corrotto per procedere con il rituale dell'Unione che aveva poi portato alla nascita dei primissimi Custodi Grigi di Asgradel.
Li aveva scelti con cura tra tutti i soldati dell'esercito cittadino, trascorrendo diverso tempo con loro, analizzandone le personalità e le capacità combattive. Solo quando era stato estremamente sicuro della loro fedeltà, della loro amicizia e della loro incrollabile voglia di cambiamento, aveva riferito loro chi in realtà fosse, quale piano avesse in mente e il sacrificio che, se davvero avessero voluto stroncare il seme della corruzione in quella città, avrebbero dovuto affrontare. Ne aveva scelti sei, tutti diversi tra loro ed ognuno dotato di caratteristiche particolari: erano sopravvissuti in tre - una buona media, considerando che solitamente solo un terzo riesce a superare la prova. Erano stati tormentati dagli incubi e solo grazie alle sue rassicurazioni - ci era passato prima di loro, infondo, aveva quindi garantito che era la semplice prassi, uno dei sacrifici da scontare - avevano evitato di finire prede della pazzia.
«Credi davvero che io sia nel giusto?»
Domandò fissando il vuoto dinnanzi a lui, prendendosi la testa tra le mani, affondando le dita tra i lunghi capelli.
La sua coscienza, a poche ore dall'inizio dell'apocalisse, aveva preso a tormentarlo.
Togliere la vita ad immonde creature, nate dai peggiori peccati era un conto, toglierla a normalissimi esseri umani, aventi l'unica colpa di non condividere la sua idea di rivoluzione era qualcosa di completamente diverso. Cominciava a dubitare di sè stesso e del suo animo: si era sempre ritenuto un brav'uomo, il classico padre di cui un figlio sarebbe potuto andar fiero, eppure...
Un rumore sordo lo strappò dai suoi pensieri. Vaarg sbattè pesantemente un pugno sul tavolo, in un gesto di stizza che richiamò la sua attenzione.
«Stiamo agendo per il bene del popolo; la maggior parte di esso è con te, le famiglie dei soldati favorevoli alla nostra battaglia saranno felici di liberarsi di due governanti così inetti!»
Tristàn annuì meccanicamente, cercando di sfruttare quelle parole come antidoto contro i rimorsi della sua coscienza.
«Andiamo, ti stanno già aspettando per il discorso, non farli attendere.»
Aggiunse il vichingo. Tristàn, con l'animo in subbuglio, non protestò.
__________________________________

I suoi occhi si erano ormai abituati all'oscurità.
Le centinaia di lanterne ad olio, benchè presenti in così gran numero, a fatica illuminavano l'immenso salone sotterraneo, gremito da decine e decine di ufficiali, tutti riuniti in gran segreto. Erano giunti fin laggiù attraversando antichi tunnel scavati nella roccia dai primi abitanti del luogo, i quali per motivi ignoti dovevano aver necessitato della stessa segretezza che Tristàn, solo in quel luogo, era riuscito a sua volta a garantire. Le umide pareti rocciose erano adornate con antiche - e quasi totalmente illegibili - iscrizioni e con elementari incisioni raffiguranti scene di caccia e stralci di vita quotidiana: dell'eredità delle precedenti generazioni non era rimasto molto.
Però, nonostante le condizioni, i suoi più stretti collaboratori si erano presentati nella loro totalità: dai generali ai più semplici centurioni. Chiunque avrebbe guidato gli uomini, anche solo piccoli plotoni, era stato invitato a quell'ultimo briefing pomeridiano.
Attraversò le fila dei cavalieri schierati, ammirandone la marzialità e la fermezza d'animo. Molti sarebbero morti quella notte, eppure nessuno si era tirato indietro.
Proseguì fino ad arrivare al fondo della grotta, ove era stato posizionato un pesante tavolo in legno, una sorta di podio improvvisato sul quale potè salire per essere ben visibile anche a coloro delle ultime fila.
Prima di cominciare con la sua ultima arringa, trasse un profondo respiro, ripensando a quanto fosse radicalmente cambiata la sua vita nell'ultimo periodo.
Esattamente due anni erano passati dal suo - ancora misterioso, dato che non era riuscito a trovare nessuno che potesse raccontargli cosa fosse successo di preciso - arrivo nella città di Luna del Deserto. Due anni in cui il senso di alienamento rispetto a ciò che doveva star succedendo al di fuori delle mura cittadine aveva quasi ucciso il cavaliere. Il giorno della sua sparizione il mondo sembrava ormai sull'orlo di una guerra che avrebbe spazzato via buona parte della popolazione del continente, eppure in quel lasso di tempo nessuna notizia era giunta fin laggiù, nessun esercito aveva marciato contro di loro, nessun esodo di civili inermi si era riversato contro i cancelli esterni alla disperata ricerca di protezione.
Tutto ciò lo aveva parecchio insospettito.
Ricordava ancora lucidamente ciò che era accaduto a Lothering durante il Flagello: decine di migliaia di profughi avevano abbandonato le loro terre native ed erano fuggiti il più lontano possibile, cercando ospitalità in ogni dove: un vero e proprio esodo, qualcosa che invece non sembrava essere accaduto in quei due anni, nonostante la guerra sembrasse imminente.
Specialmente nelle prime settimane successive alla sua scarcerazione aveva atteso con ansia di vedere gli eserciti del Sovrano Toryu marciare su quella città; non era un illuso, sapeva che Ray non avrebbe rischiato tanto solo per salvarlo, ma comunque aveva creduto che anche Luna del Deserto sarebbe caduta nelle sue mani: se ciò fosse accaduto, sarebbe potuto rientrare nelle fila dei suoi generali per combattere al suo fianco per l'Asgradel.
Col passare dei mesi la speranza era morta e aveva accettato la realtà: nessuno lo avrebbe portato via da lì, avrebbe dovuto ideare qualcosa da solo.
Aveva riflettuto a lungo sulla sua condizione di prigioniero ed era giunto alla conclusione che gli restavano solo tre possibilità: la prima consisteva nel rassegnarsi a quel carcere composto da invisibili sbarre e catene, trascorrendo il resto della sua miserabile vita al servizio di Raeghar, svolgendo mestamente e senza alzare il capo ogni mansione che questo gli avesse assegnato; quell'alternativa venne scartata immediatamente, in quanto avrebbe preferito la morte ad una vita da schiavo, ad una vita priva dell'amore di una famiglia, ad una vita in cui sarebbe stato perseguitato dal fantasma del suo fallimento e da quello di tutte le persone che attendevano che lui le vendicasse. La seconda, molto semplicemente, comprendeva lui ed una spada piantata nel petto, la quale gli avrebbe provocato una morte rapida che lo avrebbe strappato dalle - apparentemente insormontabili - fatiche della vita: anche questa, benchè a lungo ponderata e anelata, venne reputata indegna dal cavaliere. Si decise così a dare vita ad un piano piuttosto ambizioso, che avrebbe richiesto diversi mesi, se non anni, di preparazione. Sarebbe sì rimasto agli ordini del suo aguzzino, ma nel frattempo avrebbe tramato nell'ombra, avrebbe tessuto una solida rete di amicizie ed alleanze che - ne era certo - gli avrebbero fatto riguadagnare la libertà perduta.
Si era comportato in maniera impeccabile ed aveva seguito un "cursus honorum" eccezionale. Dopo la cattura del Bebilth era stato rimesso in libertà e si era volontariamente arruolato nell'esercito cittadino, prendendo parte a pattugliamenti, inseguimenti, indagini e battaglie contro i nemici esterni ed interni della città. Essendo stato abituato al mestiere delle armi sin dalla giovinezza, si era rivelato ben presto un ottimo acquisto. Le promozioni, guadagnate con atti di eroismo, erano fioccate, fino a quando, in un fresco giorno di primavera, il comandante dell'esercito era morto in un agguato. Raeghar in persona, il quale sembrava ormai nutrire completa fiducia nell'uomo del Ferelden che lo aveva servito - nonostante tutto - sempre con efficente fedeltà, lo aveva posto a capo delle guarnigioni cittadine.
Vedeva quindi quegli uomini quasi come suoi figli, o comunque come intimi amici.
Si levò l'elmo e fece scorrere lo sguardo su ognuno di loro, sorridendo orgoglioso di loro.
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«Uomini, debbo compiere un ultimo incarico per Raeghar.»
Annunciò solennemente e quasi con commozione, stentando anche lui stesso a credere che, nel bene o nel male, quella notte tutto sarebbe finito.
Sarebbe tornato un uomo libero o sarebbe eroicamente morto.
Aveva atteso fin troppo, troppo era stato il tempo in cui non aveva portato avanti la sua ricerca. Si sentiva in colpa nei confronti di Morrigan e nei confronti dei Custodi Grigi: aveva combattuto in quei due anni, ma non per loro.
Nessuno fiatò, rimasero nervosamente in attesa che il capitano delle guardie cittadine continuasse con il suo discorso. Pendevano dalle sue labbra
«Devo condurre il Bebilith in un accampamento fuori città.»
Un brusio di disapprovazione e sconforto si levò dall'improvvisato pubblico.
Tristàn alzò le braccia e li incitò a calmarsi, a fargli spiegare.
Si era aspettato una reazione simile, e per questo aveva già programmato una risposta.
Non era mai stato un grande oratore, tuttavia aveva imparato quanto delle semplici parole potessero spingere gli uomini oltre i loro naturali limiti; non poteva permettersi che il loro entusiasmo scemasse, doveva mantenerli saldi e compatti.
«E' una grande occasione, invece. Porterò con me solo uomini ancora fedeli ai due consoli, così da lasciare in città quasi solo esclusivamente nostri alleati.»
Non avrebbe rischiato vite preziose, ogni spada sarebbe stata fondamentale durante quella notte.
«Il piano di battaglia è stato già discusso; avete qualche domanda?»
Silenzio totale, qualche cenno di assenso, tutti dovevano aver ben compreso.
«Bene. A breve partirò, ma voi dovrete già iniziare a far posizionare gli uomini: come farò ritorno in città partirà l'assalto.»
Strinse il pugno destro dinnanzi al viso, come volesse schiacciare un insetto fastidioso.
«Raeghar e Cheval, coloro che non si son dimostrati degni di governare, verrano puniti.»
Eliminati, massacrati, sgozzati sarebbero stati termini più corretti, maggiormente verosimili, ad essere onesti.
I cuori dei soldati presenti, nell'udire quella promessa, furono invasi dalla gioia, facendo perder loro ogni diginità marziale: si lasciarono andare ad urla di giubilo, a reciproche pacche sulle spalle e a pronostici forse fin troppo rosei.
«L'esercito a noi fedele sarà diviso in quattro divisioni: la prima verrà guidata da me ed irromperà negli alloggi di Raeghar. La seconda, alla quale testa vi sarà Vaarg, occuperà il centro della città, dove probabilmente si scatenerà la reale battaglia tra noi e le forze che tenteranno di fermarci. La terza, comandata dal astuto Jensen, si recherà ove da due anni si è rintanato Cheval. Non sappiamo cos'abbia fatto in tutto questo tempo, ma sappiamo che è isolato e, con la confusione che regnerà in città nessuno potrà portargli aiuto. Un ultima legione, sotto il comando di Samantha, resterà nelle retrovie e porterà rinforzo ove sarà necessario.»
Ancora un grido, un boato di migliaia di cuori, invase l'ambiente, facendo tremare le mura.
Erano uomini abituati alla guerra, uomini stanchi di essere sotto il comando di persone verso le quali non nutrivano più alcun rispetto. Erano guerrieri, rivoluzionari, che avrebbero combattuto per dare un futuro migliore ai loro figli.
«Luna del Deserto sarà nostra!»
Proclamò con audacia, lasciandosi trasportare dall'entusiasmo comune.
Gridarono nuovamente, estraendo le spade e prendendole a battere contro i pesanti scudi, provocando un baccano che però infuse coraggio in ognuno di loro.
«Se io non dovessi fare ritorno...»
Continuò, gelando immediatamente gli animi.
Era una precisazione che avrebbe volentieri evitato, ma voleva che, indipendentemente da tutto, la ribellione fosse iniziata. Anche senza di lui.
«Seguirete Vaarg, Jensen e Samantha.
Affiderei la mia stessa vita nelle loro mani e così farete anche voi, miei uomini!»

Il tempo delle parole era finito. La sua ultima missione lo attendeva.
__________________________________

Alea iacta est.
Il dado è tratto.
Alla stessa maniera di Cesare, anche Tristàn si avviava verso il punto di non ritorno.
O meglio, lo aveva già attraversato nel momento in cui aveva lasciato Luna del Deserto con un seguito di cento cavalieri, tutti completamente all'oscuro di ciò che sarebbe accaduto quella notte.
Cavalcava alla testa del piccolo contingente che da ormai una mezz'ora buona avanzava lentamente - ma con costanza - tra il nulla del deserto. Fortunatamente il sole era già calato, nonostante non fossero passate da molto le sette della sera, rendendo così il terribile calore che caratterizzava quelle aride zone sopportabile anche con le spesse corazze metalliche che avevano addosso.
Il morale dell'improvvisato esercito adibito a sua scorta personale durante quel difficile trasporto era praticamente a terra. Nessuno di loro si era dimostrato entusiasta nell'esser stato scelto per quella inquietante missione.
Ad incombere vi era la minaccia dello sconosciuto, dell'ignoto.
Nessuno era stato informato sul perchè di quel trasferimento, nemmeno il comandante stesso, al quale era stato semplicemente ordinato da Raeghar di trasportare l'aracnide in un accampamento abbandonato dei Dispersi.
Il problema più grande era consistito nel trovare un modo per spostare la creatura, ormai ben più mastodontica di quando il Fereldiano l'aveva catturata. Il console, ovviamente, non gli aveva dato alcuna indicazione, scaricandogli addosso anche quel problema. Poteva sembrare qualcosa di risibile, eppure era rimasto sveglio, insonne, per diverse notti alla ricerca di una soluzione.
Alla fine era giunta l'illuminazione: un'idea piuttosto banale che però avrebbe funzionato.
Il Bebilth sarebbe stato drogato - come già era accaduto in passato -, legato con alcune robuste corde e trascinato da una decina di carrozze. Se si fosse impegnato magari avrebbe elaborato qualcosa di meglio, tuttavia la sola vista di quell'abominio era sufficente a riportargli alla mente la donna che aveva dovuto uccidere di sua mano nel giorno della sua cattura. Il tempo aveva alleggerito il peso della colpa nell'animo del Custode, ma non l'aveva ancora assolto completamente. Sapeva di aver fatto la scelta giusta - lei stessa glielo aveva domandato - tuttavia erano ricordi che ancora bruciavano in lui, trasmettendogli una sensazione di impotenza.
Ma non c'era tempo per quei pensieri, nulla avrebbe potuto fare per riportare in vita Rekla.
Continuarono così a muoversi, trascinandosi dietro quell'enorme errore della natura.
Fortunatamente la situazione sembrava tranquilla e non caddero in alcuna imboscata.
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Non era mai stato un uomo concretamente ambizioso: non era nato in una famiglia di contadini o della piccola borghesia, non era cresciuto con il sogno di un riscatto sociale, non aveva dovuto combattere contro la fame e le carestie, non aveva mai potuto ambire a nulla di meglio. Era stato fortunato, era stato un privilegiato. E la sua entrata nei Custodi Grigi non aveva fatto altro che fargli comprendere che quella era la sua vita e che quella sarebbe rimasta: avrebbe combattuto senza sosta quella maledizione fino all'ultimo dei suoi giorni; non si era mai lamentato, aveva accettato stoicamente la sua sorte, tuttavia avrebbe voluto avere al suo fianco una famiglia, così da riscoprire l'affetto e il calore che aveva perduto la notte in cui Arle Howe aveva tradito suo padre, sterminando tuttte le persone che gli erano state al fianco fin dalla nascita.
Nonostante tutto ciò, quel giorno poteva percepire la gloria a portata di mano, poteva già assaporare il canto della libertà, la flebile promessa che gli avrebbe permesso di non reputare del tutto sprecati quei due lunghi anni lontano dal resto del mondo.
Due erano i propositi che avrebbe cercato di raggiungere con quel colpo di mano: la cattura della città, la quale sarebbe divenuta il primissimo avamposto dei Custodi Grigi nel continente di Asgradel, e l'uccisione di coloro che avevano causato la prematura dipartita di ben tre suoi compagni. Lo sconosciuto ucciso assieme a Viktor durante la prima udienza e la creatura angelica, dopo circa sei mesi, per motivi che nessuno gli aveva mai riferito. Aveva provato a conferire con i consoli alla ricerca di un accordo ma questi non avevano prestato orecchio alle sue suppliche, procedendo con l'esecuzione. Solo lui e la misteriosa donna, la stessa che per qualche istante aveva fatto vacillare il suo incrollabile amore per Morrigan, erano ancora in grado di respirare.
Inizialmente aveva pensato di includere anch'ella nel suo piano, proponendole di unirsi a coloro che avrebbero messo a ferro e fuoco quella maledetta città, tuttavia alcuni avvenimenti gli avevano fatto cambiare idea: dietro quel corpo fascinoso si sarebbe potuta nascondere una spia, un agente mandato dagli stessi tiranni per controllarlo. L'aveva vista a diverse feste a palazzo, sempre a contatto con il lusso e con i nobili; un comportamento che non l'aveva impressionato positivamente, affatto.
Ma se anche non fosse stata una talpa, avrebbe comunque potuto rivelarsi ostile al suo piano: sembrava essersi ambientata piuttosto bene, perchè avrebbe dovuto voler vedere crollare tutto ciò che aveva faticosamente costruito in quei due anni? Lui stesso, se non ci fossero state alcune questioni personali che non avrebbe più potuto ignorare, avrebbe accettato di buon grado il destino che sembrava essergli stato riservato.
Se inizialmente era stato grato a Raeghar, il quale si era dimostrato ben più disponibile a non eliminarli tutti, in quei due anni aveva imparato a disprezzarlo e ad odiarlo per le stesse ragioni che dovevano aver minato il suo rapporto con Cheval: era un corrotto privo di scrupoli, un uomo che, nonostante le apparenze, non aveva mai conosciuto l'onore in tutta la sua miserabile vita. In prima persona aveva avuto prova di quei suoi deprecabili comportamenti: non era capitato raramente che assassini e briganti, catturati con fatica da Tristàn e con il sangue dei suoi stessi uomini, fossero liberati senza alcun processo, ingiustamente, comprando la libertà dall'avaro e disonesto reggente. Aveva provato sulla sua stessa pelle la frustrazione di vedere scarcerati criminali che avevano causato la dipartita di tanti suoi sottoposti, spesso anche di ragazzi da poco arruolati, fin troppo giovani anche solo per aver conosciuto il calore di una donna. Raeghar, anzichè vendicare i suoi compatrioti meno fortunati, aveva chiuso sempre entrambi gli occhi, lasciando invendicate le loro ingiuste e le loro premature morti. Un altro al posto del Custode se ne sarebbe fregato, anzi, sarebbe stato felice che sempre più figli della città che lo teneva prigioniero venissero eliminati; ma per lui era diverso: erano soldati, uomini d'arme della sua stessa pasta, abituati ad eseguire gli ordini senza discuterli, ragazzi che avevano semplicemente seguito la strada dei loro padri, convinti di essere dalla parte del giusto. Tristàn li aveva guidati in battaglia marciando sempre in testa, dando solo ordini che sarebbe stato disposto ad eseguire anch'egli in prima persona. Aveva sofferto al loro fianco, aveva combattuto scudo a scudo con tutti loro senza mai mostrare la minima esitazione, senza mai mandarli al massacro: quelli lo avevano capito e così avevano imparato ad onorare e ad apprezzare quel naturale condottiero proveniente da terre straniere; sarebbero stati pronti a morire per lui.
E sarebbero morti anche coloro che lo stavano accompagnando.
Non avrebbero mai fatto ritorno a Luna del Deserto, non sarebbero mai riusciti a portare rinforzi ai due consoli.
Era stata una decisione difficile per Tristàn, il quale però non aveva avuto altra scelta. In due anni si era ulteriormente indurito, la rabbia nata in lui sin dal giorno in cui era stato catturato sarebbe presto esplosa.
Il Bebilth, ancora assopito nel suo sonno artificiale, si sarebbe svegliato ben prima del previsto, ben prima di quanto avesse detto ai suoi - apparenti - alleati. L'erborista che era stato chiamato per drogare l'enorme mostro così da permetterne il trasporto era infatti il padre di uno dei suoi fedelissimi: era stato quindi ben disposto a collaborare per la loro nobile causa, somministrando dosi inferiori di sonniferi: quello si sarebbe risvegliato in anticipo e avrebbe massacrato coloro che sarebbero rimasti a sua guardia; nel mentre, Tristàn, sarebbe tornato in città e avrebbe guidato l'assedio.
Luna del Deserto sarebbe divenuta la nuova Weisshaupt, una nuova, leggendaria fortezza dell'antico Ordine.
Un'oasi di speranza nel mezzo del nulla.



[ReC 275] [AeV 275] [PerF 325] [PerM 325] [CaeM 700]
[Basso. 2%] [Medio. 6%] [Alto. 15%] [Critico. 33%]
[Energia. 150%]

Status Fisico: Illeso.
Energia Totale: 100%
Energia Utilizzata: ///
Energia Restante: 100%

Abilità Passive
    ¬L'essenza di un Custode.
    ± Di tutte le razze, i mezzi demoni sono senz'altro quelli più denigrati, allontanati e scacciati di tutti. Proprio per questo, quindi, hanno dovuto imparare a cavarsela da soli e non farsi mettere i piedi in testa da nessuno. A forza di crescere in questo modo, i mezzi demoni si sono abituati a gente che tenta di intimorirli, minacciarli o irretirli e hanno sviluppato quella che potrebbe definirsi una particolare "Abilità razziale". Sono infatti parzialmente immuni alle influenze psicologiche. Non a tutte, si intende, altrimenti risulterebbero atoni e privi d'emozioni, ma senz'altro, a differenza di tutte le altre razze, si lasciano intimorire meno facilmente e persuadere con notevole difficoltà. Il timore provocato dalla vista di demoni o angeli, ad esempio, non avrà su di loro effetto. Sensazioni profonde come forti paure, o tanto grandi, però, avranno comunque effetto. Quest'abilità è una normale difesa psionica di livello passivo.
    ± Con la sicurezza migliora anche il controllo delle proprie capacità combattive; fino a quando il possessore di questo dominio riuscirà a mantenere il sangue freddo e a non lasciarsi prendere dall'ira - o da altre sensazioni che finirebbero con il turbarlo - il suo valore di CaeM risulterà raddoppiato. Questo non influirà nelle sue doti di tiratore ma lo renderà estremamente abile in ogni genere di schivata, affondo o anche nel disarmare il proprio avversario. Chiunque apprenda questa disciplina di scherma risulterà essere un combattete eccezionale e ogni suo duello sarà un vero spettacolo in quanto a grazia e maestria.
    ± Non sempre però la grazia nei movimenti e le abilità di schermidore possono contrastare la forza bruta; cercare di disarmare o anche solo contrastare un bestione di più di due metri con una spada dalle dimensioni più simili a quella di una trave di ferro risulta spesso una missione disperata anche per il combattente più abile. Questo però non vale per coloro che sono diventati sempre più abili in questo stile di combattimento; una delle ultime lezioni impartite dai maestri consiste appunto nel focalizzare la propria calma e il proprio sangue freddo per riuscire a contrastare anche il più forte degli avversari. Fino a quando il possessore del dominio non si lascerà prendere dall'ira o non si lascerà turbare ogni colpo portato con la sua spada conterà come una tecnica di livello basso rendendolo quindi superiore a qualsiasi colpo portato da avversari anche enormemente più forti di lui.
    ± Questa pergamena non conta come una vera e propria tecnica, quanto come un'abilità passiva. Aumenterà infatti i "ReC" del personaggio di 50 punti, diminuendone però i "PeRf" di 25. Esternamente non vi saranno cambiamenti, e il guerriero apparirà come quello di sempre, anche se le sue capacità di concentrazione e i suoi riflessi saranno nettamente aumentati, a discapito di un leggero indebolimento fisico.La tecnica sarà sempre attiva e non avrà un consumo. Un ulteriore vantaggio è quello di permettere al guerriero di poter combattere anche una volta raggiunto il 10% delle energie, senza svenire. Un personaggio normale, infatti, trovatisi con poca energia o nulla, si sentirà spossato o comunque non in grado di combattere. Un guerriero con questa tecnica, invece, potrà tranquillamente continuare ad avanzare, quasi senza sentire la fatica, pur senza più poter utilizzare tecniche che comportano un dispendio energetico, che lo porterebbero alla morte.

Tecniche Utilizzate
    There thou mightst behold the great image of authority: a dog's obeyed in office.
    In una terra sconosciuta, lontano dal Ferelden e dalle terre abbattute dal flagello, alla ricerca della sua adorata Morrigan, Tristàn non può che sentirsi inconcepibilmente solo e abbandonato, irraggiungibile da tutti i suoi compagni custodi e afflitto da una maledizione dalla portata inconcepibile, portando l'odio degli antichi Dei lontano da dove più sarebbe stato pericoloso. Tuttavia, in questa nuova terra, egli è divenuto un nuovo faro di speranza e il primo di una lunga stirpe: la fortuna nella sfortuna ha infatti voluto che la ridondanza fra l'acredine dell'arcidemone imbrigliata alla spada e il suo sangue finisse col potenziare quest'ultimo, rendendolo una mistura più ricercata; una coppa che i custodi conoscono bene. Facendo bere il proprio sangue a qualcun altro, infatti, Tristàn potrà nominarlo custode grigio onorario e fargli ottenere alcuni dei benefici di tale ordine: non diverrà un vero e proprio guardiano - non come quelli del Tevinter, almeno - ma sicuramente il suo corpo diverrà più agile e le sue membra più forti, nonché membro di un nuovo ordine che Tristàn può decidere di fondare in qualsiasi momento, grazie alle sue fortunate capacità. Questo rituale può influenzare solamente persone che possiedono uno slot abilità libero: tale slot verrà occupato da una nuova abilità passiva che potenzierà la loro PeRf e PeRm di 50 punti ciascuna. Tuttavia, da questo momento in poi, i nuovi custodi onorari verranno perseguitati dalla prole oscura tanto quanto Tristàn stesso, nelle medesime modalità della maledizione che lo affligge - Così, la spada richiama la progenie oscura intorno a sé, in ogni sua forma: esseri umani non dissimili dai cadaveri, dalla pelle morta a ricoprirne il corpo, eppure nel pieno delle loro facoltà fisiche. Guerrieri e maghi armati di tutto punto, dalle zanne e dagli artigli affilati. Uomini toccati dalla corruzione. Tristàn li vedrà ovunque, poiché sarà il brando stesso a richiamarli: esso lo seguiranno ovunque in cerca della propria vendetta, attendendo il momento migliore per attaccare. In termini tecnici, il custode sarà perseguitato da piccoli gruppi di progenie oscura che lo seguiranno con l'obiettivo di ucciderlo e vendicare l'arcidemone ovunque egli vada: essi sono composti in buona parte di maghi e guerrieri e dieci di loro vanno considerati come un'energia gialla di pericolosità E. Vanno affrontati come in un combattimento autoconclusivo contro i mostri, e l'utente può decidere di inserirli in qualsiasi giocata da lui condotta personalmente (nel caso di un combattimento contro i mostri, i Prole Oscura non aumentano la ricompensa). Nel caso in cui Tristàn dovesse partecipare ad una quest o ad un evento gestito da altri, poi, l'utente dovrebbe permettere al QM la visione di questa abilità cosicché egli possa decidere in totale libertà se aggiungere o meno la progenie oscura all'avventura in corso.
    Inoltre, Tristàn e i custodi onorari possono, sempre grazie a questa capacità, comunicare tra loro tramite i sogni, facendosi visita e vivendo insieme nelle antiche e gloriose sale di quando il loro ordine era famoso e riconosciuto; nell'oblio, dove tutto è possibile. Nonostante i numerosi effetti, coloro che acquisiranno queste capacità dovranno tuttavia considerarle ai fini della pericolosità come una singola capacità passiva. Tristàn può nominare nuovi custodi onorari solo nelle scene free, o in quelle da lui gestite come organizzatore [passiva].

Note:
Non posso giudicare da me come sia uscito questo post, tuttavia non posso negare di aver provato un certo piacere durante l'intera - e difficile, non lo nego - stesura. Penso sia chiarissimo ciò che ha attuato Tristàn in quei due anni, tuttavia propongo un piccolo riassunto: trovandosi nell'impossibilità di fuggire, ha deciso di tentare un colpo di stato. Come si dice: "se non puoi uscire dal pozzo, prova ad abbellirlo". In questo lasso di tempo è divenuto il comandante dell'esercito cittadino e ha reclutato soldati fedeli, facendone diventare tre Custodi Grigi. Questo perchè, dopo aver ottenuto la città - qualora vi riuscisse ovviamente - vorrebbe trasformarla in un avamposto dello stesso Ordine, una sorta di Fortezza della Veglia (chi ha giocato ad Awakening capirà benissimo).
Che dire, spero piaccia. Passo la parola ad Anna!
 
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view post Posted on 17/6/2011, 21:48
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Acciaio si conficca nella carne e ha un suono sgusciante, morbido, ha il suono di un grido fischiante.
Strano.
Aveva sempre pensato che la paura fosse pallida, silenziosa.
Come il deserto. Come il passare degli anni.
O tutt'al più avesse il sibilo strisciante delle unghie nella sabbia, impegnate a scavare inutilmente i giorni per vederseli piovere addosso.
I giorni-granelli. Bollenti come il fuoco che emana da lei.
Non ha scordato nemmeno un secondo, neppure un attimo di quell'angoscia, di quelle speranze.
Una spazzata la colpisce. O forse colpisce la sua razionalità.
I suoi piedi si sollevano da terra. Dopo tutto la vita è una parabola di ricordi così facile da scompaginare. Una prigione dove estrarre colpevoli a caso e condannarli.
Perchè tutti i ricordi sono colpevoli di aver vissuto.
Il deserto odora di morte.
Come un Tribunale.

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E una possibilità sola avete sprecato. Le prove a vostro carico sono inconfutabili e i testimoni non mentono.
Dunque, senza altro indugio…



Sullo sfondo nero del ricordo non c’erano spettatori, come inghiottiti dalle tenebre di una memoria eccitata e labile. Ma solo tre figure, anzi quattro, immobili quasi fossero state dipinte. Un giudice, apparentemente clemente, apparentemente benevolo, con il volto distorto dall’odio per essere stato scoperto. Un magistrato troppo corrotto dal proprio potere per ribellarsi al sistema che lo aveva generato.
E un ragazzo dagli occhi scarlatti. Era inginocchiato davanti al ceppo dove sarebbe stato giustiziato. E aveva paura. Odorava di paura, la sua pelle ne emanava l’aroma acre e inconfondibile, le sue labbra ballavano la danza tremula di chi non vuole morire. Eppure non si ribellava, non cercava di fuggire. Si limitava a fissare in avanti, senza sbattere le palpebre nemmeno una volta. A fissare una figura femminile.
Si era salvata al posto suo, e avrebbe potuto odiarla per questo. Odiare le sue vesti rosse, i capelli elegantemente raccolti, le mani congiunte in grembo. Il volto immobile, bellissimo, come sempre. Apparentemente senza emozione, quasi fosse di porcellana.
E invece la amava, più di ogni altra cosa. Ed era felice, sì, terrorizzato e felice come un agnello condotto al sacrificio.
Ti amo.
Questo aveva detto. E forse si era aspettato una risposta.
Ma aveva ottenuto solo il silenzio e un guizzo in quegli occhi d’acciaio impenetrabile, forse un pianto dietro la parete della compostezza, anima trafitta da decine di frecce che cercava di fuggire fuori e unirsi a lui in una morte tragica. Si erano guardati così, fino all’ultimo. Vincendo ogni pudore. Si erano guardati prima e lui l’aveva fissata anche dopo, con la stessa intensità, anche quando la sua testa era rotolata a terra ai piedi di lei. E lei non si era mossa, nemmeno di un passo. Era un sigillo tra loro. Una promessa.



…vi condanno tutti a morte!



Con le stesse parole di lui. Sorrise di piacere.
Il grido straziato risuonò nel tribunale, mentre quei morti venivano trascinati per le braccia verso una nuova fine. L’ultima.
Spalancò le braccia, suggellando la propria sentenza.
Altre grida si levarono dalla folla, non era certa se liete o semplicemente convulse e affascinate da quello spettacolo di giustizia violenta, ferina, atavica. Alimentava i loro spiriti con la propria fiamma, insaziabile nella propria sete.
Un inchino, un voluttuoso roteare di stoffe scarlatte per suggellare la propria vittoria.
Girò le spalle alla sala e ne uscì, il portamento eretto di sempre, quello davanti al quale gli stolidi cittadini tremavano rintanandosi nei propri angoli.
Lei.
La donna del popolo. Il magistrato che stanava il crimine nei loro cuori e strappava i loro cuori da quel corpo criminale.
Lei.
Che in due anni aveva sostituito un invisibile Cheval. Lentamente, sempre più lentamente, come un parassita che fisiologicamente colonizzi un organismo troppo debole. E forse non era parso nemmeno strano, nemmeno troppo traumatico. Lo stesso metodo, lo stesso implacabile maglio a cadere violento sulle vittime di una carneficina giornaliera che non le importava. Avrebbero potuto morire tutti e sarebbe servito solo ad alimentare la sua facciata.
Due delle sue guardie personali la aspettavano, i corpi decadenti fasciati in armature scarlatte. Le porsero il semplice mantello con il blasone della casata. Non temeva di muoversi da sola, non tra quei bifolchi, ma una Donna del Popolo deve mantenere un’apparenza. Come diceva sempre il beneamato padrone della casa in cui lei viveva come una regina, un Uomo del Popolo deve sempre sembrare più debole di quanto non sia.
Un sorriso ironico le velò le labbra dipinte. Un vero peccato che lui fosse realmente debole quanto un bambino. E che a lei facesse particolarmente comodo.
Lo aveva pensato da subito – passi lenti fino alla carrozza dalle tende chiuse – quando lui le aveva poggiato una mano sulla spalla e aveva sentito il sudore umidiccio dell’incertezza aderire contro la sua veste.
E da prigioniera per sempre si era riscoperta giocatrice di una partita ancora tutta da vincere.



image



La cinta di Polvere di Stelle li abbracciava con la consueta esasperante lentezza. Non acceleravano perché così si conveniva. Non si liberavano di quell’assurda cinta perché così conveniva. E – naturalmente – non se ne andavano tutti altrove perché così conveniva. Pensarci le faceva soltanto venire un’emicrania particolarmente fastidiosa.
Era stato difficile, innegabilmente complicato. Aveva dovuto dare fondo a tutta la propria abilità, scavando lentamente la propria tana dentro quella della volpe che già vi dormiva. E più lei emergeva all’esterno, più la crisalide diventava farfalla, più lui scompariva nei meandri di uno studio buio da cui si rifiutava di uscire.
Lei si cingeva del suo blasone e aveva fatto cucire nuovi abiti. Lei si riempiva la bocca dei suoi stessi discorsi e attingeva a piene mani dal potere di lui.
All’inizio l’aveva condotta tra quelle stanze sotto scorta, trattenuta per le spalle, chiamandola schiava. All’inizio aveva cercato di soffocare nel corpo di lei la propria angoscia. Ma con il tempo le era sfuggito, con il tempo lui era divenuto sempre più piccolo e buio e lei sempre più ampia, capace di espandersi tra quei muri chiari.
Il profumo di rose li avvolse all’ingresso, paradossale se affiancato al clangore delle armi di coloro che si allenavano. Ovunque, nel lungo corridoio, i fiori scarlatti erano stati posti quale ornamento. Li coltivavano in serre particolari, in serre viziose quanto le feste in cui i loro petali cospargevano i pavimenti senza parsimonia.
Non c’era più odore di morte o di sudore, ma solo l’orgoglioso spettacolo di quel tripudio di tinte sanguigne.
Aveva modificato tutto pur senza apparentemente toccare nulla. Combatteva contro lo stesso nemico, condannava con la stessa frequenza, con la stessa casualità. Possedeva le stesse armi e le stesse ricchezze. Ma non erano più gli stessi ingranaggi a muovere la macchina.
Un servo si avvicinò con un bacile d’acqua perché lei si potesse sciacquare le mani. L’opulenza di cui si era mascherata aveva impressionato i suoi sottoposti come i suoi ospiti. Era servita ad accecarli e sviarli dai dettagli veramente importanti.



Bentornata, Signora”.
Satin”.



Aveva imparato a parlare loro senza inorridire. E quello era il servo prediletto del suo signore.
Con quegli occhi resi opachi da una decomposizione precoce, bruciati da un fuoco chissà quanto vecchio. Non capiva come lui potesse tollerarne la vicinanza, ma forse era soltanto abitudine.



I prigionieri sono stati portati nella sala della tortura, mia Signora”.



Annuì lentamente, nascondendo a stento l’emozione che l’aveva fatta rabbrividire e le faceva palpitare il cuore.
Attorno a loro, alcuni dei camerieri e degli sguatteri alzarono il capo, come se si stessero coordinando ai pensieri di lei. Erano diversi dagli altri, ma gli strani abitanti di quella città parevano incapaci di accorgersene. La pelle vera, fresca, sui corpi di quegli ospiti in livrea, sembrava del tutto naturale.
Non distinguevano i vivi dai morti.
L’aveva capito quasi per caso, ascoltando i loro discorsi durante le battute di caccia. Era stato il primo passo dell’elaborazione del suo piano, un passo fortuito per un piano geniale, diabolico forse. E avrebbe potuto essere autoesaltazione ma le piaceva, un sacco.
Avevano un modo di comunicare tra loro, tra i vivi in quel mondo di morti. Semplicemente guardandosi negli occhi. Incontravano il battito delle sue palpebre e voleva dire che tutto andava per il meglio. Notavano l’ammiccare e voleva dire Tenetevi Pronti. E nel caso mai avesse alzato due dita della mano destra davanti a loro avrebbero dovuto radunarsi tutti a raccolta. Il suo piccolo esercito di formiche silenziose, dislocate in quel palazzo, in quel cortile, nelle cucine e nelle lavanderie, tutto attorno alla tomba che Cheval si era scavato da solo. E poi nei mercati, ad acquistare cibo per il pranzo, e sotto le porte dei nobili invitati alle sue feste, e al loro servizio. Pervasivi come una malattia.
Da dove venivano?
Le piaceva farsi quelle domande ogni volta, ripetersi da sola quel clichè che sottolineava quanto subdola lei potesse essere. Si leccò le labbra con la lingua, famelica, mentre lasciava indietro tutti loro e si dedicava – finalmente! – alla propria attività pomeridiana prediletta, quella che nessuno avrebbe dovuto scoprire.



La stanza delle torture.
Ne portava la chiave d’oro appesa al collo, tra i seni, come una figlia. E no, non voleva indugiare sul pensiero di sua figlia in quel momento. La portava al collo perché solo lei e Satin potessero entrare da quella porta.
La socchiuse e vi scivolò dentro, chiudendola dall’interno e lasciando la chiave nella serratura. Nessuno l’avrebbe disturbata.
Lo spettacolo che l’aspettava era lo stesso di sempre. Non c’erano mai molte differenze. Corpi tremanti gettati a terra, legati e forse picchiati. La fissavano nella semioscurità di quella stanza le cui pareti erano soltanto specchi, senza alcun arredo. Doveva apparire loro imponente, l’unico elemento colorato e profumato. Un frammento di vita dopo tanti corpi vomitati dall’inferno.
All’inizio era stata una sua missione distruggere i loro campi di tende tarlate. Calava come un flagello su di loro, facendo strage perché così le era ordinato, perché così avrebbe sfogato la propria rabbia e frustrazione. Come fuoco ustionava la loro pelle, come acciaio penetrava nei loro corpi perché non sapevano rispondere mai alle sue domande.
Dove siamo?
Cosa c’è oltre il deserto?
Da dove venite?

Sempre smarrimento e silenzio. E rabbia. Una rabbia che la mangiava e che li mangiava, perché lei non poteva tollerare di rimanere prigioniera lì dentro. Ed era colpa loro.
Almeno all’inizio, naturalmente.
Poi aveva capito che avrebbero potuto esserle utili. Perché erano vivi, carne ossa e respiro. E perché se c’erano loro significava che c’era un fuori, un Da Qualche Parte Altrove. E che lei ci poteva arrivare, poteva tornare dalla sua bambina.
Non le ci era voluto molto a giungere all’ulteriore conclusione che quei due, gli unici due vivi di quel luogo, dovessero sapere ogni cosa, forse perfino il destino del suo Clan e del suo Sovrano. E della sua Bambina. Sì, ma non era il momento di pensarci.
Quindi era fondamentale prendere il controllo e interrogarli, spellarli vivi, torturarli finchè non le avessero detto ogni cosa.
Per farlo le servivano pochi ingredienti. E molti alleati.



Non temete. Non sono qui per farvi del male”.



Difficile credere a quel sorriso troppo acuto, da predatrice. A quello sguardo senza emozione.
Forse nemmeno pensavano lei potesse essere come loro, con un cuore, e forse avevano ragione. Ma doveva rassicurarli. Loro erano simili, l’unica cosa che si avvicinasse alla vita nel raggio di chilometri.
Forse conoscevano la sua fama, avevano sentito narrare dell’acciaio insanguinato della sua lama, del fuoco che emanava dalla sua pelle, forse conoscevano il suono del suo respiro così come i superstiti ne avevano gridato. Ma di solito, ma sempre, capivano immediatamente quando si offriva loro la salvezza.



Se vogliamo andarcene di qui avrò bisogno di voi.
E dovrete fare esattamente quello che vi dirò
”.



Dondolò il capo, quasi annoiata. Ogni volta la stessa cosa.
E poi la spiegazione del suo piano. E la data, l'indomani. In cui sarebbero insorti armi alla mano e avrebbero preso il potere tra quei pusillanimi incapaci di reagire. Lei avrebbe ucciso i soldati che si allenavano nel cortile così come una volta aveva fatto con i Dispersi e prima – secoli prima – con i nemici di un Re che forse nemmeno esisteva più.
Si era distratta.
Si morse un labbro. Non doveva, non l’Anniversario.
Loro parevano aver capito comunque. Loro erano svegli come una preda che si trovi ad avere un’ultima possibilità di respirare. Per questo le piacevano, le piaceva l’olezzo di sangue che emanavano e la loro vitalità, la loro ansia, il petto con il suo movimento rapido. Erano quasi sempre solo uomini, proprio come quella volta.
Le ricordavano l’uomo morto sacrificandosi per lei e l’angelo che l’amava. E il guerriero per cui aveva perso tutto, che non avrebbe dimenticato mai. La sua bambina con le mani protese in cerca d’aiuto.



Vorrei anche porvi alcune domande.
Spero vorrete rispondere
”.

image



E nel dirlo si spogliava la veste e tutti quegli specchi riflettevano da ogni angolo il suo corpo nudo. E anche lei respirava e profumava ed era viva. E loro si aspettavano qualcosa da lei, ma non di sicuro quello che lei mostrava loro: il suo potere, una fiamma che la rendeva una dea, una torcia dagli occhi scarlatti e i capelli come i fuochi di notte all’accampamento. Faceva paura. Molta, propagata mille volte da quel gioco di riflessi. Per questo le rispondevano ogni volta.
Per questo non passava loro nemmeno per l’anticamera del cervello di disobbedirle. Forse in un altro luogo li avrebbe avvinti con ben altri doni, ma aveva capito che in quel luogo era la paura ad essere la catena più potente.
Da dove venite?
Cosa c’è al di là del deserto?

Certo non otteneva mai risposta. E doveva farli portare via in segreto da altri di loro già fedeli, farli vestire e istruire rapidamente sui loro compiti, farli introdurre in una città di ciechi e indifferenti. E restava con l’amaro in bocca. Ma ognuno di loro era come un piccolo mattone che andava a costruire la sua speranza.
Bambina mia…
E poi non poteva essere triste. Non quel giorno. Non l’Anniversario.



image



Un petalo di rosa cadde a terra, sopra gli altri. Era caduto dalla ghirlanda sospesa al soffitto, una delle tante. Non fece rumore, perché troppi suoni impregnavano la sala. E forse nessuna delle dame marcescenti e imbellettate se ne accorse. Erano troppo impegnate a parlottare e servirsi ai tavoli ricolmi di leccornie imbanditi per loro.
Servi diversi si aggiravano silenziosi con ampi vassoi tra le mani, piramidi di bicchieri colmi di liquidi di ogni colore. Fissavano con orrore quel popolo morto tanto diverso da loro, ma non parlavano, non fuggivano. Temevano molto di più la morte, definitiva, che li aveva inviati in quella sala.
Musicisti suonavano sommessamente, accompagnando le discussioni degli ospiti, il disquisire degli uomini sulla politica, sul decadere di Raeghar e l’assenza di Cheval, il potere della Donna del Popolo.
Discussioni piuttosto animate che si zittirono tutte d’improvviso all’aprirsi della porta che immetteva in quell’ampia sala da ballo. La musica si abbassò di un ulteriore tono, mentre tutti gli occhi, o orbite, o qualunque cosa fossero, si muovevano verso di lei. Portava un ampio kimono scarlatto e oro, chiuso morbidamente sul ventre. Le cadeva dalle spalle, in un gioco che ne scopriva la pelle ambrata ma lasciava solo intuire cosa si celasse sotto la stoffa. Mai l’avevano vista così bella, con i fiori nei capelli e il volto dipinto, una coppa di vino tra le mani e il sorriso vittorioso di chi festeggi un evento a lungo atteso.
Chi poteva trattenne il respiro, forse per udire la melodia dei suoi passi, forse semplicemente perché non vi era fiato degno di sfiorarla. Un diadema d’oro le ornava il capo e la mano libera li accolse in una rotazione che li comprendeva tutti. Gli occhi di lei scintillarono.



Signori, benvenuti all’anniversario del giorno in cui sono entrata in questa casa.
Ho voluto fare di questa sera la più sontuosa, perché sia una promessa.
La promessa che una nuova era sta per iniziare
”.



Sfrontata, al punto da rivelare il proprio piano, certa che nessuno l’avrebbe compresa.
Erano altri gli uomini che avrebbero potuto smascherarla. Se solo uno alla sua altezza fosse stato tra loro non avrebbe rischiato di perdere tutto. Bambina mia. O forse sì, forse era quell’iniezione di adrenalina a darle la vita che a loro mancava. L’essere ogni giorno sul filo del rasoio. Il sole calava sulla città e colorava d’ambra le sue guance, mentre si dirigeva verso Raeghar.



Spero mi concederà questo ballo, Console.
In onore della nostra amicizia
”.



Lui storse la bocca.
La loro amicizia.
Lei sorrise.
Ma il valzer era già iniziato ad un gesto convenuto e non c’era altra scelta che prendere la mano da lei porta e dare il via alle danze. Si stupì della grazia di lei, leggera come l’aria. Volteggiava con tanta leggerezza da non riuscire quasi a seguirne i movimenti.
E sorrideva, sorrideva sempre come se fosse ingenua. Gli mostrava ora la propria pelle ora il proprio sguardo, ora l’accogliente tepore del proprio corpo. Lo sfiorava muovendosi su quei petali e sollevandoli in un vortice indolente attorno a sé. Indossava scarpe basse, morbide, con cui quasi non faceva rumore.
Altri li avevano imitati, ma nessuna delle coppie era come loro, tanto perfetta e tanto a ritmo. Iniziava a sentire il fiato pesante. Le lasciò un braccio e lei cominciò a muoverlo nell’aria, disegnando figure. Inarcava la schiena e il collo e diveniva la statua nella piazza, quella sinuosa silfide che sputava acqua dalle labbra.
Si avvolgeva su di lui ed era la tempesta sul deserto, nera quanto i suoi capelli, terribile quanto il torcersi del gomito verso il suo viso.
Un salto all’indietro ed era una Diana stregata dalla luna, un’Aracne intenta a tessere la tela con il movimento ordinato delle dita. Tutto in lei si torceva e si muoveva, ipnotico come le spire di una serpe.
Qualcuno applaudì, i servi facevano cerchio nella sala, attendendo da un momento all’altro la reazione di lui.
Non poteva sapere che, se l’avesse pugnalata come impulsivamente aveva pensato di fare, loro avrebbero estratto le proprie corte daghe e l’avrebbero trapassato dieci, venti volte con la furia della disperazione.
Si trattenne inconsapevole per il semplice fatto che desiderava lei soffrisse di più, molto più di così.
Si fermò con il fiatone, le mani appoggiate alle ginocchia.



Avrei…
Inspira. Espira. E lei, la maledetta, pareva ancora fresca come al primo minuto.
Avrei un compito per te.
So benissimo che da tempo non ti occupi di Dispersi, ma si tratta di una cosa grossa
”.



Lei si bloccò, una mano a mezz’aria, statua immobilizzata dallo sguardo di Medusa, senza rinunciare alla teatralità nemmeno in quel momento.



Pare che un accampamento sia appena giunto dai confini del deserto.
Pare sappiano la strada.
Per questo dobbiamo eliminarli o porteranno altri con sé.
Certo la Donna del Popolo sarà d’accordo a preservare la sicurezza di questo luogo
”.

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Un tuffo al cuore, che la riportò alla compostezza necessaria a una come lei.
Era impallidita, sentiva decine di occhi addosso, sentiva il richiamo di una voce dentro. Di un Re. Di una figlia. Finalmente una possibilità. Volse lo sguardo, tremante, sui propri uomini, quelli veri. Sapevano cosa fare, l’avrebbero aspettata e se non fosse tornata lo avrebbero fatto anche senza di lei. E quando avesse riportato il Toryu in quel luogo, avrebbe potuto condurre il suo Re in un nuovo regno, sgombro da carcasse senza identità.
Non pensò minimamente potesse essere un inganno, o che lui avesse trovato il suo punto debole.
Annuì, cercando di nascondere il proprio desiderio.
Forse avrebbe potuto ucciderlo ora e poi andare, ma lui le serviva. Le serviva perché voleva interrogarlo e conoscere il segreto di quel luogo.
No.
In realtà perché voleva lui soffrisse molto, molto più di così.
Avrebbe forse riso sapendo quanto fossero simili.



Me ne occuperò io.
Non mandi nessun altro, andrò sola
”.



Quasi con foga, con ingordigia.
E, dopo due anni, provò il desiderio di piangere.
Un petalo di rosa le si posò sul piede. E non lo sentì. Era fresco, ma lei aveva freddo, molto più freddo di così. Un freddo che veniva da dentro.



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Questo le era passato davanti, proprio tutto questo, ogni singolo momento. Con una velocità impressionante e inspiegabile.
Le era trascorso addosso in un fiume, investendola nei pochi attimi in cui era volata all’indietro nel proprio abito rosso, disegnando una parabola nell’aria. E le era sembrato inverosimile. E si era sentita molto sciocca, e forse buffa. E aveva capito i propri errori, ma ormai era troppo tardi, vero? Troppo perfino per pregare o augurarsi andasse tutto bene. No, non sarebbe andato affatto bene.
Si era fatta ingannare, come una sciocca falena dalla luce.
E in pochi secondi aveva compreso il perché.
Si domandò se c’entrasse anche Cheval, lo stolido padrone. Ma nel momento in cui stava per rispondersi di no, cadde di schiena contro uno dei pali di legno delle tende. Le fece male. Troppo male per rispondere.
Non era giunta lì con l’intento di uccidere, ma di domandare. E li aveva trovati tutti morti. Come il corpo che le giaceva di fianco. Aveva il collo torto di lato e non aveva un braccio. Era orribile. E presto lei sarebbe stata come lui.
Il sangue le scivolava dalla fronte e le formicolavano le gambe. Era indolenzita e bollente come se avesse la febbre. Aveva usato il fuoco ma non era servito a molto, perché l’aveva colta di sorpresa.
Mentre cercava di capire con orrore cosa fosse successo, chi avesse fatto quello scempio, convinta ancora di essere lei a controllare il gioco, qualcosa di incomprensibile l’aveva scagliata nell’aria. L’aveva visto solo di sfuggita: il mostro più grande che le fosse mai capitato di incontrare. Lo stesso che se li era mangiati tutti.
Quello mandato ad eliminarla. Il formaggio. Il topo. La gabbia. Una vecchia storia.
Stupida. Ecco cosa era. Stupida.
Tutto il suo corpo martellava quel dolore in maniera ritmica, dalla colonna alle gambe alle braccia.
Stu. Pi. Da. Stu. Pi. Da.
Anche la terra seguiva il ritmo, tremando. Era un ritmo di passi, a gruppi di sei, sempre più vicini. Doveva avere una bocca, vero? E con quella le avrebbe strappato la testa, come nelle favole.
Gnam gnam. Bambina. Non ti piacerebbe una favola?



Racconta mamma, ma non morire.
Non morire Rosa. Ti amo.



Vi ho delusi.
Mi dispiace.
Mi. Di. Spia. Ce.
Il suo corpo tamburellava ancora, in risposta a loro, quella nenia triste. In tribunale aveva condannato, e ora pagava il prezzo. Non era certa tutto fosse successo proprio così, ma le parevano ricordi sufficientemente giusti.
Non era nemmeno certa di non aver già attaccato, sentiva le mani calde, eppure tutto quel mare di dolore le rendeva difficile pensare cosa fosse vero.
Era vero il mostro peloso che occupava ora tutto il suo campo visivo.
E falso il benessere che sentiva nel cervello, simile a un palloncino.
Era vero il tradimento.
E falso il campo dove avrebbe scoperto la via di casa.
E vere le lacrime. O forse false. Che ora le riempivano gli occhi.
Che merda.
Questo pensò. Ed era volgare, ma non poteva farci niente.
Sarebbe stata una morte ridicola e volgare, mentre i suoi conquistavano una città che non sarebbe mai appartenuta ad alcuno.
Un gigantesco artiglio si sollevò sopra la sua testa.
Spo. Sta. Ti.
Si trascinò di lato. Lui era lento. Ma anche lei. Le imprigionò un angolo della veste, trascinandola verso l’alto, sopra due minuscoli occhi stroboscopici. Così piccoli in un corpo tanto grande.
Così. Vulnerabili.
Rise di una risata isterica.
Era sollevata sopra quella bocca di ragno, sopra quel corpo peloso. E non voleva morire. Anche se le faceva male tutto e voleva piangere. Perché lei voleva ballare e lottare ancora.
Era stata stupida. E questo la faceva. Molto. Arrabbiare.
Senza quasi rendersene conto era di nuovo di fuoco, come nella stanza degli specchi che forse non era esattamente così perché non ricordava bene con quel dolore. Ed era una torcia che lo feriva, obbligandolo a scagliarla in alto di nuovo. Abbastanza maldestramente, però, tanto che riuscì nell’intento di cadergli sopra.
Era morbido e pulsante, come un tappeto di quelli che adornavano la sua casa. La casa di Cheval, ma erano dettagli. Questo però faceva molta più puzza, di bruciato. E sibilava, agitandosi come se ci fosse un terremoto. La obbligava a muoversi artigliandosi ai peli, centimetro dopo centimetro, come se domasse un cavallo imbizzarrito.
E ogni volta che strisciava un po’ più avanti, lo sentiva gemere.
Ma non provava pietà, proprio come nel tribunale. Solo soddisfazione. Perché quei piccoli occhi erano sempre più vicini e lei era una torcia umana ampia quanto un falò, in grado di avvolgerlo tutto. Con due mani roventi, sospese sopra i suoi occhi, che liberarono due stelle di fuoco ancora più rovente.
Un altro grido, una scartata.
Non si stava aggrappando. Stava rotolando ancora a terra.
Dolore.
E stupidità.
Muori con me. Bastardo.
Questo pensò.
Muori.
E nella sua testa c’era qualcosa di acido che le premeva contro le tempie e all’altezza del naso.
La creatura gridava e quel grido. Era. Immenso. Ed era colpa di lei.
Tanto immenso che si costrinse a tapparsi le orecchie, che lo sentissero solo gli altri.
Lei non voleva più saperne niente.
Si accoccolò su se stessa, in posizione fetale, chiudendosi a tutti quei rumori. Forse ora il mostro l’avrebbe uccisa. Lo guardò con la coda dell’occhio. Aveva una spada piantata nel fianco. Ed era una spada familiare. La sua spada. Quando lo aveva trafitto? Non ricordava bene.
Ma provava dolore, lì sulla sabbia calda quanto il suo corpo.
Serrò le palpebre con forza.
Era stufa di porsi domande. E dolorante. E la sua bambina era lì dentro da qualche parte. Ora forse l’avrebbe trovata, finalmente.


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Equipaggiamento: //
Consumi: Medio x2 (-16%)
Energia Residua 100 - 16% - (13 + 13 + 11)% = 47%
Danni riportati: Varie contusioni e ferite sul corpo, stordimento.
Azioni: Ho cercato di alleggerire la scena narrandola come un flashback che Dalys vive. Di fatto le passa la vita davanti mentre il Bebilith la scaglia nell'aria. Tra un po' di confusione e un po' di razionalità rievoca il proprio piano per prendere il potere e conquistare il controllo della città e poi consegnarla nelle mani del Re. Per farlo sfrutta i Dispersi protetti facendo il doppio gioco e il fatto che i cittadini-morti paiano non distinguerli (forse mi sono presa una libertà, ma spero vada bene comunque).
La battaglia prosegue nella parte finale del post, ma era già iniziata prima, probabilmente con una serie di attacchi fisici e un po' di fuoco. Dalys viene artigliata dal ragno e utilizza Passione per prendere fuoco. In questo modo viene scossa via ma riesce a ricadergli sopra. gli striscia addosso fino agli occhi e qui gli spara di nuovo Passione, questa volta la parte di pergamena che le consente di castare a distanza. Il tentativo è di accecarlo e magari friggergli il cervello (sono due consumi Alti).
Rotola poi a terra e, sentendo il grido del mostro, con la pergamena Boato lo converte in uno psionico sempre di livello Alto. Spero di non aver esagerato.
I danni subiti appartengono alla parte di combattimento non narrata, che le emozioni e lo spavento hanno in parte confuso.

EDIT: aggiunti i danni fisici e cancellata parte dello specchietto. Copincollare quello del post prima per accelerare i tempi è deleterio chiedo perdono :sigh:

Passive in utilizzo




Autocontrollo ~ Al 10% Dalys non sviene

Ammaliamento ~ Risparmio energetico dall'1% al 5% per le tecniche illusorie e aumento di un livello dei loro effetti

Intimità ~ Abilità passiva che induce fascino nell'osservatore

Dominio ~ Equilibrio su qualsiasi superficie

Danza di Salomè ~ Sfuggevolezza dei movimenti (abilità passiva)

Equilibrio ~ Equilibrio su qualsiasi superficie



Attive Utilizzate



Passione ~ Si parla spesso degli effetti della passione. I poeti l'hanno paragonata a molte cose, ma una la rappresenta più di tutto: il fuoco. Ardere, bruciare di passione, lasciare che invada il corpo e l'anima come un'unica forza, un unico sentimento.
Dalys, ancella della morte e dell'amore, conosce bene di cosa si tratti. Sa quanto possa essere avvolgente, quanto possa diventare pericolosa. L'ha sentita dentro di sè danzando, nel deserto riarso, danzando negli incubi e nei miraggi, uccidendo il nemico che diceva di amarla. E' così che è nato il potere, che la donna e la maga sono diventate un'unica cosa. Sarà nella lotta, nella danza, letale gioco di sensuale battaglia, sarà sotto gli occhi del nemico che si manifesterà la sua forza. Maestra dell'eleganza e dell'inganno, evocherà la passione e diverrà fiamma, torcia ardente che saetta lucente e rapida nella notte. Un soffio non vi basterà per spegnerla, un gesto le basterà per farvi suoi.
Praticamente, con una minima concentrazione il corpo di Dalys si coprirà di fiamme che non potranno in alcun modo scottarla e i suoi capelli arderanno come il fuoco, i suoi occhi diventeranno del colore rossastro delle braci. La ragazza potrà controllare le fiamme modificando la loro estensione attorno al proprio corpo e in tal misura il loro calore, in modo da infliggere danni bassi, medi, alti o critici al contatto in base all'energia spesa per evocare le fiamme stesse (l'estensione delle fiamme varia da un livello di pochi centimetri superficiale alla pelle ad uno spessore di due metri attorno al corpo).
Questa tecnica può essere usata solo in attacco.
In conseguenza di questo potere, la temperatura corporea della giovane sarà lievemente più alta del normale. Questo non avrà alcun risvolto pratico se non il fatto che la sua pelle risulterà sempre tiepida al contatto. [Variabile]
La Rosa è poi in grado di fare propria la malia del fuoco, di rendere le fiamme sue serve. Potrà infatti controllarle con i gesti sinuosi delle proprie dita, come un direttore farebbe con la propria orchestra, per indirizzarle ove più ritenga opportuno entro un metro di distanza dal proprio corpo.
Le fiamme potranno avere, come lei, creatura sfuggente a qualsiasi legge, la forma che più le possa piacere, da palla di fuoco, a muro incandescente, a getto rovente, e le sarà necessaria dispendiosa concentrazione per poterle evocare. Il fuoco, come la donna, è restio ad essere asservito. Restio, insegna l'esperienza, ma non certo peccatore di pigrizia. La velocità del colpo, in accordo con le rapide movenze della Ballerina, dipenderà dall'energia da lei stessa profusa nell'evocarlo.
[Variabile]

Canto ~ Una geisha, una Danzatrice, non vende il proprio corpo, ma la propria bellezza, la propria arte. Come statua dotata di movenze umane, come splendido fiore, la Rosa ha imparato l'arte del canto e della musica. Ella, si dice, possiede un orecchio di precisione pressochè assoluta, che le consente di apprezzare il suono più lieve e di distinguere la purezza armonica delle grandi note fondamentali. Amante dell'armonia, ha acquisito l'arte di esaltare il suono a lei gradito fino a renderlo un Canto, un Coro, una sinfonia alla sua battaglia.
Ma l'uomo comune, che ben poco ha a che fare con la vera arte, non saprà apprezzare questa magnifica trasformazione. Ad esso il suono apparirebbe come un grido disperato, un boato inascoltabile, tanto da distruggergli le orecchie e causargli un danno fisico e psichico pari ad Alto, rendendo le sue condizioni incredibilmente gravi fino alla fine della battaglia.
Dopo tutto, solo i migliori sanno estimare veramente l'arte. [Alto]



Edited by Majo_Anna - 19/6/2011, 14:00
 
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Kishin
view post Posted on 3/7/2011, 15:03




Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio. Questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere.

KRWLING



La porta del laboratorio si aprì per l'ottava volta in quattro giorni. Di seguito, il consueto fruscio dei passi strascicati di Satin lo raggiunse, seguito dall'attendente stesso qualche attimo dopo.
Cheval gli rivolse uno sguardo di rigido disprezzo, in risposta a quello di incredulità e nausea che lui aveva rivolto ai banconi rovesciati, agli alambicchi distrutti e alle macchie di sangue fresco lungo le piastrelle dorate del pavimento. Uno scambio d'occhiate che bastò a smorzare qualsiasi domanda: come Cheval non aveva alcuna intenzione di fornire spiegazioni sulla propria prigionia autoindotta, Satin non era minimamente interessato a sentirle; come si conviene ad un servitore, il ragazzo avrebbe dovuto solamente portargli da mangiare - e quelle occhiate servivano a ricordarglielo.
Quel giorno, per cena, gli fu consegnata un'oca ripiena di ostriche. Una prelibatezza che gli provocò un forte senso di nausea alla sola vista.
« Ci sono state alcune sommosse a seguito dell'esecuzione; » disse l'attendente mentre disponeva la tavola « pare che un piccolo gruppo di cavalieri si fosse affezionato alla presenza dell'angelo: non hanno preso bene la condiscendenza con la quale si è deciso di giustiziarlo. »
« Non avrei potuto fare altrimenti. » replicò Cheval con pacato disinteresse, mentre si appropinquava al tavolo con la propria sedia « Raeghar ha preteso una testa, e aveva tutte le ragioni per farlo; non concedergliela avrebbe provocato ben più di qualche sommossa. Non dubito che questi guerrieri sbolliranno velocemente le proprie ire, se queste venissero scaricate nella corretta direzione. »
Ad esempio, contro i Dispersi; una minaccia che il suo governo non aveva mai smesso di sottovalutare.
Satin fece un breve cenno del capo, stappò una bottiglia di vino e iniziò a riempire il calice del proprio signore, prima di continuare.
« A proposito di ciò, pare che Raeghar non si sia placato affatto. » aggiunse « Sembra infatti che stia diffamando la vostra scelta di liberarvi di un seguace così valente, indotta dalla negligenza di affrontarlo in una battaglia più diretta. »
Mandò giù un sorso di vino per coprire il gusto amaro della bile a quell'affermazione.
Quello era il mondo della mondanità, la battaglia che si era scelto: qualsiasi scelta avesse compiuto, Raeghar sarebbe poi stato pronto a contestarla alle proprie feste, ai processi e nelle piazze, indipendentemente da quanto questa fosse stata a suo vantaggio.
La verità è che quello che pregava per un confronto più diretto non era che lui; l'unico che vedeva anche le prospettive realistiche di uno scontro di quel tipo sui cittadini, che sarebbero rimasti coinvolti nei combattimenti.
Bevve un secondo sorso, ripetendosi che il momento dell'azione diretta non era ancora giunto.
« Dimmi qualcosa di inaspettato. »
Satin fece un cenno, e continuò « Tristàn si è unito alla guardia cittadina e sta facendo strada molto velocemente. Sono in molti, ora, a considerarlo un uomo retto e giusto, a discapito delle circostanze che l'hanno visto imputato al processo di qualche mese fa. » Ci volle qualche secondo prima che Cheval riportasse alla mente il viso di Tristàn, pressoché dimenticato « Inoltre, i suoi quattro giorni di reclusione stanno agitando i servitori. Se permette, vorrei ricordarle delle sue diverse udienze che ha lasciato in sospeso, nonché le bolle e i documenti da firmare. »
Cheval allungò lo sguardo verso la scalinata che avrebbe portato al suo ufficio, soffermandovisi per qualche secondo.
Neppure s'era reso conto che erano passati già quattro giorni.
« Dì loro di non preoccuparsi. » affermò dunque con certezza, sentendo il peso delle responsabilità sulle spalle « Mi mostrerò a breve. »
Proprio in quell'istante, lungo la scala a chiocciola, apparvero delle ombre, come se fosse stato lui stesso a richiamarle.
Pallidi fantasmi che lo scrutavano con occhi vuoti e serrando le mascelle, pronti ad attaccarlo se solo lui avesse osato fare un passo lungo quei gradini. Spettri che lo avrebbero seguito ovunque, di donne, uomini, guerrieri, vecchi e bambini.
Mandò giù un altro sorso di vino, soffocando quelle visioni malefiche che lo tormentavano ormai da settimane.
« ...Domani. » concluse « ...salirò domani. »

La porta del laboratorio si aprì per la centottantesima volta in cento giorni. Di seguito, il consueto fruscio dei passi strascicati di Satin lo raggiunse, seguito dall'attendente stesso qualche attimo dopo.
« Dalys sta facendo un ottimo lavoro in sua assenza » iniziò il servitore, non senza una punta di malizia, mentre poggiava sul tavolo la cena di quella sera - un'anatra all'arancia. « è molto amata sia dalla corte che dal popolo, nonostante le sue origini. »
Cheval aprì l'anatra con un coltello e iniziò a rigirare la carne al suo interno, senza interrompere Satin e giocherellando distrattamente con il cibo nel proprio piatto.
« Se vuole la mia opinione, però, a volte dimostra eccessiva insolenza. » proseguì mentre versava il vino « e non ha la giusta preparazione in materia politica per dimostrarsi una degna rivale di Raeghar, per quanto stia imparando. Assieme a Tristàn, ormai il magistrato ha l'appoggio di molti dei vecchi sostenitori del mio signore. »
Cheval continuò a infilzare la propria anatra, ignorando lo sguardo perplesso di Satin.
« ...mio signore? »
« D'ora in avanti tu mi porterai solo carne per cena, e a frequenza più breve di quanto stai facendo ora. » ingollò un pezzo della proprio pasto in maniera volgare, masticandolo rumorosamente « e carne di cavallo, o mucca, o pecora. Non di uccello, né pesce. »
Prese il lungo silenzio del suo attendente come un tacito assenso, prima di alzare lo sguardo e incontrare il suo sguardo inorridito, fisso sulla sua cena.
Paralizzato, tentò di blaterare qualcosa, rivolto allo spettacolo che aveva innanzi.
« Mio signore... » si nascose dietro al vassoio, senza spostare lo sguardo « ...quelli non so-sono ragni? »
Gli aracnidi usciti dalle maniche di Cheval zampettavano lungo l'anatra, divorandola. Combattevano tra loro per accaparrarsi i piccoli lembi di carne, e alcuni avevano già iniziato a tessere ragnatele nei piccoli anfratti formatisi fra le ossa fragili dell'animale, lasciando spazio metodicamente alle posate di Cheval quando queste calavano sulla cena.
Lui li guardò per qualche secondo, poi rialzò lo sguardo verso Satin, accennando un assenso.
« Tengono lontani i fantasmi. »
Gli stessi che ancora lo scrutavano dai gradini della scala a chiocciola.

La porta del laboratorio si aprì per la duecentocinquantesima volta in trecento giorni. Di seguito, il consueto fruscio dei passi strascicati di Satin lo raggiunse, seguito dall'attendente stesso qualche attimo dopo.
Satin poggiò la bistecca sanguinolenta, adornata di patate e rosmarino, sul pavimento, lontano dal tavolo rovesciato che aveva ospitato tutte le precedenti cene.
Cheval gli si avvicinò quasi senza peso, scivolando lungo il pavimento, leggero come un fantasma, seguito da uno stuolo di aracnidi zampettanti che, benché affamati, non osarono né superarlo né gettarsi sul cibo prima che lui lo ordinasse.
« Mio Lord... » esitò Satin, emettendo un debole squittio « ...forse dovrei portarle da mangiare più spesso, e dei nuovi abiti? I suoi occhi sono incavati e la pelle le ricade inerte lungo le ossa, ma lei non può saperlo senza uno specchio; inoltre, è ricoperto degli stessi stracci che aveva quando è sceso qui un anno fa. » Vide gli occhi dell'attendente tremare nelle proprie orbite, terrorizzati dal solo trovarsi lì in quella camera con lui « ...c'è da chiedersi come faccia ad essere ancora vivo ed in forze e in effetti lei... lei... lei pare un morto che cammina, mio signore. »
Cheval allungò un palmo pallido innanzi a sé, scheletrico come quello di un affamato, debole e fragile come quello di un malato.
« Porterai più cibo, sì... Krroff » sputò un grumo di catarro « Ma per loro, che stanno crescendo. »
Indicò gli aracnidi che si calpestavano tra loro ai suoi piedi, schioccando i cheliceri. Alcuni erano di dimensioni normali ma, avvicinandosi, se ne si potevano notare altri grandi come le pietre che si trovano sulle rive di un fiume.
« ...Prrroi te ne andrai subito, portando con te i fantasmi. »
E così fece, e gli spettri lo seguirono puntualmente su per i gradini.

La porta del laboratorio si aprì per la duecentosettantesima volta in cinquecento giorni. Di seguito, il consueto fruscio dei passi strascicati di Satin lo raggiunse, seguito dall'attendente stesso qualche attimo dopo.
CRASH
Satin si abbassò, scansandosi appena in tempo e lasciando che l'alambicco si infrangesse contro la parete dietro di lui, spezzandosi in mille schegge di vetro.
Rialzò lo sguardo spaventato verso il proprio signore, che lo studiava da dietro i propri occhi cavi, scintillanti d'ira; la mano ancora protesa nel gesto di rabbia che l'aveva spinto a rivoltarsi contro il suo servitore.
« TU NON CI DISTURBERAI PIU'! » Rantolò, sputtacchiando e barcollando sulle gambe deboli « NE' PIU' MAI DOVREMO VEDERE I TUOI SPETTRI! »
L'attendente, come a non farselo ripetere una seconda volta, corse su per le scale e sbatté la porta dietro di sé.
Gli spettri, tuttavia, attesero qualche secondo prima di seguirlo, allungando le facce pallide verso Cheval, che s'era accasciato in terra per lo sforzo, e teneva una mano sulla bocca, a placare un conato di nausea.
« non è affatto andata così »
A breve, tuttavia, i ragni circondarono Cheval e iniziarono a fischiare e schioccare le mandibole in direzione delle figure pallide che, a quella vista, se ne andarono silenziosamente verso la superficie, lasciandoli soli per l'ultima volta.

La porta del laboratorio si aprì per la duecentosettantunesima volta in settecentotrenta giorni. Ciò che ne seguì, tuttavia, non fu il suono dei passi strascicati di Satin.
Fu invece lo sferragliare di armi e armature, il vociare e ciarlare di cavalieri, i passi pesanti di una marcia giù per le scale a chiocciola.
Poi li vide. Un nutrito gruppo di guerrieri fermo ai piedi della scalinata, a fissarlo come fosse un abominio.
« ...Jensen, siamo certi che sia lui...? », « è un mostro! », « cosa diamine sono tutti quei ragni?! Chi ce li ha portati? »
Tra loro si fece avanti un uomo dall'aria astuta, con sul mento disegnato un barbiglio simile a quello delle capre, che li fece zittire con una sola affermazione.
« Nessun dubbio. I suoi stracci portano ancora i colori e lo stemma della casata. »
Bastò quell'ordine perché i cavalieri lo prendessero e costringessero sulle ginocchia, con una violenza tale da spezzargli un polso, benché fragile, e provocargli l'ennesimo conato di vomito.
I ragni si gettarono furiosamente contro le corazze dei guerrieri, incapaci di scalfirle in alcun modo. Per quanto grandi ed organizzati, le armi dei cavalieri bastarono a farli a pezzi, senza che potessero arrecare alcun danno.
« NOOOAAARRRGH!!! »
L'urlò suonò disumano, stridente, come due ferri scheggiati che stridono l'uno contro l'altro, accompagnato dalle lacrime di Cheval, che si riversarono sul pavimento.
Poi qualcuno gli tappò la bocca e gli piegò il capo, snudandogli il collo e la nuca.
« Mi dispiace. »
La spada di Jensen gli passò tra le vertebre, facendolo tacere.

~~~

NO
non è andata affatto così

io... ricordo.
I fantasmi raccontano; gli spettri discorrono di un passato che rivedo di quando in quando, ma non riesco a riformare.
Un passato di cui né Dalys, né Tristàn, né alcuno degli altri dispersi fa parte. Un passato che comincia dallo stesso processo, ma si sviluppa in maniera differente.
Una storia in cui io sono stato tratto in inganno
e ucciso.
Ma non da un uomo, non da una rivolta.
Bensì da una creatura mostruosa - da un Bebilith, incantato da Raeghar perché non potessi sconfiggerlo.
E quindi ho dato fuoco a Luna del Deserto, prima di tirare l'ultimo respiro; per poi rinascere, come Kishìn - il Dio della follia.
I cadaveri hanno cercato di dirmelo; i fantasmi, di raccontarmelo, e io li ho stupidamente allontanati. Sia quelli che si comportavano come persone normali, sia quelli che mi seguivano.
Loro non avrebbero dovuto essere in vita. In realtà, sarebbero dovuti restare carbonizzati nell'incendio da me provocato.
E io li ho allontanati, coi ragni. Non osavano avvicinarsi poiché pensavano, credevano, vedendo quelle creature
- che stessi tornando quello che ero; quello che sono.
E invece, sono stato ucciso
da qualcuno che nemmeno sarebbe dovuto esistere.
Esatto, ora ricordo. Ricordo tutto.
Mi ero chiuso qui, perché lui non entrasse. Ma i suoi uomini hanno divelto le sbarre della mia reclusione, coi loro interventi.
e ora...

« Un ottimo riassunto. »

sorrisoray

« Mi hai scoperto; è andata esattamente così. »



CITAZIONE
Il primo dei due post che concluderanno la quest; prego i partecipanti di non rispondere ancora.
Innanzitutto, mi scuso ancora per il ritardo: tra musical da organizzare, esami da dare e lavoro da cercare questi mesi si stanno rivelando un inferno nel quale trovare una mezza giornata da dedicare ai post è divenuto praticamente impossibile. Comunque, questo è il primo di due post (uno del Kishin e uno di Ray) che termineranno il turno del Valzer per la fazione del Leviatano: chi sarà il vincitore lo annuncerò nel prossimo post, con le conseguenze in GdR-On al risveglio del Kishin. Questo è più che altro un post di rivelazione della quest che, credo, non abbia bisogno di spiegazioni ulteriori a quelle già presenti nel narrato.
Spero di riuscire a farvi pervenire il post di Ray in giornata (lo sto già stilando); la mia idea era stata quella di postarli insieme, ma dati i miei ritardi, ho pensato che avere quantomeno il post del Kishin vi avrebbe dato qualcosa da leggere e qualcosa su cui disquisire nell'attesa del termine del turno.
Non ho granché da dire su questo post, quindi vi lascio alla lettura e ai commenti; se avete domande, usate il topic in confronto, come al solito.

 
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view post Posted on 3/7/2011, 17:17
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Benché perfetto, Ray aveva avuto necessità del Kishin; una creatura sporca, maledetta e al tempo stesso invincibile.
Una creatura perfetta nelle proprie imperfezioni, generatasi casualmente nel corso del tempo e recante in sé tutti i difetti della natura, quali il costante ciclo di rinnovamento, il consumarsi delle componenti materiali e la procreazione della vita.
Un kodoku ideale; un nido di demoni, batteri, incubi ed aberrazioni indotte a riunirsi tutt'intorno a lui dai suoi pensieri, rimorsi e bisogni carnali, abbastanza potenti da concretizzarsi e poter essere sentiti da chiunque, da fungere come richiamo per le creature più simili, e campanello d'allarme per le più deboli.
E Ray, perfetto nella sua artificiosità
immacolato nella sua costruzione
aveva bisogno di lui.
Bisogno di quell'origine naturale, caotica e casuale, concreta, che li rendeva così diversi l'uno dall'altro.

Il potere di ospitare
e generare
la vita


l'unica cosa che lo distingueva da un Dio, o dall'Asgradel.
l'unica mancanza che gli impediva di combattere quella guerra ad armi pari.
ciò che lo rendeva ancora uomo.

Mosse un pezzo lungo la sua scacchiera.
Sacrificò la regina, per permettere al cavallo di creare una breccia nel muro di pedoni formatosi a difesa del Re nemico.
E ripensò a Lia, che aveva fatto catturare dai bravi camerati solamente perché disturbasse l'Asgradel; perché lo impegnasse il tempo bastante al Kishin di riprendere i sensi. Perché impedisse a quell'entità che così tanto aveva da spartire con lui di intervenire per impedirgli di completarsi. Così che il loro confronto potesse svolgersi in maniera equa; paritaria.

E ora, il Kishin era nella sue mani.
Vi era arrivato senza alcun disturbo; senza che nessuno potesse impedire che i suoi piani si compissero.
Senza che alcuno si ribellasse, o avesse la forza per farlo.
Inesorabilmente, ogni cosa stava precipitando nella direzione da lui desiderata, verso la conclusione che l'avrebbe condotto al dominio totale e incontrastato di ogni forza naturale esistente. Gli eventi vi stavano cadendo senza ostacoli, senza alcun appiglio, impediti e incapacitati a ribellarsi in alcun modo.
Stava per vincere quella battaglia senza alcuna difficoltà; persino contro l'Asgradel stesso.
e ciò lo rese
triste.

Alzò uno sguardo spento verso il corpo cadaverico del Kishin, trattenuto dagli artigli di Chevalier. Il kodoku si stava agitando nel tentativo di liberarsi da quella stretta, benché la propria forza non fosse minimamente sufficiente a permetterglielo. Attorno a loro stavano ancora i corpi privi di sensi di coloro che si erano svegliati per ultimi, e di quelli che avevano resistito fino alla fine, risvegliando il Kishin dal suo coma.
Generali che avrebbe generosamente ricompensato.

Senza perdere altro tempo, posò il palmo della propria mano sul viso del cadavere, troppo terrorizzato per emettere alcun suono, e lì, lentamente, iniziò ad assorbirne la natura e le capacità.
Ogni singolo Bebilith abitante il Kishin si introdusse nelle maniche di Ray
la carne del corpo sembrò rimpolparsi, sporcando quella del sovrano, indurendola e scurendola
le ossa del cadavere si risanarono, gli occhi tornarono lucidi e pieni, come due pallide lune
i capelli ripresero colore e si rinfoltirono.
A breve, il Kishin tornò ad essere Cheval
e tutto quel potere che l'aveva reso un Dio, un Kodoku naturale
si riversò in Ray, facendolo rinascere - schiudendo il suo bozzolo - trasformandolo.

Cheval stette in lacrime - di gioia per essere tornato umano o inconcepibile tristezza - mentre innanzi a lui si erse
la nuova forma di Dio.

raysemprepidio

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Quando anche gli ultimi suoi generali avessero ripreso i sensi, si sarebbero trovati innanzi a Dio, in carne e ossa.
Cheval non sarebbe più stato lì e tutti i loro sogni infranti. Innanzi a loro solo Ray, nella sua forma più maestosa
e in alto, nel cielo, a migliaia di metri di altezza, proprio sopra il maniero
un pianeta
nero come la notte
un buco, un sole nero, pulsante e grondante livore
fluttuante sopra al continente.
Più grande del maniero, del borgo o di tutte le terre del sovrano insieme.
Irraggiungibile, oscuro e splendente.

« what's done cannot be undone »



CITAZIONE
Così si conclude il secondo turno del valzer, almeno per la fazione del Leviatano. Tutti i partecipanti che non si sono già inseriti nella scena free hanno diritto ad un post conclusivo nel quale si trovano innanzi a Ray nella sua nuova forma, dopo il risveglio; tale post conclusivo può anche inserire la conclusione del vostro sogno nel mondo del Kishin: alcuni sviluppi a vostro piacimento (compresa la morte di Cheval) e poi l'inesorabile svanire del sogno.
Devo ammettere di aver avuto non pochi problemi a nominare il vincitore, ma, alla fine, la mia scelta è ricaduta su Escape.
Le ragioni che mi hanno portato a questa scelta sono differenti; benché infatti io sia assolutamente del parere che Anna abbia una padronanza dello stile e dell'utilizzo della lingua italiana migliore, mi sono reso tristemente conto che non si può affatto dire lo stesso della narrazione. Il post di Escape ha infatti uno sviluppo chiaro e conciso nel corso dei due anni di timeskip, una storia - racconta di avvenimenti plausibili e concatenati ottimamente tra loro, specie grazie a dialoghi ben riusciti e scene d'effetto. Purtroppo, non si può dire lo stesso del post di Anna che in comune con quello di Escape ha solamente la premessa fondamentale del successo del personaggio nel corso del tempo (e nemmeno un accenno al come). Gli sviluppi sono relegati a una piccola scena che spiega di come Dalys non abbia fatto che la stessa cose per due anni (le torture), benché sia sottointeso che, diventata la "donna del popolo", abbia compiuto ben altre imprese: sarebbe stato molto più interessante leggere di quest'ultime, piuttosto che dell'unico aspetto sempre uguale nella sua vita - invece queste sono a malapena accennate. In seguito, ho notato alcuni errori concettuali: ad esempio, la descrizione di Satin come cadavere - benché sia specificato che è una delle poche persone che i protagonisti avrebbero dovuto vedere come viva - e la presenza di Raeghar alla festa dell'anniversario di Dalys. Essendo quest'ultima la sua rivale politica succeduta a Cheval, perché mai Raeghar avrebbe dovuto presenziare alla sua festa? "Ma Ray, ovviamente per invitare Dalys nel posto in cui è stata attaccata dal Kishin!" "Ok, mio piccolo amico, ma allora perché l'hanno lasciato partecipare? Perché non è stato accennato nulla sulla stranezza che Raeghar si trovasse nel palazzo di Polvere di Stelle? Insomma, piccolino, a mio parere la situazione lasciava troppi sottointesi, per prendersi un paio di righe in più per descrivere il ballo". Insomma, scherzi a parte, se si parla di puro e semplice stile, ritengo che Anna sia superiore ma, evidentemente, quando si parla di narrazione e di successione di avvenimenti, Escape è più diretto e più corretto - lascia poche cose al caso e da le giuste spiegazioni. Vorrei spingere Anna a spingersi di più in tal senso, soprattutto nel caso in cui volesse darsi alla scrittura anche al di fuori di Asgradel: con uno stile così impeccabile, è uno spreco sprecare così tante righe per descrivere la solita scena di danza (o di combattimento) piuttosto che una trama, una successione di avvenimenti o semplicemente uno o più accadimenti.
Detto questo, passo alle ricompense.

Escape: 1000G più 3 amuleti servitori, nelle forme di Vaarg, Jensen e Samantha. Ray ha ora il potere di creare la vita, dunque al tuo risveglio, vedrai i loro corpi svenuti accanto al tuo. Come premio, in pratica, Ray ha ricreato nel mondo reale i tuoi tre custodi grigi, che d'ora in avanti accompagneranno Tristàn nelle sue avventure.
Majo_Anna: 1000G
Gemini: 750G
Jimmy: 750G
Mirkito: 500G

Mi congratulo davvero con tutti quanti - è doveroso - e sono lieto di annunciare che:

Hell on Earth supera il secondo turno del Valzer
e passa in finale



Per qualsiasi domanda o curiosità, mi rimando al topic in confronto.

 
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Tristàn Cousland
view post Posted on 2/8/2011, 02:56




Unknow Chapter


Esalate il vostro ultimo respiro, amici miei,
oltrepassate il Velo e l'Oblio e tutte le stelle del cielo.
Riposate alla destra del Creatore
e riceverete il suo perdono.

Cantico delle Tribolazioni 1:16



Un'occhio mosso da malevola superstizione li avrebbe giudicati senza alcun dubbio dei jinn del deserto - creature mitologiche a metà tra il mondo terreno e quello celeste, spesso di natura ostile all'uomo - e sarebbe corso via a gambe levate, fuggendo il più lontano possibile lanciando pompose preghiere ai propri dèi.
Ovviamente sarebbero caduti in errore con tale supposizione.
Era però vero che quel serpente di uomini e cavalli che si snodava per diversi metri nel cuore del deserto poteva emanare una certa soggezione: più simili a spettri che ad uomini. Le armature coperte da lunghi mantelli, i volti protetti dalla sabbia con turbanti. I pochi lembi di pelle lasciati scoperti, cotti dal sole come creta, gli occhi ridotti a nient'altro che due fessure.
Gli anziani cittadini di Luna del Deserto erano infatti soliti credere che solo due creature potessero sopravvivere nel deserto: i jinn e gli scorpioni.
Ma quegli uomini, temprati dalle battaglie e abituati sin dalla giovanissima età a marciare in quelle condizioni erano comunque riusciti a non perire nel tragitto, raggiungendo - con il prezioso carico - la destinazione indicata loro da Raeghar.
Il modesto manipolo di soldati aveva sin da subito dato grande prova di efficenza seguendo alla lettera le istruzioni del loro comandante: trascinare il Bebilith al centro della piazza d'arme e disporsi in circolo tutt'attorno. Montarono rapidamente - e con l'esperienza di chi è stato addestrato per lunghissime ore ad eseguire tali mansioni - un improvvisato campo, così da creare un perimetro facilmente difendibile tra le rovine dell'antico accampamento oramai abbandonato, lasciato al proprio destino. Un tempo vi avevano dimorati i nemici di Luna del Deserto, coloro che avevano tramato ai danni dei cittadini, coloro che avevano pianificato ignobili assalti alle carovane e che erano stati poi passati a fil di spada dalle stesse pattuglie guidate da Tristàn. Non aveva provato alcun accenno di pietà, neppure il più misero per quei miserabili. Nemmeno quando, capendosi ormai prossimi alla morte, avevano gettato le armi e si erano prostrati dinnanzi a lui, baciandogli gli stivali, lordando la sua pettiera con le loro false lacrime. Il suo cuore non si era mosso a compassione. Non l'avevano mai mostrata ai suoi uomini, sfortunatamente caduti nelle loro trappole. Neanche nell'ora suprema, nel momento in cui l'intera vita di un uomo si compie, ebbero la decenza di trapassare con onore. Privi di dignità in vita, privi di dignità nell'oltretomba.
Smontò da cavallo e sedette attorno al grande fuoco acceso nel centro dell'accampamento, dove una decina di soldati stavan già pigramente giocando a dadi, consumati da un'emblematica attesa. Una silenziosa domanda aleggiava nell'aria, invisibile come un fantasma ma presente come il puzzo di morte che avvolgeva l'intera zona.
Chi stiamo aspettando? Cosa ci facciamo qui, nel mezzo del nulla, con questa bestia?
In verità nemmeno Tristàn conosceva la risposta a quel quesito. Raeghar aveva comandato e lui aveva prontamente obbedito, senza porre in discussione la sua decisione, senza annoiarlo con tediose richieste di spiegazioni. Ricordava ancora l'ultima volta che si erano trovati faccia a faccia, ricordava come aveva annuito ai suoi ordini senza battere ciglio, come un pupazzo di pezza vivente, capace unicamente a rispettare gli ordini di colui che gli aveva dato la vita. Ma un'apparenza così servile nascondeva un piano di rivoluzione. Aveva chinato leggermente il capo, assicurando che il compito sarebbe stato svolto senza alcun intoppo: dentro di sè, tuttavia, gli aveva promesso la morte. Sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe preso ordini. Sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe assecondato, l'ultima volta in cui si sarebbe trovato a guardare la disgustosa faccia di Raeghar senza avere in pugno una lama.
Assorto nei suoi pensieri non si accorse immediatamente della brocca di vino rosso che gli veniva offerta da un suo giovane sottoposto. Lui stesso aveva dato ordine di rifocillarsi. Non aveva nulla di personale contro quei soldati, non gli avevano inferto alcuna sofferenza, nessun torto gli era stato rivolto, tuttavia la loro morte era un prezzo necessario affinchè la città cadesse. L'idea di parlar loro per farli unire alla sua causa gli balenò in mente, ma venne prontamente scartata: se non avessero accettato - cosa piuttosto probabile - si sarebbe trovato isolato e avrebbe trovato la fine per mano di uno di loro, ansioso di dimostrare in quel modo la sua fedeltà ai due consoli. Non poteva correre un simile rischio, tuttavia non avrebbe nemmeno inflitto loro pene non necessarie.
Nessuno meritava di morire a stomaco vuoto. Avrebbe risparmiato loro quell'ulteriore disagio. Accettò quindi l'alcolico, bevendone una lunga sorsata, la quale placò - seppur insufficentemente - il bruciore che gli divorava la gola. La caluria, nonostante l'ora tarda, restava comunque insopportabile.
Mentre si preparava a tornare indietro, avvolto dal glaciale silenzio degli uomini della scorta, non potè fare a meno di provare una sorta di senso di colpa per ciò che presto sarebbe accaduto in quell'accampamento: il Bebilth, lo stesso con cui si era battuto lui stesso - con l'ormai defunta Rekla al suo fianco - due anni addietro, avrebbe massacrato tutti i presenti, ignari attori di una tragedia che li vedeva come pedine sacrificali.
Scacciò quei cupi pensieri, ricordando il mantra che gli era stato più volte ripetuto dallo stesso Duncan: "nessun prezzo è troppo alto per un Custode, noi compiamo il necessario dovere. Ad ogni costo". E così avrebbe fatto a sua volta.
Diede così le ultime disposizioni e annunciò che sarebbe rientrato a Luna del Deserto per alcune urgenti questioni, ma che a breve sarebbe giunto un ufficiale cittadino a dar loro nuove disposizioni.
Una scusa piuttosto banale, alla quale in pochi dovettero credere, tuttavia era il meglio che fosse riuscito ad orchestrare. In teoria non avrebbe nemmeno dovuto dar spiegazioni, si sarebbe dovuto limitare a comandare e loro ad eseguire.
Gli uomini della scorta non accettarono di buon grado l'essere lasciati soli con quella mostruosa creatura. Per ovvi motivi nessuno palesò la propria irritazione - chi mai avrebbe voluto essere accusato di insubordinazione? - tuttavia al Custode non sfuggirono gli sguardi carichi di rabbia che gli vennero indirizzati mentre, dopo aver comunicato il suo imminente ritorno alla città, spronava la sua cavalcatura nella direzione da cui erano venuti.
Addio, addio.
Mi dispiace. Avrei voluto trovare un'altra soluzione ma... mi spiace.

Parole che non vennero mai pronunciate, che rimasero incatenate nel profondo del suo animo.

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Mai nessuno di loro avrebbe dimenticato quella notte senza stelle, dove anche la luna fuggeva all'occhio umano, forse anch'essa troppo disgustata per regalar loro la sua pallida luce.
Il Comandante rientrava in città. Nelle sue mani era delegata la speranza di intere famiglie, la speranza di un futuro migliore per la città, la speranza di far crescere le nuove generazioni libere dalla tirannia e dalla corruzione morale cui per così tanto tempo erano stati involontari partecipanti. Un giorno glorioso sarebbe giunto al sorgere del sole, un giorno che avrebbe spazzato via in un attimo tutta la sofferenza e la morte che avrebbero affrontato in quella lunghissima notte.
Quando il suo cavallo, schiumante per la fatica cui era stato sottoposto, giunse nei pressi delle mura di Luna del Deserto, uno stormo di cavalieri gli venne incontro, affiancandolo e galoppando al suo fianco verso le porte cittadine. Il volto del bianco cavaliere, ora non più mascherato dal pesante elmo, rivelava la sua stanchezza, gli occhi segnati da profondi solchi dovuti alle recenti notti senza sonno, la barba, ormai non più semplicemente incolta, gli chiazzava il viso con ciuffi ribelli, troppo lunghi per essere tenuti a bada. Non vi era stato tempo per una rasatura.
Uno stolto avrebbe potuto giudicarlo come lo spettro di colui che aveva fieramente lasciato il Ferelden, ma non i suoi sottoposti. Questi riconobbero immediatamente il fuoco nei suoi occhi, l'ardente desiderio di battersi per la causa che negli ultimi anni aveva promosso. L'orgoglio impettì il comandante, commosso dal valore di quegli uomini. La terra tremò al loro passaggio, sotto il pesante passo dei ferrati zoccoli.
Era la sua legione, un'unità di battaglia formata dai migliori figli del deserto, composta da coloro che lo avevano affiancato in quante più scaramucce potesse ricordare. Avrebbe ottenuto la vittoria al loro fianco, o sarebbe stato comunque felice di morire mescolando il suo sangue maledetto al loro.
Nessuno di loro parlò, nemmeno il centurione che aveva fatto le sue veci in sua assenza. Il piano era già stato lungamente discusso in precedenza.
Quando erano ormai a poca distanza dai cancelli, volle rompere quel silenzio carico di tensione per assicurarsi che nessuna vittima civile sarebbe stata mietuta.
«Avete scortato le vostre famiglie nelle gallerie sotterranee?»
A rispondergli fu un ragazzo di circa vent'anni, il quale stringeva nervosamente la lancia. Il tremore che muoveva il suo braccio era evidente.
«Ottimo lavoro. E adesso diamo inizio alla liberazione!»
Esclamò alzando volutamente il tono di voce, assicurandosi di farsi udire anche da coloro che si trovavano nelle retrovie. Spronò la cavalcatura e si lanciò nell'ignoto.
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Luna del Deserto come Denerim.
La spiacevole sensazione di déjà vu aveva infettato irrimediabilmente ogni cellula del Custode, esasperandolo e evocando nella sua mente ricordi che avrebbe di gran lunga preferito tener sepolti nei meandri più oscuri del suo essere. Il passato doveva rimanere tale, non avrebbe dovuto farsi avanti con così tanta, inarrestabile forza. Per lui il Passato era una sorta di chimera, una bestia mostruosa che sconfiggeva ogni giorno, in ogni tramonto, solo per vederla risorgere alle prime luci dell'alba. Avrebbe voluto dimenticare tutto ciò che aveva patito durante l'ultimo suo periodo nel Ferelden, mantenendo solo il meglio, ricordando solo le amicizie che era riuscito a stringere nonostante i tempi difficili che avevano travolto il continente. E, ovviamente, l'incontro e la passione con Morrigan. Un giorno, ne era sicuro, quando tutto si sarebbe sistemato - non aveva certezze, ma per non crollare doveva credere che il Creatore si sarebbe, prima o poi, mosso a compassione nei suoi confronti donandogli così un po' di meritata serenità - avrebbe narrato a suo figlio di come anche quando la realtà stessa sembrava sull'orlo della distruzione, la determinazione degli Uomini era riuscita a prevalere, di come la Speranza aveva schiacciato brutalmente le forze del Male. Di come, anche in mezzo alla morte, l'Amore aveva prevalso.
Avrebbe voluto abbandonare il Custode in lui per abbracciare interamente il ruolo di membro del clan Goryo. Impresa pressochè impossibile dato il percorso che aveva intrapreso anni addietro. Duncan l'aveva avvertito: una volta bevuto il sangue di Prole Oscura non vi sarebbe stato spazio per alcun ripensamento. Impossibile quindi dimenticare il passato quando il tuo stesso corpo viene devastato dalla corruzione, quando i tuoi stessi sogni vengono inquinati da orride visioni apocalittiche.
Padre e Marito.
Salvatore e Distruttore.
Custode Grigio e Ufficiale del Goryo.
Era tutto e niente in quella notte.
Aveva cavalcato per le strade della città a capo di una nutrita di fanti appiedati, gridando ordini e galoppando da una parte all'altra per condurre le cariche contro gli ultimi baluardi di resistenza. Ora cominciava a sentire la stanchezza. Arrestò l'animale tirando brutalmente le redini: automaticamente si bloccò anche l'avanzata delle truppe. Non dovevano disperdersi ora che erano arrivati a destinazione, si trovavano finalmente dinnanzi all'edificio che, una volta raso al suolo, avrebbe sancito la fine della dittatura di Raeghar: il suo palazzo. In realtà si trattava più di una sorta di roccaforte, una villa enorme che solitamente ospitava feste e banchetti. L'aspetto maestoso e rigoglioso che aveva sempre mostrato ora veniva sostituito da un qualcosa di spettrale, di tetro. Nessuno vi avrebbe più abitato, i tempi d'oro di quella tenuta si sarebbero conclusi con la morte del suo ultimo proprietario. E mai nessuno vi avrebbe più abitato. Non sarebbe mai tornata allo splendore iniziali. Nessun passo di danza sarebbe stato mosso da alcuna ballerina nei suoi ampi saloni. L'avrebbero demolita pietra dopo pietra, cancellando ogni ricordo di coloro che vi avevano ignobilmente abitato.
Una nuova era sarebbe sorta sulle ceneri di quella villa.
Al suo interno vi erano rintanati tutti i guerrieri - all'incirca non più di una cinquantina, compresa la guardia privata che pattugliava abitualmente il perimetro della proprietà - ancora fedeli al vecchio console, tutti coloro che erano riusciti a salvarsi dall'attacco congiunto dei quattro Custodi, i quali avevano barricato i cancelli esterni con tutto ciò che erano riusciti a trovare. Pietre, mobili e addirittura vecchi quadri che, in altre circostanze, avrebbero ricevuto un trattamento ben più delicato. Addirittura una quercia era stata sradicata e frettolosamente accatastata contro il cancello.
Tutt'attorno Luna del Deserto stava bruciando.
Erano ormai trascorse diverse ore dall'inizio del massacro. Tale era lo spettacolo - sangue e viscere in ogni dove - che i sopravvissuti avrebbero ricordato. Non vi era stata alcuna trattativa. Le guardie cittadine sui bastioni erano state le prime ad essere travolte: da lì i combattimenti si erano spostati per le strade, dove gli ignari guerrieri ancora fedeli al potere centrale avevano opposto una fiera resistenza, nonostante la totale mancanza di preavviso. Alcuni, addirittura, si erano buttati nella mischia con ancora le pantofole, con in mano solamente un qualche coltello raccolto dal proprio tavolo.
Gli uomini di Tristàn - riconoscibili per la croce rossa che aveva ordinato di far dipingere sulla pettiera di ognuno di loro, così da evitare spiacevoli inconvenienti anche nei momenti più concitati - avevano avuto la meglio poichè pronti a tale avvenimento, ben armati e consci di ciò che stava accadendo. Ma solo grazie all'effetto sorpresa erano riusciti ad impedire che Cheval e Raeghar riorganizzassero le forze a loro fedeli.
Inevitabilmente durante le prime fasi della conquista cittadinia alcuni roghi erano divampati e nessuno, nella foga della battaglia, si era interessato a spegnerli, non quando il rischio di essere trafitti alle spalle da una freccia scagliata da chissà dove era ancora piuttosto consistente. Al tanfo dei cadaveri ammassati ai lati delle strade - era stata una battaglia tutt'altro che facile, una sorta di lotta fratricida tra uomini che fino alla mattina prima avevano vissuto pacificamente - si univa l'insopportabile puzza di bruciato, il tutto aggravato dal nero fumo che saliva da diversi tetti - in particolare quelli composti da paglia e legno - verso le stelle.
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Tutto ciò però non aveva alcuna importanza. La pietra, così come era stata modellata, poteva essere distrutta e plasmata ancora. Gli edifici potevano venir distrutti così come potevano venir ricostruiti: a costo di radere al suolo l'intera Luna del Deserto, avrebbero trionfato. L'avrebbero riedificata, più maestosa di quanto era mai stata se necessario.
Un'ultimo sforzo andava compiuto, un'impresa in cui nessun errore sarebbe stato tollerato.
Il suo intelletto tattico l'aveva fermato, l'aveva obbligato ad agire con più prudenza: il confine tra una gloriosa vittoria ed una disastrosa sconfitta era molto labile; una sola scelta errata avrebbe potuto condurli tutti in un baratro senza fine. Non bisognava mai sottovalutare il nemico, specie se messo alle strette in quel modo e quindi disposto a tutto pur di salvare la pelle o, quantomeno, a portare quanti più altri nella tomba.
Per questo motivo l'assalto finale ancora non era stato ordinato, ancora non erano stati presi di mira i cancelli, ancora non si vedevano gli arieti. Inizialmente aveva pianificato di assaltare la residenza di Raeghar in solitaria, convinto di poterlo mettere sotto scacco solamente con gli uomini di cui disponeva: il tentativo di una presa rapida della città era però sfumato man mano che la resistenza si era dimostrata più accanita di quanto previsto. Aveva quindi deciso di attendere che tutti i reparti dell'esercito si radunassero nella piazza centrale, dinnanzi alla quale si ergeva maestosa la dimora del tiranno. Samantha e i suoi, Vaarg e gli indomabili guerrieri nordici che erano con lui erano tutti già giunti; all'appello mancava solo Jensen con il suo manipolo di assassini. A lui era toccato forse il compito più arduo.
Tristàn si concesse un momento di pausa e scrutò il cielo; seppur inconsciamente cercava un segno, qualcosa che potesse convincerlo una volta per tutte che ciò che stava facendo era giusto, un miracolo che potesse allontanare ogni dubbio. Purtroppo, però, vide solo grosse nubi addensarsi nell'oscurità, rendendo l'aria umida e pesante.
«Dietro quel cancello si cela la chiave per la rinascita di Luna del Deserto!»
Ringhiò a gran voce in direzione dei guerrieri alle sue spalle, i quali non attendevano che un suo ordine per dare via all'assalto. Un boato di grida entusiaste, guidate dalle folli urla di Vaarg, gli venne in risposta. Armi vennero agitate in aria, spade vennero fatte cozzare contro gli scudi: cercavano di fargli capire che lo avrebbero seguito anche in capo al mondo, che ormai non si sarebbero tirati indietro. Il suo animo venne riscaldato da tali acclamazioni e, per un istante, si sentì immortale, percepì la fiamma dell'invincibilità ardergli nel petto. I precedenti scontri avevano fatto sì che l'adrenalina scorresse a fiotti nel suo sangue, donandogli un ebriante sensazioni di potenza.
«Vi chiedo quindi di combattere al mio fianco, ancora una volta!
Vi chiedo di non arretrare dinnanzi alle armi del nemico, vi chiedo di sputare sangue accanto a me!
IO VI CHIEDO DI PURIFICARE LA CITTA' DA QUESTO ANTICO MALE!»

Nel pronunciare quelle ultime parole, sollevò in aria la lucente Dumat, imitato subito dopo dall'intero esercito. Non era mai stato un grandissimo oratore, ma sperava di aver infuso un po' di coraggio in quegli uomini; ordinari cittadini, ora chiamati dal Destino a compiere imprese straordinarie che li avrebbero fatti entrare di peso nelle leggende del deserto.
«Tristàn, perchè non annunci loro il nostro primo successo?»
Una voce calma, piatta, ma con una flebile inflessione divertita aleggiò nell'aria. Immediatamente un brusio si diffuse tra le linee: chi mai poteva aver interrotto il discorso del comandante? Egli stesso si guardò intorno alla ricerca della fonte, trovandola solo dopo qualche secondo in cui mosse lo sguardo sull'intera piazza. A parlare era stato Jensen, ora avvolto in un pesante mantello nero e posizionato sul tetto di una casa. Se ne stava appoggiato con le spalle ad un camino, stringendo al petto una sacca chiazzata di sangue. Il viso, parzialmente coperto da un cappuccio del medesimo colore, gli conferiva un'aura misteriosa e che degli sconosciuti avrebbero potuto reputare minacciosa. Ma non il Custode, il quale aveva imparato a fidarsi quasi incondizionatamente di quel prezioso alleato.
Una volta che tutti gli occhi furono puntati, una volta che ebbe ottenuto la massima attenzione, portò la mano destra all'interno della sacca, afferrandone qualcosa di non ancor ben identificato. Quando rivelò all'improvvisato publico il segreto che custodiva, l'orrore macchiò i volti di tutti: Jensen teneva per i capelli una testa decapitata. Le orbite, fisse nel vuoto, sembravano supplicare aiuto, mentre le labbra, spalancate, suggerivano quanto la vittima fosse rimasta sorpresa nel trovarsi prossima alla morte. Le guance, innaturalmente gonfie, mostravano i primi, ancora tenui, segni di decomposizione. Il taglio, infine, era assolutamente preciso, tanto che nessun lembo di pelle minacciò di staccarsi penosamente.
Il giubilo sostituì il terrore una volta che il proprietario di quella carne putrefatta venne identificato: si trattava dello stimato Cheval, il primo dei due governanti ad abbandonare quel mondo.
Il Cousland personalmente non gradì quella visione, ma dovette ammettere che ebbe un effetto benefico sulle truppe: queste, una volta che la testa venne gettata da Jensen in mezzo a loro, presero a passarsela come una reliquia, ognuno ansioso di sputare sulla faccia che, da ormai diverso tempo, associavano all'oppressione.
«FACCIAMO CAGARE UN PO' DI MERDA A QUEL ROTTINCULO!»
Tuonò gutturalmente Vaarg, eccitato come mai lo si era visto prima, strappando il macabro trofeo dalle mani di un soldato. Soppesò la testa per qualche istante, sorridendo sarcasticamente, prima di esibirsi in un lancio impressionante: ciò che restava di colui che un tempo era conosciuto come Cheval superò le barricate della villa e atterrò sordamente oltre la recinzione, proprio dinnanzi i grandi portoni. Le guardie dentro asserragliate avrebbero sicuramente visto tutto lo spettacolo attraverso le finestre: ciò avrebbe gettato sconforto nei loro cuori e avrebbe ulteriormente abbassato il loro morale.
asserragliate
«Non credi sia giunta l'ora di mettere fine a questa storia?»
Domandò una voce femminile. Voltandosi Tristàn si trovò Samantha a poca distanza, con un espressione imbronciata e annoiata. Avrebbe dovuto immaginare che la maga non avrebbe apprezzato simili dimostrazioni di spavalderia, nonchè l'inutile perdita di tempo. Il Custode Grigio si decise così a darle l'ordine che da tempo attendeva: far esplodere l'ingresso così da liberare la strada agli assedianti.
La giovane donna, una maga cresciuta liberamente, senza alcun templare a limitare la sua creatività spirituale - da quel che aveva visto il continente di Asgradel non disponeva di alcun Circolo, nè tantomeno di controllori, lasciando piena libertà a coloro dotati di poteri fuori dalla norma - si posizionò dinnanzi alla barriera, divaricando le gambe e stringendo con forza il lungo bastone di ferro. Il silenzio la circondò, nessuno osò pronunciare una sillaba. Aveva bisogno di quanta più concentrazione possibile. Chinò il capo e sembrò cadere in stato di trance; si dimenò convulsamente e pronunciò parole a loro tutti incomprensibili, mentre il bastone prendeva a brillare di luce propria. Spirali di fumo presero a vorticare attorno all'arma. All'improvviso, il fragore di un esplosione riecheggiò nella piazza. Una palla di fuoco apparsa dal nulla si schiantò contro il cancello, deflagrando e distruggendo tutto ciò che incontrò sul suo cammino. La forza dell'urto e l'intenso rumore assordarono tutti. Samantha non sembrava più umana, aveva infatti l'aspetto di una sorta di divinità della vendetta, con i denti serrati in un espressione implacabile.
Dietro il bel volto, dietro l'apparente calma si nascondeva una furia dagli enormi poteri. Sembrava quasi fragile, a prima vista, ed era proprio questa la sua bellezza, perchè a dispetto delle apparenze era scolpita nel marmo. Samantha era un fiore sbocciato su una roccia, e proprio dalla roccia aveva preso la sua incrollabile forza d'animo. In passato aveva raccontato a Tristàn scorci spiacevoli del suo passato, e allora l'uomo aveva potuto realizzare quanto fosse temprata e coraggiosa, capace di rialzarsi anche dopo le peggiori cadute. Forse anche Jensen e Vaarg avevano capito ciò, forse proprio per questo ne erano entrambi, segretamente, innamorati. Più in generale, tutti e tre sarebbero morti pur di proteggere la maga che tante volte aveva salvato la loro vita. Se sentivi l'energia del suo sguardo o la vitalità del suo sorriso, ti sembrava che tutto cambiasse intorno a te. Una presenza femminile, specie di quello stampo, aveva spesso contribuito a rallegrare la compagnia, anche nei momenti più critici.
In un'altra vita probabilmente il Cousland si sarebbe innamorato perdutamente di lei.
Raeghar non aveva quindi più alcuna possibilità. Tutti e quattro i Custodi di Luna del Deserto si apprestavano a marciare sulla sua tenuta. La via era spianata, nulla avrebbe più potuto rallentarli.
Nulla, eccetto, il destino. La mano invisibile degli dei cui tutte le creature erano schiave.
Le prime linee di fanteria, in formazione serrata e con gli scudi dinnanzi a loro per proteggersi dai dardi che cominciarono a piovere su di loro, generosi regali dei difensori, non riuscirono ad avanzare più di una decina di metri.
Tutti i loro sforzi vennero vanificati proprio quando la gloria era a portata di mano, vicina eppure irraggiungibile.
Il mondo venne inghiottito dalle tenebre.
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Il sapore del sangue così familiare.
Il sapore del sangue rappresentava tutto il suo universo.
Avrebbe pagato qualsiasi prezzo per farlo cessare, per far smettere quel nauseabondo sapore. Lo percepiva distintamente sul palato, lo percepiva mentre si riversava nella gola e gli trafiggeva lo stomaco. Inarrestabile come un fiume in piena. Metallico come la migliore delle spade.
Era di nuovo cosciente, la sua mente nuovamente in grado di articolare pensieri.
Cos'era accaduto? Una freccia l'aveva forse colpito quando aveva varcato le soglie della villa e lo aveva fatto svenire? Non mosse un muscolo. Aveva p a u r a di ciò che avrebbe visto al suo risveglio.
Che l'assalto fosse fallito? Che Raeghar avesse trovato uno stratagemma per sbaragliare il suo esercito? Infondo non udiva alcunchè, o forse erano solo le sue orecchie che, per proteggerlo dalla realtà, avevan cessato ogni funzione. Che si trovasse in una delle segrete di Luna del Deserto? Che fosse stato picchiato e torturato? Questo avrebbe spiegato il sapore di sangue che gli invadeva la bocca; non sentiva però alcun dolore. Aveva solo fame. Lo stomaco brontolava, reclamava del cibo. Ricordava di aver mangiato con Samantha prima della partenza. No, doveva esser passato del tempo dal suo ultimo pasto: quanto non avrebbe saputo dirlo.
Se avesse ascoltato la voce dell'ozio sarebbe rimasto in quello stato ancora un poco, godendo del dubbio, scegliendo la via più semplice. Ma non poteva permettersi tale lusso. Era un guerriero, i problemi li affrontava - con la spada in pugno, ovviamente.
La prima cosa che vide fu il sole. O meglio, ciò che un tempo era stato il sole ora era ridotto ad un immenso, brillante ammasso di oscurità. A prima vista si sarebbe potuta dire una semplice eclissi, tuttavia non ne aveva mai vista una del genere. Non vi era nulla ad oscurare il sole, era il sole stesso ad aver subito un tale, sconvolgente cambiamento. Il simbolo della rinascita, della fertilità, si era trasformato in un memorandum che sembrava voler ricordare che l'avvento delle tenebre era imminente. Un segno del destino forse. Un presagio caduto a fagiolo data l'imminente guerra.
Triste l'ironia della mostruosa e sadica mano del Fato: il Ferelden era appena scampato alla distruzione, che già una nuova Era Oscura si stava riversando sul continente di Asgradel. Forse - non ne aveva alcuna certezza e mai l'avrebbe avuta finchè non fosse riuscito a comunicare con il Sovrano - proprio per il volere di colui che si era impegnato a servire.
Rimase ad osservarlo, sdraiato su un freddo suolo che non riconosceva, per una manciata di secondi, assuefatto da quella visione nonostante la forte carica negativa che emanava. Tutt'intorno il silenzio, solo un pianto sommesso rotto da frequenti singhiozzi; questi, troppo forti per essere attribuiti a quelli di un bambino.
Tossendo sangue - solo in futuro avrebbe realizzato che mentre la sua mente era intrappolata a Luna del Deserto il suo corpo era spesso stato colto da convulsioni: con i denti si era squarciato l'interno della guancia - riuscì a mettersi sulle ginocchia. Con lo sguardo, finalmente, abbracciò il paesaggio circostante. Rimase a bocca aperta. Non riconobbe all'istante il luogo in cui si trovava, tuttavia qualcosa gli diceva che non gli era del tutto sconosciuto. Ci era già stato, ma non ricordava.
Poi lo vide. Mutato, cambiato, trasformato, non più umano.
R a y. Il Re che non perde mai.
Abbassò lo sguardo e fissò la pettiera metallica: su di essa non vi era dipinta alcuna croce rossa, solo alcune incisioni raffiguranti ali di grifone.
Niente era stato reale.
Realizzò di essere tornato nel luogo in cui era stato due anni addietro, il posto in cui era cominciato tutto. O meglio, non era ritornato, poichè non si era mai realmente mosso, più semplicemente si rese conto che la sua mente aveva fatto ritorno all'interno del suo corpo. Dapprima gli sembrò assolutamente impossibile che tutto ciò che aveva vissuto in quegli anni non fosse che un sogno, una terribile e crudele allucinazione, tuttavia lentamente si convinse che nulla era realmente accaduto.
Per togliersi ogni dubbio decise di controllare il suo stesso corpo: ricordava che alcuni mesi prima durante uno scontro con i predoni del deserto, uno di questi era riuscito a scoccare una freccia dalla punta arpionata che gli aveva trapassato il palmo della mano sinistra, lasciandogli una vistosa cicatrice. Ricordava bene quel giorno poichè nelle settimane successive aveva trovato diverse difficoltà nell'articolare movimenti precisi con le dita stesse. Levò così il guanto d'arme, scoprendosi la pelle perfettamente intatta. Inorridì a quella vista e comprese, una volta per tutte, che si era trattato tutto di una sorta di viaggio onirico nel tempo e nello spazio, un viaggio che aveva coinvolto solo le loro menti. Qualcosa però non tornava: se era stato tutto inesistente, com'era possibile che ai suoi piedi giacevano i corpi - vivi e vegeti - dei tre che aveva reso sui soldati? Che Ray, ora divenuto qualcosa oltre l'umana comprensione, fosse stato in grado di donare la vita a ciò che lo aveva sorretto in quei due duri anni? Che fosse il suo modo per ricompensarlo?
Questo pensiero non bastò a placare la furente rabbia che si sentì montare: avrebbe come minimo dovuto avvertirgli di ciò che sarebbe accaduto.
Serrò la mascella e, d'impulso, portò la mano sulla gelida elsa della spada, stringendola con tanta forza che le nocche si tinsero di bianco sotto il pesante guanto di ferro: solo facendo leva sulla sua tenacia e sulla sua immensa forza di volontà riuscì a non lanciarsi in un attacco suicida contro il sovrano del clan Toryu.
Solo il pensiero della sua amata lo trattenne dall'assalirlo.
Una fugace visione attraversò il suo animo, annichilendo con la forza e la rapidità di un ciclone ogni intento violento. Il volto di Morrigan lo placò, il suo ricordo fu doloroso come se una spina gli avesse trafitto il cuore. Doloroso, ma inevitabile. Gli ricordò che l'ira lo avrebbe solamente portato alla rovina. Dopo tutta la strada che aveva percorso, dopo tutte le battaglie che aveva pagato con il sangue, sarebbe stato patetico il morire lì, per mano di colui che tutto gli aveva promesso. Se lo avesse attaccato non solo avrebbe perso l'unica creatura che avrebbe potuto render reali i suoi sogni, ma avrebbe anche perso la sua stessa esistenza. E non era intenzionato a morire, non prima di essersi riconciliato con la sua donna e con suo figlio, non ancora mai stretto al petto.
Per seguire i folli ideali di quell'uomo stava commettendo un duplice tradimento.
Non solo aveva voltato le spalle ai Custodi Grigi, allontanandosi senza alcuna autorizzazione ufficiale, inseguendo i primi interessi a discapito di quelli della fratellanza, ma era convinto che anche Hyena non avrebbe apprezzato la strada che stava percorrendo. Aveva lasciato il Goryo assieme a Viktor senza degnarsi di fornire alcuna spiegazione, accecato solo dal desiderio di veder trionfare Ray e quindi di condividere con egli le ricompense che sarebbero derivate dalla cattura dell'Asgradel.
Stava sacrificando ogni briciolo di onore, si stava fregiando dell'infamante titolo di disertore solo per inseguire una flebile speranza, un minuto bagliore in un oceano di oscurità. Stava letteralmente affidando il suo futuro - e quello delle due persone che più amava al mondo - nelle mani del Sovrano. Una scelta che non avrebbe mai preso se avesse avuto alternative, non dopo che lo stesso Immortale - Hyena, appunto - lo aveva avvisato di tenere a debita distanza quel regnante.
A distoglierlo dai suoi intenti probabilmente suicidi fu il bestiale grugnire di Vaarg, il quale lentamente ed impacciatamente cercava di rialzarsi, tornato cosciente solo da pochi secondi.
Immediatamente - poichè abituato a prendere decisioni in lassi di tempo molto brevi, giacchè in battaglia chi esita finisce presto nell'aldilà - si impose di non raccontare ai suoi uomini la realtà dei fatti. Come avrebbe potuto spiegar loro che le gioie, le tristezze, le paure, le battaglie e, più in generale, la loro stessa vita non era altro che una finzione? Che non sarebbero mai esistiti se non per il capriccio di Ray? No, non li avrebbe condannati anche a questa penosa verità.
Fu una questione di qualche minuto prima che tutti e tre i nuovi Custodi di Asgradel riuscirono a liberarsi dal torpore, fiancheggiando nuovamente Tristàn. Questi non sembrarono badare in alcun modo a Ray, il quale sembrava radicalmente mutato rispetto alla prima volta che l'aveva visto, poichè la loro attenzione venne totalmente attratta dall'altro, patetico uomo: Cheval.
«Non è possibile... l'ho ucciso... tutti abbiam visto la sua testa decapitata...»
Mormorò Jensen incredulo, con un filo di voce a malapena percettibile, sconvolto da tale visione.
Se lo sconforto lo assalì senza difficoltà, diversa fu la reazione di Vaarg, il quale sputò ai piedi di Cheval, estrasse l'ascia bipenne e la roteò con maestria, falciando l'aria e puntandola contro l'uomo apparentemente inerme.
«E che problema c'è? Lo ammazziamo di nuovo, ora!»
Sancì con decisione, muovendosi, minaccioso, nella sua direzione, ignorando completamente l'altra creatura, Ray. Tristàn, ora rinsavito, si frappose tra i due, bloccando l'avanzata del gigante allungando un braccio dinnanzi al suo petto, più simile a quello di un orso che a quello di un essere umano.
«Fermati. Ormai è finita. La nostra guerra è un'altra. E lui...»
Indicò con un cenno del capo l'ormai patetica marionetta di carne cui era ridotto l'uomo un tempo apprezzato dal popolo di Luna del Deserto.
«... non è che un morto che cammina. Abbiamo altre prior...»
In un lampo realizzò qualcosa che gli mozzò il respiro, gelandogli il sangue e paralizzandolo per alcuni secondi. Sentiva le tempie pulsare selvaggiamente, mentre ricomponeva i pezzi del puzzle giungendo ad una sconvolgente conclusione.
Una piccola porzione di verità in un oceano di incomprensioni e oscurità.
Escluse il mondo circostante, non ci fu che lui e i suoi pensieri. Non udì le parole dei suoi nuovi compagni, non udì le imprecazioni di Vaarg e Jensen contro Cheval. Non sembrò ascoltare i dubbi posti ad alta voce che attanagliavano la mente della giovane maga, Samantha.
Fredde gocce di sudore scivolarono dall'attaccatura dei capelli, rigandogli il viso e schiantandosi silenziosamente al suolo. Lo sguardo, attonito, si mosse sulle terre limitrofe - ben visibili dalla posizione sopraelevata in cui si trovavano-, dove erano stanziati gli eserciti e i combattenti che li avrebbero affiancati durante la guerra ormai prossima. Dovevano essere lì in mezzo da qualche parte, forse a lucidare le proprie armi, forse ad allenarsi o forse ad ubriacarsi. L'uomo, più probabilmente, a fottere. Non importava in quali mansioni fossero occupati, ciò che contava e che dovevano avere ancora la forza necessaria a respirare.
Eppure li aveva visti morire. Eppure il confine tra realtà e allucinazione era molto labile.
Puntò gli occhi su colui che un tempo era stato Ray, ora divenuto qualcosa di indefinibile, qualcosa che trascendeva ogni conoscenza umana, e gli lanciò uno sguardo interrogativo, colmo di stupore.
La sua mente era ottenebrata dai dubbi, il suo animo divorato dalle domane cui mai avrebbe ottenuto risposta.
Siamo nuovamente qui, dove tutto è iniziato.
Cosa è realmente accaduto? Questi due anni sono stati solo una prova, una mera illusione per testare le nostre capacità? E se così fosse, come hai fatto a plasmare la vita donando cuori a questi uomini vissuti solamente in un mondo inesistente?

Domande che tacque, per non urtare il già precario equilibrio psichico dei suoi Guardiani.
Preferì munirsi di lungimiranza, di escludere il passato da quella storia. Infondo ogni sofferenza, ogni imprevisto, ogni difficoltà che riusciva a superare doveva avvicinarlo alla sua amata. Non poteva cedere, non poteva far altro che seguire il Re in guerra.
«Sembri aver ottenuto ciò che volevi da Cheval...»
Cominciò, cercando di non far trapelare la propria irritazione per ciò che era accaduto.
«Quando saremo pronti a marciare sull'Asgradel?»
Era tutto ciò che davvero importava. Un guerriero doveva solo sapere dove e quando combattere.
Avrebbe impugnato Dumat e Dinastia ancora una volta.
Sarebbe nuovamente sceso sul campo di battaglia. Avrebbe ucciso e avrebbe rischiato nuovamente la vita.
Ma se tutto fosse andato per il verso giusto, quella sarebbe stata una delle ultime volte.



Ed ecco anche il mio post conclusivo.
Tristàn, semplicemente, si risveglia nella torre ed assiste - insieme ai nuovi compagni - alla trasformazione di Ray. Ancora complimenti a tutti: grazie per la bella ruolata. ;D

Ps: forse ho commesso un errore a considerare Cheval, poichè nel post è scritto: "Cheval non sarebbe più stato lì", tuttavia quindo ti chiesi delucidazioni te, nel topic del Valzer, mi hai risposto così, riferendoti a Ray e company: "Se lo ritrovano proprio davanti. Pochi passi di distanza. C'è lì anche il Kishin, tornato nella forma umana di Cheval dopo ciò che gli ha fatto Ray". Non sapendo quale delle due indicazioni prendere per vera, ho seguito la seconda. Spero di non aver sbagliato. X'D
 
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24 replies since 2/4/2011, 12:14   2508 views
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