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Preparatevi: sarà un post piuttosto lungo. E spegnete quella musica.
Chiudere il sipario. Cambio scena. Daydream, accendi la macchina del fumo. Arthur? Arthur! Andiamo, datti una mossa, brutto imbecille! E sistema quel mantello, sembri un monaco buddhista. Forza, forza. Si riapra il sipario, via col fumo. E che stavolta vada per il meglio. Le immagini si alternano, ruotando, e giungono colorate come nell'obbiettivo rotondo di un caleidoscopio. Arthur ruota la rondella, le forme cambiano, scivolano, esplodono. Nulla è davvero reale, o esiste, o vive per davvero. Al contempo, però, si potrebbe altrettanto affermare che ogni cosa è davvero reale, esiste, e vive per davvero. Piccoli problemi linguistici, cazzate. Dando retta alla vista, adesso, il mondo è rotondo e colorato e cangiante, come variopinti pezzetti di vetro in un caleidoscopio. Girano in modo disturbante. Nauseante. Splendido. Dando per vero (dimostrazione per assurdo) che gli esseri umani o viventi in generale effettivamente esistano, e che siano molteplici e non uno, e che ognuno di essi disponga di un certo numero di facoltà sensoriali, e che l'essere umano in particolare ne possieda cinque, e che esse siano vista, udito, tatto, olfatto e gusto, e bla bla bla... Considerate queste premesse come ipotesi, disposte su di un piano rotondo e concavo in alto, annaffiate poi con un po' d'olio e sale e dovremmo ottenere un'insalata di cazzate. È circa questo, ciò che pensava Arthur cadendo dalla fenice, all'inizio del post precedente. Non solo a questo, ma anche ad Oloferne e alla sua testa, ovviamente. Pensava ad un pomeriggio lontano, fresco, trascorso su una panchina nei pressi di una fontana, chissà quanti anni prima. Ricordava il fruscio molesto dell'acqua che saltava e ricadeva nella vasca di metallo circondata dal muretto di mattoncini rossi, ed era solo, al limitare del boschetto, che guardava il cielo chiaro e ponderava sulla possibilità che il firmamentum trattenesse per davvero un altro oceano oltre le stelle. Pensava al vento e sentiva il vento, ed i suoi capelli erano ancora corti, non aveva armi con sé, ed era sereno, in un certo senso. Il cielo, invece, era di un colore diverso, precipitando verso il suolo, il giorno della battaglia. Rosso, quasi viola, come al tramonto. Rideva sottovoce, piroettando nel vuoto con quel suo mantello rosso vivo, pensando che, alla fine, era di nuovo sereno. Ogni tanto morire fa anche bene. Non era mai stata la sua battaglia, quella. E non era mai stato il suo mondo, quello. Non c'era nessun ricordo preciso, ordinato, che seguisse al patto di Amlodi. Da quel momento il tempo era cessato, ma l'Universo continuava a scorrere, ed Arthur con lui. Nel bene e nel male. Basta con questi ideali. Basta con tutti questi legami o catene, tutti questi obbiettivi, tutti questi nemici, tutta questa morte. Non c'è la morte. Cazzate. L'aveva già capito tempo prima, ma solo ora lo realizzava appieno: ecco, la vita, l'universo, il tempo. Sono tutte cose che non ci servono. La fontana e le zanzare ed Oloferne con Giuditta e la testa di Oloferne da un parte ed il drago Caino dall'altra ed Orion, Aldebaran, la bella Vega che tanto gli ricordava Sideris, e c'era Brutus, Amlodi e Scilla, c'era quel guardiano e quel gorgo e quell'altro cavaliere che, si, alla fine era sempre Arthur, e poi Alexandra e Rohan, nella cattedrale, spade tratte, e poi sul campo, appena di lato, durante la corsa, su una pila di elfi a sventolare uno stendardo nuovo, e poi dall'altra parte sulla fenice, sprigionando lampi di luce ed ombre, e Arthur correva ancora, veloce, ed una folla di soldati che lo seguiva, incoraggiati, forse, ed anche Shakan da una parte, lontano, che precipita e ripete e combatte, come tutti, sotto quel sole nero, quell'altro dio, la cui esistenza era persino meno definita e concreta di quanto non lo fosse la sua, o la loro, adesso, ed Oloferne, ancora, che non è mai arrivato a combattere Israele, Nabucodonosor, la fontana con il muretto di mattoncini rossi, e gli orchi che cadono al suolo smembrati sotto i colpi di Lethe, e gli orchi che cadono al suolo sotto i colpi di Stige, e orchi che cadono al suolo per conto loro, o sotto i colpi degli elfi, o degli altri orchi, o che corrono, ancora, contro il vento, ed inciampano e cadono e saltano su Arthur, volano, e vola anche lui, un dardo rosso che cerca di squarciare quello che gli occhi continuano a dire, e quello che ascoltano le orecchie, ed il puzzo di cadavere ancora fresco, e sangue e viscere ed il frastuono della battaglia campale, a pochissimi passi ancora dalle mura del Toryu, e corre, corre, corre e blocca con il braccio destro un orco che mira proprio a lui, con un'ascia, forse, ed un calcio o una ginocchiata o non so cos'altro e l'orco sembra esplodere, senza fermarsi, senza smettere di correre, ed ecco che tutto è riassunto, ogni cosa trova il suo compimento nella sublimazione dell'incompiuto e dell'insensato, del provvisorio, rapido, mentre il vento getta alle sue spalle i capelli bruni, arruffati come la criniera di un leone, di quel leone, ed un colpo di spada, ancora, veloce, immagini e suoni, odori, equilibrio gravitazionale, forward sliding or running, come su una scala, o una passerella a mezzo metro da terra, per avere una posizione di attacco migliore, fluttua, corre, distrugge la vita per distruggere la morte, per distruggere ciò che sembra o appare, per distruggere questo mondo affinché qualcuno possa ricostruirlo, aspettando di distruggerlo ancora una volta, due, tre volte, immortale, immorale, veloce come una cometa rossa nel fiume di corpi e metallo ai piedi del maniero del re, come un leone affamato, fatto di nebbia ed energia luminosa, allo sbaraglio delle forze nemiche, in un certo qual modo, se esiste davvero qualcosa come un nemico laddove la dividualità si fa tanto esasperata da aver bisogno di creare individui, rapidi, provvisori, sofferenti e malinconici nel loro anelito finale, spada in pugno contro le zanne del leone rosso, quasi viola, come al tramonto. Un intero universo di approssimazione, ed Arthur non riusciva più a sopportarlo. Il guerriero del lamedh era più grande di tutto ciò, era più folle, se vogliamo, o magari aveva solo capito. Se Buddha fosse stato appena un po' più irascibile, ed un po' meno calvo, probabilmente sarebbe stato Arthur Finnegan. Oppure Jim Morrison. E via, e via, lontano, veloce. Non ci si capisce proprio niente, di questa vita. O morte. O quello che è. L'importante è correre. Siamo nati, per correre. Siamo cresciuti in umide case intonacate di bianco, con il nostro letto e la nostra scrivania. Con una radio, per alcuni, e con una finestra sull'esterno. Non siamo nati per restare su quel letto, o per continuare a fissare quelle pareti. Eccoci, dunque, che apriamo la finestra. Eccoci che ci arrampichiamo sul davanzale, e che saltiamo, finalmente, in quel mondo reale. Siamo comete sul bordo del grattacielo. Siamo vettori diretti verso il basso, verso il centro di gravità, euforici nell'ultimo moto d'implosione generale. È quello che ci serve, alla fine dei conti. È quello che vogliamo. È il motivo per cui corriamo, ancora, calpestando terra e sangue e corpi sventrati, nel campo di battaglia. È per questo che viviamo, che esistiamo. Il problema della dividualità è tra i più attuali in gioco, non neghiamolo. Siamo nati per correre, per precipitare bruciando, come comete di fuoco nel cielo rosso, quasi viola, come al tramonto. Stiamo esplodendo. Ed eccoci, Arthur Finnegan, e non siamo mai esistiti davvero. Oloferne non ha più la testa. Uno dei nemici resta fermo avanti a lui, lontano. Il sole è ancora nero, quasi viola, e bla bla bla. Ne aveva sentito parlare. Bara-Katal, l'allegro capobanda. Arthur Corre, sorride, non gli importa di nulla. Quello che serve, la cosa essenziale, è non smettere mai di correre. Qualsiasi cosa accada. Anche se quell'orco gigantesco sta correndo contro di te, balenando quella sua rozza spada arrugginita per cercare di tagliare la testa del leone, non devi smettere di correre, di muoverti in qualche modo. Stiamo cercando il Nirvana, stiamo distruggendo questo mondo, stiamo spezzando il Samsara, non possiamo fermarci. Non vogliamo fermarci. Arthur continua a sorridere, i suoi occhi urlano, la sua anima urla, e l'Universo trema e vibra quando alza il braccio destro e le spade dei due guerrieri si urtano stridenti. L'aria sembra esplodere attorno alle due armi. Brucia, il cielo, brucia il mondo, Brucia Arturo, grano di corallo, tra le più luminose del firmamento. Ciò che più di ogni altra cosa vogliamo è la distruzione. Il cambiamento di uno status che non è adatto, che non è abbastanza capiente per tutti, per tutto. Ciò che più di ogni altra cosa vogliamo è correre, bruciare, ruggire, esplodere, precipitare. E che tutto il resto andasse a fanculo, con tutti i positivisti ed i materialisti ed i consumisti e shoppers profesisonisti e collaudatori di materassi e radiosveglie e con tutti gli esimi scrittori di intellettuali manuali d'utilizzo di quei materassi e di quelle radiosveglie e di questo o quell'altro libro di storia e matematica o metafisica. Continuo a credere che, dopo tutto, i libri più letti nella storia appartengano a due generi. Ci sono i libri di culto, come la Bibbia o il Corano, e ci sono le riviste pornografiche. Entrambi i testi, comunque, sono sempre finalizzati alla masturbazione. Eccolo, corre. Furioso, euforico, incandescente. Daydream, con le sembianze del leone di nebbia, balza sul Bara-Katal, o Baca-Rozzo che dir si voglia, che ha per primo sferrato il colpo. Attacco a potenza alta, pergamena incastonata, niente slot. Ah! Si fotta. Abbiamo ancora un altro problema, qualcosa che ci impedisce di continuare a correre. Attorno ai due guerrieri s'era creato un vuoto innaturale. I soldati di entrambe le fazioni sembravano come cessare la battaglia ed indietreggiare per assistere al confronto dei due generali. Generale, poi, Arthur non sapeva nemmeno cosa volesse dire. I costruttori e le loro bestie ruggivano poco distanti, mentre il rumore di fondo diventava più intenso, ed Arthur diventava un po' più sordo ed un po' più cieco. Non ci si capisce proprio niente, di questa vita. Tu, orco, non fermerai mai la mia corsa. Gli dei cadranno, oggi, anche se non per mano mia, ma mai potrai bloccare la mia avanzata. Èra ancora lontano, e dai suoi piedi scuri inizia/ò ad aprirsi una crepa nel suolo. Ne sbuca(ro)no spade, o lame, ed avanza(ro)no verso Finnegan per attaccarlo dal basso. Il tempo non è qualcosa di importante, filosoficamente o comunque in un piano d'analisi sufficientemente ampio. Non vedo perchè debba essere importante sul piano grammaticale, allora. Arthur salta in avanti, credendo di poterle valicare. Un geyser di metallo s'alza dal suolo proprio sotto di lui, credendo di poterlo trafiggere. Non sempre ciò che si crede corrisponde a verità.
Non sempre esiste qualcosa come la verità, comunque. Anche se per pochi secondi, la folle ultima corsa di Arthur Finnegan venne arrestata. Le gambe erano ferite superficialmente, l'armatura era ammaccata e scheggiata in più punti, un ampio taglio diagonale si apriva sul torace del guerriero, ma era poco profondo. Il braccio sinistro era ancora libero, il destro si sarebbe liberato a breve. La fronte sanguinava. Eccolo, Bara-Katal, che corre a sua volta verso il Dormiente. La testa di Arthur doveva proprio essere qualcosa di meraviglioso, se l'orco era tanto determinato a portarsela via. Un po' come Oloferne. Un po' come Ruin e la torre di Babele, ed Enmerkar a sua volta, e prima ancora l'antico Enlil, o Samael, o quello che vi pare. Un storia troppo lunga per ricordarla tutta proprio adesso. L'uomo solleva Stige con la mano sinistra. L'uomo è furioso, stordito dall'urto dell'arresto. La rozza spada del guerriero nemico, intercettata sulla guardia, schizza via roteando. Gli dei devono cadere, ma prima devi cadere tu. Anche nel mezzo della battaglia, la puzza di cadavere del generale di Gruumsh era tanto forte da spiccare oltre la ressa olfattiva di quel putiferio. Sangue marcio, colori assortiti. Un po' di carne bruciata, anche. Ketchup avariato, forse. L'uomo si libera, divincolandosi dalla presa delle stalagmiti di metallo. L'uomo riflette un secondo sull'etimologia della parola “stalagmite”, concludendo che in effetti non glie ne frega nulla. L'uomo torna dunque al mondo, cade dalla fenice, ancora, Oloferne, la sua testa. Ah. A questo punto, le opzioni non sono molte. Il fantasma di nebbia sta ancora trattenendo ciò che sembra essere un clone di Katal, ed Arhur apre bene gli occhi. La fiera esplode, inondando il campo di battaglia di una fittissima nebbia scura. Aveva capito. Zoppicava un po', ma non è caso di dare troppo peso alla cosa; lui è una forza dell'universo. Scivolò in avanti, le else ancora ben strette, sfruttando il frastuono e la nebbia per distruggere colui che aveva osato rallentare la sua corsa in quel modo. Niente vista, niente udito. Con tutti quei cadaveri in giro, non dovrebbe neppure essere in grado di avvertire il sottile odore della cometa rossa che proprio adesso, china, si fermava a pochi centimetri dalle sue spalle. Finnegan si fece piccolo piccolo, chinandosi sulle ginocchia per poter meglio mirare al punto desiderato. Il sibilo di Stige si perse nella tempesta acustica, ed il fumo soffocò il suo bagliore. Nessuno si sarebbe aspettato ciò che, nel giro di due secondi, sarebbe successo laggiù, ai piedi del bianco Maniero. Forse qualcuno se lo sarebbe aspettato.
Ogni corpo ed ogni spada rallentarono il loro moto, o così parve. Arthur era ancora rannicchiato ai piedi di Katal per mozzargli le gambe quando, improvvisamente, un rumore inondò l'aere. Più come un boato, o come un ammasso di urla sibilanti e strilli sommessi. La lama della flamberga nella mancina del cavaliere schizzava in orizzontale e collideva la caviglia del nemico, allora. La nebbia si dissolse d'un tratto, come spazzata via da un vento di tempesta. Nessuno capì. I tendini dell'orco si stavano allora recidendo e strappando, e la spada di Finnegan giungeva allora all'osso quando, provando a descrivere la cosa in termini semplici, si misero a piovere delle lame nere. Caddero e distrussero ogni cosa, mutilando ed uccidendo. Molti dei costruttori di Neiru furono feriti. Pochi tra i Novizi accanto ad Arthur sopravvissero. Gli orchi caddero a decine. Ed era là sotto, con gli occhi sgranati che fissavano l'atroce spettacolo, quando il vecchio sfidante gli cadde letteralmente addosso, o così gli parve. Distratto dalla nebbia e dal contrattacco del cavaliere, Katal non ha probabilmente notato l'attacco aereo. Ed ecco una delle ultime lame che sfiora la sua sagoma, tagliando appena un ciuffo dei capelli del dormiente che voleva correre. I suoi pensieri, proprio allora, erano ancora rivolti agli dei di Israele e di Assur. Pensava alla guerra, alla morte. Pensava alla fortuna sfacciata che aveva eppena avuto, e che non sarebbe durata ancora a lungo. Pensava ancora all'universo, alla fallacità inevitabile nell'analisi anche breve di un mondo popolato da individui. Non c'è nulla da temere. Non c'è nulla da cui fuggire, nulla che può ucciderci. Dobbiamo solamente continuare a correre, continuare a volare. La pioggia nera sembrava cessata. Quando il guerriero spinse via il capo degli orchi per riprendere la marcia, quello parve grugnire qualche parola, in una qualche lingua, che Arthur non avrebbe neppure ascoltato. C'era altro a cui pensare, altro da fare. Si alzò in piedi, ma non sorrideva. Sembrava quasi sano, quasi normale, in quella sua maschera materiale. Non infierì, non parlò, non lo guardò neppure negli occhi. Semplicemente, naturalmente, ripartì. Alla carica si aggregarono anche i sopravvissuti delle file dei costruttori, assieme agli ultimi novizi ancora in grado di brandire un'arma. Il custode era scomparso. Probabilmente decapitato. Oh, Giuditta. Sporca puttana traditrice.
Fate una pausa. Alzatevi. Bevete un po' d'acqua. Il post è ancora lungo. Correte, per fare prima. Non fermatevi, però. Non fermatevi mai, non fatevi fermare. Attenzione a non inciampare. Particolare attenzione agli orchi, strada facendo: sono dei gran bastardi, sapete? Ne incontrai uno, una volta, capace di far spuntare delle spade dal terreno. Poco sensato, ma indubbiamente efficace. Arthur zoppica ancora, per colpa di quelle spade. Fine della pausa. No, non fermiamoci. Non fermiamoci mai, davvero. In un'esistenza così provvisoria, così breve se paragonata al ritmo cosmico, non abbiamo tempo da perdere. Se è vero, poi, che ognuno ha bisogno di un obbiettivo o di uno scopo, e che questo poco tempo che abbiamo non è neppure sufficiente, a volte, per riuscire a scegliere il proprio scopo, smettere di correre è la cosa peggiore che si possa fare. La cosa peggiore che si possa pensare, nell'ottica del bersaglio. Proiettili, eccoci. Siamo frecce, dardi, proiettili e palle di cannone. Siamo lanciati contro obbiettivi fuori vista, e la nostra potenza si riduce strada facendo. In particolare, tornando alla storia, la traiettoria di Finnegan termina oltre l'orizzonte, molto oltre. Un proiettile sparato verso il cielo, in alto, che anela allo spazio vuoto, senza gravità. Anela al moto infinito, inutile, eterno, immorale, immortale. In un certo senso, con lo strappo dello sparo, una certa quiete l'ha trovata. Eccolo che vola in alto, con un fracasso indicibile. Ed ecco i corridori scattare, al segnale del via. Eccoci che corriamo, alla carica contro la storia, contro la religione. Eccoci che brandiamo le nostre lance contro il paradiso, contro le illusioni e gli dei, eccoci a smentire e ad accusare, a correre, a correre ciechi, sordi, sempre in avanti, sperando di non farci male quando inciamperemo, se inciamperemo. Ed ecco una generazione di Nietzschiani, una generazione nichilista -per quanto le due cose possano essere compatibili- ai piedi del bianco maniero, che corre verso l'azzeramento, verso l'eternità, ancora, ancora, ancora. Ripetizione esasperante. Ripetizione angosciante. Dateci una pausa, dateci un po' di conforto. Dateci un paradiso in cui sperare, a cui mirare dalla canna del revolver, per evitare di cadere nel vuoto senza gravità dello spazio interstellare, scuro come la notte. Corriamo, dunque. Non siamo stati abbastanza piccoli. Non siamo stati abbastanza perversi, ed abbiamo assunto verso i libri di culto lo stesso atteggiamento che le signore per bene assumono nei confronti delle riviste pornografiche. Ogni tanto è anche giusto fare una pausa, da tutta questa arroganza. Ogni tanto, qualcuno, volgendo lo sguardo al cielo, o verso il mare, o agli occhi della persona amata, o di quella odiata, ogni tanto capita che quel qualcuno decida di mettersi a correre, finalmente. Una cometa incandescente, rossa, quasi viola, come al tramonto. Non piangere più. Oh- Carry on my wayward son, there'll be peace when you are done. Lay your weary head to rest, don't you cry no more. Tutti insieme, forza! […] Verso il maniero, allora. Senza fermarsi, mai, ne va della vita. A questo punto, in questo istante ed in questo preciso luogo, non sto più correndo per divertimento. Non corro per salvare la mia vita, o per stroncare quella di un altro. Non corro per fama, non corro per necessità, non corro per assuefazione. Arthur Finnegan, corro perché esisto.
Dopo tanto vagare nell'ombra si arriva al punto in cui si smette di cercare. Il punto in cui ci si dimentica, eventualmente, ciò che si andava cercando. La strada percorsa, i sentieri da battere, i volti e le voci ed ogni forma altra e perduta suo malgrado in un tempo in rivoluzione, tutto– nulla, nulla ha più un posto. Frammenti d'uno specchio spezzato gettati per terra come pezzi di un ciclopico puzzle, cocci residui di storie diverse che diverse immagini racchiudono e riflettono, diversi tempi e diversi luoghi scagliati dall'illusione di univocità nell'angolino più scuro dell'abisso cosmico, nell'ansa più buia del fiume del mondo. Io sono una forza dell'universo. Sono cieco alla vita, lontano. Vento tra le fronde del tempo, io non vedo anime. Questo frammento nero, opaco, racconta una storia diversa, con voce diversa. Questo specchio racchiude, riflette l'immagine d'una stanza scura nel ventre della terra. Cinque spiriti nel gioco della quadriglia, tutti sordi e ciechi, già danzano nel buio. Ignoto il luogo, certo, dove il piccolo messaggero della distruzione posa adesso i suoi duri calzari. Arthur è cieco alla vita, lontano. Non vede anime, no: ha gli occhi ancora chiusi. Riposto nello specchio, in un cassetto remoto, c'è un piccolo letto bianco. Un frammento ignorato, poco importante, che narra la morte d'un uomo. Forse. Avrebbe anche raccolto quel pezzo di vetro, il tassello dimenticato che mancava a quella storia, ma non lo fece. Lo osservò dall'alto, notando magari il volto dell'uomo nel letto, sotto alle lenzuola pulite. Il sangue sulla corazza del rosso puzzava ancora, ed era l'odore del morto. Era l'oblio di un viso antico, sepolto nel remoto passato. Ignoto. Uno spirito in meno nel gioco della quadriglia: i suoi occhi non si riapriranno. Corri nel buio, cavaliere del sogno. Cammina nell'ombra, Finnegan. Arthur Finnegan, il piccolo messaggero della distruzione. Io, sempre io. In piedi, muto: il tempo non esiste. Non c'è spazio nell'ombra della torre, non c'è vita. Cammina piano, Finnegan. Fai silenzio. Sorpassa i pezzetti dei ricordi passati, i frammenti di futuro. Dopo tanto vagare nella luce si arriva al punto in cui si inizia a cercare. Il punto in cui ci si ricorda, eventualmente, ciò che è perduto. La strada da prendere, i sentieri che mai verranno battuti, i volti e le voci e ogni forma altra e rimembrata suo malgrado in un tempo in rotazione, nulla– tutto quanto ha allora una corretta collocazione. Arthur smise di chiedersi perché. Smise di cercare, tra quei pezzetti di storia, quale fosse il giusto posto da occupare nella progressione. Smise di danzare nell'ombra e prese a camminare dritto, alla cieca. Arturo è facilmente individuabile a causa della sua grande luminosità e del suo caratteristico colore arancione, molto vivo; si rintraccia prolungando la curvatura indicata dal timone del Grande Carro verso sud. Nell'astronomia Hindu corrisponde alla tredicesima Nakshatra (suddivisione del cielo), chiamata Svātī, che significa o il grande camminatore, in riferimento forse alla sua lontananza dallo zodiaco, o la perla, la gemma, il grano di corallo, in riferimento probabilmente alla sua luminosità. Defunti sono gli eoni di Kronos, nello spirito dell'illuminato. Buia la strada da percorrere, come il nero fondo del cielo. Arthur è una forza dell'universo. Io sono cieco e sordo, adesso, ai capricci del fato. Io – Io sono vivo, adesso, a dispetto degli dei e del destino. Io mi ergo fiero contro il vento del mondo come un'ultima piccola nave dalle vele rosse che affronta la più grande delle tempeste, la più terribile delle fiere. Io sono il vento ed il fuoco nelle fronde del tempo, immorale, immortale. Io sono il grande camminatore, ancora una volta, per la cute della terra. Aratro del mondo, maldestro messia. Io sono la più luminosa delle stelle, Arturo, terribile, crepitante. Guarda ora le mie mani, marionetta dei demoni sovrani: non sono ancora aperte e salde come artigli? Non i miei capelli già diritti come sul capo d'un leone di montagna? Non altrettanto determinato, non altrettanto forte ti sembro? Ascolta la mia voce e guarda bene i miei occhi, rosso vivo, adesso, come la stella di cui porto il nome. Questo, questo è il mio pianto di gioia. Oh, sagoma nera nella luce di Velta, non ti sembro io più basso, scuro e terribile di quegli dei che servi? Non forse più reale? Viva e ribollente la nebbia attorno al mio corpo ferito, ancora umano, turbina e tuona come una nuvola di tempesta. Io sono il fato. Suonano grevi come sulla pelle di un timpano i miei piedi, mentre cammino verso di te. Non ti sembro forse abbastanza cieco, abbastanza sordo? Oh, lo sono. Io, Io sono l'ultimo grido degli uomini, che uomo non sono più. Io sono una legge fisica, una funzione ancora non studiata. Osserva il mio passato, tu che dei miei ricordi hai adesso il volto. Guarda le mie orme, il mio mantello scarlatto. Avverti la mia corsa, adesso, ed il bagliore della mia spada. Senti il gelo del tempo che scorre nelle tue arterie putrescenti, oh dolce fantasma del mio amore perduto. Sideris – ti chiamavi Sideris, giusto? Dolci occhi d'oricalco azzurro, splendenti tesori perduti nella foschia rossa d'una nuvola di sangue disciolto in mare, e di un altro frammento di una storia diversa. « Mi senti? » Esordì il guerriero. « Riesci a vedermi? » Ogni cosa è perduta, come la corrente del fiume che scende a valle. « Io sono qui! » Arthur sta correndo verso la porta. « Io- » Il punto in cui si smette di cercare. Non ci serve un posto nell'universo, nessuna locazione idealmente corretta.
Aveva già varcato le porte del castello quando la seconda pioggia nera s'abbatté al suolo. I costruttori sopravvissuti, assieme alle loro belve, assaltavano le truppe nelle retrovie, mirando all'artiglieria, fisica e magica. Il dormiente punta in alto lo sguardo, e vede le pareti crollare verso l'interno. L'unico pensiero, adesso, sempre lo stesso, rapido, effimero, eppure così importante. Arthur Finnegan non poteva morire, non avrebbe cessato di esistere in modo definitivo, se prima non fossero caduti tutti gli dei. Bisognava salire più in alto. Bisogna salire più in alto. Siamo tutti vettori in spinta contraria alla forza peso, a velocità dirompente, scalino dopo scalino sino alla cima della prima torre, forse l'ultima ancora in piedi. Il cielo è proprio strano, oggi. Rosso, quasi viola, ma il sole è alto, ancora, e nero, pulsante. Non piangere più, mio ribelle figliuolo. Ci sarà pace, quando avrai finito.
La pianura attorno al castello, sorridente, attendeva l'ultima marea di morte. Ciò che appena qualche giorno prima era il vanto del Toryu, il bianco Maniero, era poco più di un ammasso di macerie. Forse, per la prima volta, Arthur Finnegan si rese conto di essere solo. Anzi. Si rese conto solo allora di essere sempre stato solo. Se non dalla nascita, da poco dopo. Avrebbe voluto ricordare tutto. Avrebbe potuto ricordare tutto, allora, sulla cima della torre, ma non lo fece. Non poteva smettere di correre in avanti, qualsiasi cosa sarebbe successa. Non poteva piangere ancora, ricordare ancora, e poi dimenticare ancora. Non voleva. Arthur era da solo, lontano dai suoi vecchi nemici e dai suoi vecchi alleati. Dalla cima della torre, poco prima della terza ondata nera, riuscì a distinguere le sagome lontane di Alexandra e Shakan, perdute nella folla, oltre lo specchio. C'era la donna della tomba, in qualche modo, e la vedeva combattere. C'erano migliaia di Orchi ancora vivi, migliaia di elfi ancora vivi, migliaia di altre creature senza nome che s'accalcavano le une sulle altre, uccidendo e godendo del sangue versato, in una gigantesca orgia rituale in onore di quegli dei senza pietà. Da solo, un pino solitario che aspetta la tempesta sulla riva del mare. Non puoi fare nulla, non puoi correre oltre. Alza il volto e senti la pioggia.
La voglia di lasciarsi morire è troppo forte. In ginocchio, reduce dall'uragano, Arthur ha ancora abbastanza forza per respirare. Abbastanza da riuscire a tenere ancora strette le sue spade, da tenere ancora gli occhi aperti. Non aveva bisogno d'altro. Era solo, era sempre stato solo, e non era ancora finita. Ai piedi della torre, un ultimo sparuto plotone di costruttori fissava il cavaliere rosso, in ginocchio. Poco più lontano, anche gli orchi riuscivano a distinguere il colore del suo mantello. Probabilmente anche Bara-Katal continuava a guardare Arthur, ma non possiamo saperlo per certo. Ciò che vedeva il cavaliere, però, non era diverso da ciò che aveva visto per tutta la sua vita, da che ricordasse. Rosso, quasi viola, come al tramonto. Il cielo prometteva altro sangue, voleva altri corpi, altre macerie. E forse c'era anche un dio lassù, che si divertiva a giocare. Alla fine dei conti, lasciando perdere l'Assoluto e L'Universo ed il Tempo, il Nirvana, dimenticandosi per un secondo solamente di tutto ciò che era stato in quegli ultimi mesi, di tutte le ragioni che devono averlo spinto sino a quel punto, sino a quel luogo, Finnegan si ricordò di essere stato un uomo, un tempo. Credette, per appena un secondo, di esserlo ancora. Se anche l'aveva capito in precedenza, solo allora realizzò di essere sempre stato solo. Soffrì, per questo. Solo allora. Solo in quel secondo. Appena prima che il quarto rintocco della campana nera si schiantasse sul suo volto.
Tutti noi nasciamo soli, da un buco umido. Viviamo le nostre vite in equilibrio tra la follia e la socialità, e finiamo sempre da soli, morti, in un buco umido nel terreno. C'è qualcosa di ironico in ciò, senza considerare che molti di noi trascorrono anche la loro vita attiva in un buco umido. C'è qualcosa di molto triste, in ciò. Arthur Finnegan è morto diverse volte, ma non essendo mai stato davvero un uomo, è logico supporre che non potesse mai davvero essere morto. E così fu. La prima volta ebbe anche un bel funerale, intimo, solo i parenti e gli amici più stretti. Che vadano tutti a farsi fottere, comunque. Era su una barca, anzi, era su una pila di legna secca che era su una barca. Al largo. A fuoco. Sarebbe bastato controllare meglio. Ascoltare il cuore con più attenzione. Accorgersi di quel respiro sottile ed affannato. Ma no, lui era morto. Ferito a morte e poi bruciato, come da tradizione. Vivo. E non era un uomo, ma un fantasma. Una forza dell'universo, non sottomessa ad alcuno scopo o obbiettivo ultimo. Adesso, però Arthur Finnegan è da solo. Vivo. In ginocchio sulla pietra ruvida, fissando la quarta ed ultima pioggia nera che s'avvicinava ad una velocità irrazionale, non poté non fare un bilancio generale. Suo padre, anzitutto. Brav'uomo, profondamente stupido, credo amasse suo figlio. È morto da tempo. Mamma Finnegan, stesso discorso, inutile ripetersi. Ci fu Amlodi, ovviamente, e fu un colosso tanto di dimensioni quanto di cattiveria. Ha avuto ciò che si meritava, lo stronzo. C'era un vecchio amico, non ricordo il nome, che si dilettava di magia nera. Svanito, dimenticato, probabilmente. E poi, ovviamente, c'è lei, Sideris. Forse lo amava, o forse era solo una dannata ninfomane. Arthur la amava ancora, o almeno è quanto di più vicino all'amore lui provò mai. L'amava come un cucciolo abbandonato può amare colei che decide di salvarlo e nutrirlo. Si odiava, per questo. Si odia ancora, per questo. Ed eccoli, loro tre, o quattro: Orion, Vega, Aldebaran, tutti nomi di stelle del cazzo. Gli deve molto, solo ora se ne rammenta. E poi tutti gli altri, tutto quel casino, Enlil, An, ma quando sono successe, tutte queste cose? La Culla, la Culla del Caos. Non è mai riuscito a dimenticarla, non ha mai smesso di cercarla. Eppure, eppure ancora non ricorda bene come fosse fatta. Vai avanti, mio figliuolo ribelle. Ci sarà pace, quando avrai finito. Ed eccoci, arriva, la fiamma nera, la pioggia nera. Ricorda ancora la volta di una cattedrale, ancora, ancora, una delle immagini più frequenti. Ricorda loro due. Rohan, spavaldo. Non ci ha mai parlato davvero, ma in un certo senso lo conosceva. In un certo senso era lui, e viceversa. Ed era anche lei, Alexandra, sicura di sé come un fiore bianco, diritto sotto la pioggia. Erano forse le due persone più simili a lui che abbia mai incontrato. Loro due, ovviamente, ed Orion. Si chiese quanto fossero cambiati, da allora. Quanto tempo fosse passato, da allora. Si chiese, infine, se tutto ciò fosse mai successo veramente, o se qualsiasi altra cosa nell'Universo fosse mai successa veramente. No, le cose non accadono. Le cose non esistono. La vita è solamente la risposta dell'Universo alla Volontà di Esistere. A dispetto della morte, a dispetto della solitudine e del dolore, Arthur Finnegan voleva continuare ad Esistere.
La quarta bordata oscura si schiantò contro la pianura, sbriciolando mura e speranze. Il dormiente, al momento dell'impatto, evaporò in una nuvola di fumo rosso. Tanto forte era il colpo, si sarebbe pensato, che la carne del mostro è evaporata. Ed ecco Arthur Finnegan morire di nuovo. Infondo, che giocata è una giocata dove Arthur Finnegan non muore? Dov'è l'anima della festa, altrimenti? Chi dobbiamo far morire? Rekla Estgardel? È troppo giovane, ha ancora molto da fare. Arthur Finnegan è un soggetto migliore. È già cresciuto abbastanza. È già completo, maturo. È già evaporato, comunque. Rosso, quasi viola, come al tramonto. Ripetizione rituale.
Molti metri più in alto, la nuvola rossa si addensa di nuovo. Atmosfera inoltrata, just above the battlefield. Ed ecco condensarsi sino a ricreare un paio di piedi, di gambe, un torso, due braccia, eventualmente una testa. Il mantello è ancora aeriforme. In piedi, dunque, ancora ferito ma ancora vivo, dunque, fluttuante sopra il campo di battaglia. Nessuno poteva vederlo, così piccolo e lontano, occultato dal frastuono e dagli eventi, dalla morte, dalla vita. Era da solo, incredibilmente in alto. Era ancora un uomo, ed ancora puro pensiero. È Arthur Finnegan, ancora, e vuole continuare ad esistere. Ancora per un po'. Vuole continuare a combattere, a correre. Ruota su sé stesso, poggia i piedi su una nuvola, a testa in giù. Prende lo slancio. Oh, si riprende a correre!
Il resto è quasi superfluo. Si lanciò in picchiata, quasi alla cieca. Era la quinta pioggia mortale, ma poteva scegliere un solo bersaglio. Velocissimo, non ebbe quasi il tempo o i riflessi per distinguere gli alleati dai nemici. Bruciando, precipitando, distruggendo, urlando come una belva. Urlando contro le truppe sempre più vicine, contro quel cavaliere sconosciuto, che sembra esserne uno dei generali. Ah. Un fulmine rosso scarlatto, preceduto da un degno rombo di tuono. Stige e Lete già balenavano senza forma, pronte a distruggere qualsiasi cosa avessero carezzato. Boato. Schianto. Rosso, quasi viola, come al tramonto. Il resto è superfluo.
La virtù di un buon testo, credo, sta nella capacità di sintesi. Ciò che più di ogni altra cosa vogliamo è la distruzione. Il cambiamento di uno status che non è adatto, che non è abbastanza capiente per tutti, per tutto. Ciò che più di ogni altra cosa vogliamo è correre, bruciare, ruggire, esplodere, precipitare.
- WHRHOOOOOAHRRGH - Ripetizione rituale.
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My-my-my-my-my-my Sharona!
ReC: 225 AeV: 225 PeRf: 850/425 PeRm: 225 CaeM: 250
Energia: 73% Stato psicologico: Nessun danno mentale. Condizioni fisiche: Eh. Danni di entità "Alto+Critico" distribuiti un po' ovunque.
Passive sfruttate: Phatos (personale, raddoppio perf in stato di rabbia) Appoggio e Punti Nevralgici del ladro. Forza e Resistenza del dominio Forza del toro (Lv.1 e 2). Tutte più o meno citate negli spoiler precedenti.
Attive impiegate:
Ghost Fog (Fumogeno - Ladro/Bianca) Costo Medio Espandendosi per il campo di battaglia, la nebbia scura Daydream potrà diventare sufficientemente estesa da andare ad ostacolare la visuale delle creature in gioco (escluso Arthur). La nebbia sarà talmente densa che sarà impossibile scrutarvi attraverso. Un'ottima tecnica elusiva, che permetterà quindi all'agente di nascondere la propria presenza per il tempo necessario ad organizzare le sue azioni. Una forte raffica di vento o eventi similari potranno comunque disperdere la nube (del tutto o in parte), che altrimenti permarrà sul terreno per due interi turni, compreso quello di attivazione. La tecnica va a pescare dalla riserva energetica di Arthur. --- Stormo Rosso (Stormo Illusione - Ladro/Verde) Costo Medio Senza particolari tempi di concentrazione, il corpo di Finnegan sarà avvolto da uno svolazzante ed amorfo mantello rosso, svanendo sotto di esso. Il tessuto non potrà arrecare danno all'avversario, ma potrà spostarsi a mezz'aria e sciogliersi poi in un punto non troppo distante, facendo quindi riapparire il personaggio. Al mantello fantasma non potrà essere arrecato alcun danno. La tecnica non potrà avere durata superiore a quella del turno nel quale viene effettuata. Se usata a scopi difensivi, la tecnica va considerata come una difesa assoluta. (modificata in senso scenico per farla diventare una nube rossa) --- Airquake Costo Variabile Arthur è in grado, dopo aver inspirato profondamente, di emettere un urlo potentissimo, simile ad un ruggito, che risulterà chiaramente udibile per un'area molto ampia. Il suono risulterà tanto potente da stordire pesantemente gli ascoltatori più vicini, per il tempo necessario al guerriero per compiere la sua offensiva. Tanto più potente sarà il ruggito quanto maggiori saranno i danni che chi lo ascolta riporterà, che si concretizzeranno in un danno psionico proporzionale al consumo energetico. La tecnica trae la sua efficacia dall'inaudita potenza fisica dell'organismo di Finnegan, e si baserà dunque sulla sua PeRF. La tecnica va a danneggiare solamente il personaggio o i personaggi a cui essa è rivolta, coprendo così un'area ristretta e riconoscibile tramite un vistoso spostamento d'aria di forma conica, con vertice nel guerriero, che si delinea nella direzione desiderata sino ad investire la vittima del suono. La presente è da considerarsi un'abilità psionica.
Riassunto & Note:
-paro il primo attacco fisico di Barakatal, -incasso l'inferno di lame a potenza alta, -paro l'attacco fisico del suo clone, disarmandolo in virtù delle stat (quì attivo il raddoppio perf, infuriato per esser stato arrestato ed attaccato.) -evoco la nebbia (perg. ladro) come diversivo ed attacco Katal con un potente colpo di spada sul tendine di achille (pergamena punti nevralgici, colpi paralizzanti, innata conoscenza anatomica), nel frattempo daydream (che ancora ha carica magica medio+medio (alto) dal turno di prima) tiene a bada il clone. -in posizione di scivolata, mentre attacco barakatal stordito, arriva la prima ondata di lame oscure. Bara-katal mi fa da scudo, inconsapevole ed involontario ovviamente. Non prendo danni, ma mi accorgo del pericolo. -corro come un razzo all'interno del maniero (come fanno anche i costruttori ed i novizi rimasti) e mi riparo dal secondo critico. -corro per le rovine uccidendo orchi a casaccio, quando arriva la terza ondata, che subisco senza difese (danni critici) dalla cima di una delle torri. -aspetto la quarta ondata sul tetto. Quando arriva, uso la difesa assoluta stormo illusione, letteralmente 'esplodendo' quando le lame oscure dovrebbero colpirmi. I nemici e gli alleati crederanno sia morto. Potete sfruttare la cosa per riflessioni strappalacrime sulla vita e la morte, se vi va. -la nuvola rossa di stormo illusione si ricompatta molti metri più in alto, facendomi tornare solido solo ad alta quota (sfrutto 'appoggio' per rimanere in aria). Ovviamente la pergamena non mi fa ricomporre subito ad alta quota, ci metto anche un po' di mio (usando ancora appoggio) per salire saltellando o correndo in aria. Dato che comunque la nebbia non si dissipa del tutto neppure quando sono solido, quella attuata mi sembra una soluzione scenica plausibile. -passo al contrattacco, precipitando come un razzo sul campo di battaglia. Lancio un urlo psionico da abilità personale (ho tre slot grazie all'altra abilità a costo nullo) diretto verso Tristan, abbattendomi poi su di lui (ed in generale in quell'aera) mentre mulino le due spade in modo da coprire un'area quanto più ampia possibile. L'attacco è un normale fisico, ma è preceduto da, appunto, un urlo psionico a potenza alta. Si basa sempre sulla perf, ma per questo attacco è già tornata al valore normale di 425. Dovrebbe stordirlo per farmi portare a segno il fisico, o almeno l'idea è questa. Che l'ultimo colpo vada o meno a segno, per ammortizzare la caduta senza danneggiarmi più di tanto userò appoggio. Non aggiungo altro, se non l'invito (suggeritomi dal collega, mr.S) di rileggere tutto il post usando QUESTA soundtrack. Chiedo scusa per il ritardo. Let's move on.
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