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Non c'è nessuno, solo roccia.
Lungo la galleria non c'è un respiro che possa sentire, se non quello, enorme e sincronizzato, di tutti questi uomini disperati, congelati nella paura, che seppur privi di addestramento o disciplina marciano, o sembrano marciare, perfettamente all'unisono, nel buio, sembrano inspirare assieme, tremare assieme, uniti in una sola bestia, per sopravvivere. Magari anche per vincere, per tornare a casa, tra una o due lune, o per costruirne un'altra. Per trovare una moglie o un marito, per riprendere a tremare nelle montagne, avvinghiati ad un aratro o ad un telaio, sperando di avere uno o due figli a cui raccontare, una sera, prima di morire, di quella volta al Trono del Titano, di quell'unico giorno in cui furono abbastanza coraggiosi (alcuni direbbero folli) da affrontare un tiranno.
Gli déi scatenano guerre affinché i poeti abbiano qualcosa di cui cantare, così ripete Plato, sottovoce, mentre marcia. E respira, avanza assieme al resto del gruppo.
E guarda in avanti, verso quel puntino luminoso alla fine del tunnel.
Non c'è nessuno, solo roccia, muschio, solo ghiaccio quaggiù e nulla più che qualche decina di uomini e donne delle montagne. Alla testa del gruppo c'è un cavaliere, un guerriero in armatura, ed il povero Plato, asciugandosi la fronte, si chiede da dove venga, che cosa ci faccia assieme ad una chimera d'uomini e fango senza sogni e senza casa, in una grotta scura, sempre più fredda, deserta se non per voci lontane e respiri sincronizzati.
Non c'è nessuno, solo roccia, sospiri, palpebre scure che rivelano schiudendosi uno sciame di scintille verdi, quando i corvi, perché ci sono molti corvi, scrutano l'uscita e ne riflettono il bagliore.
Anche loro sembrano mormorare, come noi, dice Plato al suo compagno di follia.
Non c'è nessuno, gli risponde lui. Solo roccia.
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Assur era ferito, ma non ricordava bene.
Nuotava, o credeva di nuotare, di voler ritrovare l'aria oltre il pelo dell'acqua, ma era trattenuto dall'onda, un'onda molto alta d'acqua scura, calda e pesante, che lo spingeva verso il basso. Teneva chiusa la bocca, schiudeva gli occhi per uno spicchio appena, risaliva la corrente, ma un'altra onda lo riportava giù. Lo soffocava.
Dov'è il fuoco, pensava, dov'è l'aria e la neve ed il profilo scuro dei monti lontani, dov'è finito tutto questo? Era ferito, ma non capiva bene. Aveva sonno.
Non c'è nessuno, si disse.
Curvo, in ginocchio nella corrente, apriva gli occhi e ripeteva: non c'è nessuno, solo acqua, solo roccia, se non quest'acqua e questa roccia e questa fiamma che mi corrode lo stomaco.
E questi occhi, queste ali, questo fruscio sottile sottile, ma più vicino di prima, appena più forte.
Quando l'onda cessò il pellegrino respirò profondamente.
In profondità nella galleria meridionale del Trono, il suo gruppo si era imbattuto in uno stormo. Corvi, probabilmente.
Corvi, sicuramente, visto il luogo ove si trovavano.
L'armigero si voltò, controllando, nel buio della terra, le condizioni dei suoi compagni. «Riuscite a continuare?» chiese loro, sottovoce.
Etarco, il più vicino, fece un ceno d'assenso. Lazarus ed i suoi uomini, appena più indietro, sembravano incolumi. Sara, che camminava dietro Etarco, sembrava ferita, e così era Assur, sebbene non gravemente: tagli sottili e bruciature gli tappezzavano il volto, così come ogni altra parte del corpo che l'armatura non era riuscita a proteggere. La guancia destra bruciava un po'.
Tutti e sei i componenti del gruppo erano ancora in piedi, ed attorno a loro, nel buio più freddo, qualche uccello di quella stessa colonia che gli aveva investiti giaceva ora privo di vita o stordito dall'urto, con gli occhi spalancati, come di vetro nero.
Assur lanciò uno sguardo a Lazarus.
« Potrebbero averci sentito, dobbiamo alzare il passo. »