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…la danza delle Ombre… …la danza delle Ombre…
“…pare più di uno sia rimasto a terra. Ma non mi guarderei solo dagli Elfi, sai: accettano gente di ogni tipo alla Torre del Fato, adesso!” Fissò di sfuggita il vecchio dietro al bancone, il muso corrucciato in un’espressione insondabile, sempre uguale. Bruta. Come fosse lì, presente – e chi poteva essere addentro ai fatti e alle sozzerie più di Rick, in effetti – ma allo stesso tempo preoccupato. L’uomo davanti a lui controllava il mucchio di gingilli e ciarpame appena scambiati dalla cesta, altri articoli improbabili tra scaffali e mensole in un negozietto ammuffito del centro. Ah, Pre-occupato. Quasi ci fossero rogne dopo e non ora – ma no, il cenciume in cui capitava per strada era un’unica linea, per lui, un’occupazione purtroppo costante. Solo, ogni tanto voleva ingannarti: ti fregava e faceva credere fosse tutto a posto per un attimo, il mondo, niente strisciare e schiumare continuo per campare, giù per le vie della città. I facciabianca avrebbero cominciato i riti a breve, in processione fino alle rive del Ràn. Era meglio sbrigarsi.
Rituffandosi nelle brume scure di Neirusiens, il nano non rispose. Fece un cenno con la testaccia, uno dei tanti, e uscì dall’emporio spalle al vecchio. Infilati nei vicoli che verminavano dalla strada principale, chiusi dietro al pallore e all’umidità di vetri opachi: di avventori non se ne vedevano. Solo facce smorte, guizzi di sguardi pescati tra una porta, di sguincio. Gli elfi dovevano proprio avercela di brutto, stavolta. Gente in giro o meno, Rick si premurò di buttare il malloppo in una saccoccia: le rogne facevano gli sguardi più lunghi, a che ne sapeva – e lì ti spogliavano pure della pelle e della carne, se per questo. Pattò il bozzetto di stoffa interno alla palandrana, un mucchio compatto e insonoro sotto l’armatura; di spiccioli ne aveva, specie dopo l’incarico a Siassi – l’argenteria gli aveva fruttato persino indumenti nuovi, e dunque ora poco puzzolenti – e poteva tranquillamente sfidare l’umidità penetrante della città Neiru.
Per quel che gli cambiava, alla fine.
Tanto, bofonchiò dentro, avrebbe rigirato tutto al Sorya – dopo dovuti e modici prelievi per il viaggio, s’intende. Trottando tra i coppi slavati della piazza principale, si diresse senza troppi giri verso il lago. Le geometrie più composte del centro lasciarono presto spazio a spezzoni più colorati, palazzi disordinati e balconi sguerci; si fece avanti tra i rigagnoli di liquidume verso il Ràn, panni e sfilze di sardine stesi ad asciugare nei cortili. Sulla costa, però, solo le barche rompevano la piattezza smorta del lago, gondolette e pescherecci lasciati di fretta sulla rena: voci e canti funebri arrivavano già dall’interno. Sforzandosi di ricordare la traversa giusta, Rick si piantò una mano tra la chioma lurida, i solchi del suo passo di mulo sulla sabbia scura. La bagascia,la venere nera, doveva stare a gorgogliare birra e improperi tra uno di quegli incroci arrangiati tra case e banchetti. Solo, non gli tornava in mente quale. La vista delle candele Neiru gli diede lumi sulla questione.
“Dah!” Grugnando e spalando rena con gli stivali, passò al volo l’incrocio illuminato. Poteva già scorgere qualche figura venire da lì verso la costa, smilzi e frignoni anticipare il vero corteo: i riti mortuari degli elfi. Lontano dal figurarseli pericolosi in sé, nella testa del vagabondo avevano sempre avuto un che di insensato; piagnistei neri, lumini inutili e salme sprofondate nel buio del Ràn: Rick ne diffidava. Che senso aveva tutta quella storia, dopo che eri crepato? Barcamenandosi tra scafi e reti, il nano preferì comunque allontanarsi, volgendo verso un ennesimo vicolo interno. La locanda doveva essere in quei pressi. Pestando pietre già pestate, i contorni slabbrati e roridi dall’aria del lago, evitando tombini e insenature già usati per nascondersi, il nano non fu preso da pensieri. Altri piagnistei, lagne inutili – e perché? Nel cenciume di tizi che giravano in quel quartiere ci era cresciuto, pizzi e posti di scambio per merci illegali li conosceva a naso: non c’era niente di bello da rivangare; di roba da fare ne aveva già, tra l’altro. Oggi come allora, il tozzo vagabondo era preso tra affari necessari a guadagnarsi il pane, inghippi e stranezze utili a farlo stare in piedi pure il giorno dopo. Solo, in un senso un po’ più allargato ora – avvelenato da canti tra i cunicoli – ricoperto dagli intrighi del Sorya. Beh, una birra se la meritava comunque.
Tra tavolacci impregnati di alcol e sedie sgambate, il bere pareva essere l’unica cosa rimasta uguale nella locanda. Birra agli avventori, sorsate a ogni tavolo e sul bancone: il resto pareva più spento delle lagne dei Neiru. Impiastrando di rena l’ingresso Rick entrò col solito passo pesante; il panzone d’oste era ancora lì, il bastardo dell’Akerat incontrato poco prima a consumarsi le preoccupazioni seduto al bancone. No, per la nostalgia non c’era decisamente spazio: di umori e liquidi strani quella città ne era già piena, dalle fogne strabordanti verso il Ràn alla lacrime da pantomima dei Neiru. Indicò con un cenno il bagno al suo uomo, quindi attraversò la stanza. Il freddo riempiva la vescica. Di umori lui avrebbe aggiunto quelli provenienti da lì, al massimo. Passando dallo scricchiolio delle assi alla terra impolverata, il nano rievocò un costume di rito: ogni tre giri giù verso il cesso, a sfogare l’alcol e le turpitudini in corpo –mai svuotato davvero- sotto il chiaro di luna. Lo rispettava sempre, quel costume. Da una fogna che era lui verso una più in basso, unico modo che sapeva per arrivare non traballante all’uscita – alla baracca della sua casa, al domani.
Nel cortiletto l’aria fredda lo accarezzava. Il canale scoperchiato portava verso il lago, dove tutti riversavano le proprie schifezze in città – i clienti di un baccanale, le processioni dei Neiru – e Rick non si soprese a trovarlo colmo. Era quasi confortante. Certo ci si liberava come si poteva: sbatté borbottando lo stivale, il lordume in quell’angolo recintato familiare, al contrario dell’atmosfera all’interno. Aggiustandosi il calzone si ritrovò la mano sul fagotto, rimasto più o meno intonso dalle sue peripezie. Lo estrasse, strappando la carta alla buona.
R I C O R D I, Neirusiens Ricordi, nostalgia, familiare. Bah, si stava proprio rammollendo via dai campi di battaglia - sputava fandonie e inganni.
Nessuna di quelle parole il contenuto era. Buttato l’involucro se la rigirò tra le mani, la pietra appiattita che doveva tutelare l’esistenza del clan, la sua. Un disco rigido, bucato al centro per qualche ragione: armeggiando con il vestiario, Rick tentò gli inserimenti più improbabili. Dita, uccello e lingua; constatato che anche la punta del naso però, quel carciofone, non c’entrava nulla con il gingillo, si risolse a mettersi a posto i calzoni. Strappò un lembo di veste per farne un pendaglio, l’ex-tessuto nuovo, e si mise il disco al collo, ben coperto dal cuoio bollito dell’armatura. Poi rientrò.
Attraversando la sala trovò solo silenzio. Denso, carico di dubbi. Si piazzò affianco al suo bastardo al bancone, scucendo con cautela un unico soldo per le loro pinte. Prendendo a trangugiare il liquido guardava il conoscente, taciturno: solo la pietra al collo, però, aveva davanti. Storie e atmosfere puzzolenti, antiche gli evocava, grumi di facce e immagini e parole nere, ma sempre vere: non c’era nessun distacco nella sua testa –non circa il tempo, non circa la realtà. Rotture e fame ieri come ora, incarichi e mazzate; tizi morti senza un nome e cose che non ne avevano nemmeno uno, e forse non ce n’era manco bisogno. Cosa cambiava, alla fine? Cosa doveva spingerlo a fermarsi e pensare al passato – a sentirlo diverso dal solito, continuo schifo?
La birra non lo era. L’allungavano ancora con l’acqua.
“Mh. Come gira?” Borbottò al suo vicino. Con dita piene delle stesse cicatrici – pelle o testa, ne aveva da sempre – sbatté il boccale vuoto sul legno. Di curioso lì c’erano solo quei fatti, le rotture coi Neiru: una caciara di coltelli per una pietra, delle facce da funerale per qualche smilzo accoppato da delle guardie. E quelle guardie stesse… “Gira che mi hai fatto venire tu qui” il piglio secco del bastardo “Ora parla, e in fretta. Se non ricordi, hai lasciato un autentico casino giù al quartiere dei Neiru” le parole non da meno. “Casino?” Il nano si grattò il mento irsuto, come sorpreso sotto le sopracciglia color carbone. “Ah. I facciadimorto volevano fregarmi un affare. Già…
in quel…posto, hai visto venirci qualche guardia – quei danzacornacchia, dico? Che razza di giri hanno, lì?”
L’altro lo scrutò per un po’: pareva tutta la dannata locanda se la facesse nelle braghe a sentir di quei tizi, bravacci o ballerini che fossero. Attese ancora, per poi sospirare. “Qualche tempo fa ho visto si, un Danzatore, entrare lì dentro. Solo uno. Non ho idea di che cosa abbia fatto o detto, non si è fermato per molto. Perchè ti interessa? Non sarai nei guai con loro, spero, tutti sanno che i Danzatori sono roba da evitare come la peste.”
Rick rimuginò, come per –tentare- di richiamare una lista ormai troppo lunga, e probabilmente priva di significato. Se mai ne avesse potuto avere uno, quell’accozzaglia di pernacchie e rumori – parole. “No. Con quelli no.” Decretò, non troppo sicuro. Ordinò da mangiare, vecchio luccio al sugo di cui non si era mai chiesto gli ingredienti – finché non si strozzava – e propose al bastardo di prendere un po’ d’aria. “Qua è un mortorio, tanto.” L'uomo del sud gli sembrò ponderare un poco la cosa sotto le sopracciglia corvine, così sottili, pungenti come i suoi tratti scavati; preferì restare al caldo. Poco male: badando a non mostrare troppo si scostò la veste all’altezza del collo, cerchi di poltiglia incrostata a sostituire collane, e sotto…sotto penzolò la pietra. Gliela mostrò solo per poco, invero, ma parve abbastanza; non riuscì a trovare intenti malandrini negli occhi dell’uomo ambrato, non evidenti almeno. Sopiti, impastati nella stessa essenza di budella e arrangiamenti quotidiani, dovevano esserci sicuramente -pure contro di lui, perché no.
“Che ne dici?” Istinti infami e basilari, giusti. Mica s’ingannava. Il luccio era arrivato, e prese a mangiare.
“Mi spiace, non ho idea di cosa possa essere. Sono solo un semplice buttafuori”. Ma non pareva il caso di un pericolo ora, non di uno immediato; il bastardo del Sud esitò un attimo, un gesto semplice di diniego. Quindi la pelle della sua fronte si accartocciò, tante crepe come la terra da cui veniva – quell’altro inferno – e rispose.
“Hai qualche informazione a riguardo?”
Il nano strappò un ennesimo boccone fumante, masticando sempre più lento mentre parlava. “L'ha portato lì la tua guardia nera, e quel facciabianca che ho steso lo voleva neanche fosse vino ambrato con questo freddo.” Era vero: il clima dell’Eden non era in generale piacevole, per di più in quel periodo, e quella cloaca nera non dava proprio il meglio della regione. Come un boccone masticato fuori da delle gallerie putride, la città sotterranea pareva ammantata da un’umidità perenne, come di un’alba in cui non hai proprio voglia di metterti in piedi. C’è quella bruma fuori, quasi la saliva di un’altra bestiaccia che sbava e ti attende –il mondo- e tu preferiresti davvero startene in caserma, letto tra paglia e bestie della quinta compagnia o meno.
Ingoiò l’ultimo boccone, tornando a squadrare l'interlocutore, la sua corta barba scura. Ma devi andare.
Non era mica niente, al confronto col Midgard. Perché tra alzarsi e non avere la paga per mangiare, non c’è una scelta. “Mi ricorda qualche fanfaluca che si diceva per strada. Dovrebbe...tener fuori i mostri - non so quali; fargli male, roba del genere.” E andando a zonzo tra i ruderi che trovi in giro, ti succede anche quello. Gli occhi dilatati di un vecchio conoscente, il silenzio in una locanda che non era stata simile ad un cimitero – non sempre. Rick non si era trovato che tra faccende vaghe, da quando aveva rimesso piede a Neirusiens. Fanfaronate dette attorno ad un piatto caldo, solo per un gingillo strano o per guardie un po’ cazzone; piagnistei e agguati mica troppo sensati, e pattumi di storie e ricordi –non ricordi no, le parole-inganno. Cicatrici, fatti impressi addosso. Infilò la mano sotto la veste, a tastare il suo improvvisato monile. C'era finito un po' di sugo.
Anche nello sguardo dell’altro, non poteva vedere un bicchiere pieno – e quando gli era mai toccato? Un breve istante d’esitazione, che pure aveva scorto; quelle stranezze in giro che gli facevano la vista alticcia più della birra, più incerta della fottuta nebbia. Scolò un ultimo sorso, deciso. Tempo prima non c’avrebbe nemmeno pensato, a lavorarsi il culo più del dovuto per qualcosa; per una sciocchezza del genere, qualche bigiotteria da cartomante.
Mostrò di nuovo la pietra all’altro, questa volta tendendola chiaramente esposta sopra la testa. La massaggiò tra pollice e indice, riversando i suoi timori -le sue sciocchezze- tra la forma circolare e le iridi d’ambra del bastardo. Un’altra voce lo guidava, ora; la stessa, forse: solo più profonda, dagli abissi vermigli delle sue budella.
“Non mi piace dare cattivi consigli” un altro silenzio vago l’attese. Non era mai stata un posto per cose dirette, la cloaca nera, c’erano sempre ritorni e giri di sguincio per fregarsi o arrabattare. Il nano socchiuse gli occhi, dei guizzi densi e di pece diretti all’altro dietro le due feritoie. No, non lo era mai stata: ma così pregna di bruma, di faccende contro il naturale lotta-e-mangia dell’esistenza, Rick non la vedeva da tanto, tanto tempo – e forse era meglio così. “Ma queste volta farò un'eccezione. Se quell'oggetto c'entra in qualche modo con i Danzatori D'ambra...allora è da loro che devi andare e per per poter scoprire qualcosa. Altrimenti ti dovrai accontentare di avere un monile nè particolarmente bello né particolarmente utile”. E come se quella pozza di bile si fosse alzata di nuovo, vomitando i suoi –anche di Rick- sogni infranti sulla rena sporca, altri dubbi arrivarono: sciocchezze, cose mica dirette; il bastardo dell’Akerat si schiarì la voce, altre storie labili come un pasto ogni sera per un mercenario. “Ho un amico all'interno della Torre del Fato. Con un po' di fortuna potrei riuscire a farti entrare senza essere visto..a meno che tu non preferisca il metodo più classico:” Il Ràn si era rialzato, strabordando di nuovo le sue cancrene sulla rena e sui pescherecci.
“arruolarti e iniziare a cercare indisturbato dall'interno”. Il Ràn si era alzato, e sputava fuori Onde di Fumo.
“Mh. Arruolato, allora. Ma se organizzi, il tuo uomo lo incontro lo stesso.” Ma no. Alla fine era sempre lo stesso, un qualche lavoro e spaccare teste in giro, per seguire la voce della sua panza - della torre, del suo istinto. Scrostò accanito le ultime macchiette di sugo appiccicate al piatto, per poi riconsegnarlo limpido come neve nell’Erydlyss. Eppure..“E cosa diavolo hanno queste guardie - che si vocifera in giro?” “Cos'hanno?” Sorrise l’altro. “Faresti meglio a chiedermi cosa non hanno, caro mio. La risposta è: l'umanità. Sono mostri, fidati di me” Disse guardandosi intorno, quasi ci fosse qualcosa a spiarlo da sotto chiappe e bancone. Per quanto fosse certo si trattasse della solita mansione, del solito lavoro, Rick non poté non sentire qualcosa; il gemito del luccio nel suo stomaco, certamente, ma a dirla tutta anche un fremito. Lì, dal fondo delle sue viscere – dal canto e dalla torre e da un marmocchio che si nascondeva tra i ruderi di una città abbandonata – qualcosa. “E' meglio andare” Già, c’era un che di troppo simile. E quanto ricordò del suo vecchio conoscente, la pelle d’oliva rancida e gli occhi d’ambra, si confuse anch’esso tra altre parole e immagini – danzatori, mostri – mentre questi usciva come brezza notturna dall’edificio. “Se la tua idea è entrare nei Danzatori, và alla Torre del Fato e, quando te lo chiederanno, offriti volontario. Io farò in modo che abbiano un occhio di riguardo per te. Per il resto..
..che Neiru sia con te” si fotta il cieco!
Il bicchiere rotolò lungamente in su e in giù per il bancone, mentre l’avventore si strapazzava la toppa di capelli scuri. La sua criniera di mulo non pareva celare troppi misteri, qualche zecca e polvere a parte, e non vedeva cosa c’era da temere ora nella notte. Dopotutto erano dello stesso nero, lui e quelle storie. Vero, sbiadito – perenne, come una cicatrice. Schiodò il culo dallo sgabello, e riprese la sua strada.
Quando fuoriuscì dalla bruma davanti alla torre, il vagabondo era infastidito. Non che ci volesse molto, in fin dei conti; ma quel dito di pietra che si contorceva verso l’alto, i due guardiani in armatura fermi come spaventapasseri – l’intera storia – non lo mettevano di buon umore. Al contrario: piantandosi burbero contro l’ingresso, non badò troppo a fronzoli. Alla fine non gli ci era neanche voluto molto per arrivare, poche pedate irruente per quel letamaio umido; nel tragitto aveva anche incontrato un ragazzino, scucitogli due soldi per un diversivo: avesse voluto vedere altri ori, il moccioso, le guardie in quella baracca sarebbero state allertate di nuovi macelli – mazzate nel quartiere Neiru, tanto per contar balle credibili.
Controllò che tutto fosse al suo posto, martello, scudo e averi; poi si schiarì la voce. “Mi arruolo”, berciò “e spero che paghiate bene”
D’altra parte i due beccamorti non parevano in vena di chiacchiere. Altrettanto muta, un’ennesima oscurità si spalancò dietro i cancelli, ora aperti. Lugubre, vaga e pomposa: tutta quella dannata situazione se la sarebbe proprio evitata. Ma i marchi impressi nella carne della sua testa – i ricordi – e il ruminare del suo stomaco non erano causali – andavi sul sicuro. O forse no. Alla fine ciccavano come tutto, quella giostra sgangherata e sbilanciata, e seguivano al pari le spinte del caso – che altro modo c’era?
Contava il risultato, la pappa al di sotto. Il mollume nella testa ancora integro, più o meno, e nelle budella qualcosa a riempirle.
Si fece avanti, baldante come un ciuco; che le due cose, voci di testa e viscera coincidessero, era in realtà solo un motivo in più – un segno di miglior fiuto. Se davvero incidevano insieme, viscere e memorie della stessa sostanza, non aveva ragione di aver più paura: sarebbe giunto oltre il fumo, arraffando il necessario per sé e per il Sorya.
“...” Varcò la soglia, maledicendo sé stesso e quelle torre meretrice invischiata tra le grotte. La sostanza dietro al fumo di Neirusiens gli adombrava ancora le meningi.
In silenzio, la figura del vagabondo scivolò nel buio dell'edificio.
danza scappa di nuovo, ora
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