Il fantoccio
«Ha capito bene ciò che dovrai fare?»
«Perfettamente, mia signora.»
Arthurus reclinò leggermente il capo. Lady Maria, di fronte, sorrideva radiosa facendosi vento con quel suo ventaglio di stoffa colorato, come se l'idea di respirare la stessa aria dell'uomo le desse la nausea. Arthurus ricordava di aver sgozzato una o due nobildonne durante la sua vita da bandito nei boschi dell'Erynbaran e non era di certo intimorito dalle stoffe preziose con cui quella biondina metteva in risalto le tette. I suoi due occhi rossi, tuttavia, lo mettevano a disagio: erano gli stessi con cui Lord Edwin lo aveva guardato dopo aver fatto trucidare quasi metà dei suoi compagni in una retata. Lo sguardo con cui gli aveva chiesto di scegliere fra la forca o l'asservimento. L'ex brigante strinse le mani a pugno, nervoso. In altre circostanze non avrebbe esitato ad afferrare quella troietta per i capelli e a farle capire a suon di sberle che non si sarebbe dovuta permettere di guardarlo in quella maniera, che meritava di essere rispettato. Aveva fatto lo stesso quasi dieci anni prima con sua moglie in quei merdosi giorni di matrimonio, così merdosi da fargli dimenticare come avesse fatto ad amarla. Era successo prima che diventasse bandito. Alessandra, la sua sposa, non aveva uno sguardo arrogante, ma era perennemente stanca, come se facesse altro oltre a dormire continuamente. Lo guardava come se lui fosse il suo carceriere, colui che deteneva le chiavi per una libertà che le era stata tolta. Arthurus non aveva mai sopportato quelle occhiate. Lei lo fissava di sottecchi mentre filava, mentre mangiava quello che lui portava a casa dopo una giornata di duro lavoro, persino mentre fingeva di dormire per non aiutarlo nei campi. Non pronunciava mai una parola di più oltre ai regolari “buongiorno” e “buonanotte” e quando lui la interpellava rispondeva a cenni. A letto, poi, un pezzo di legno avrebbe dato più soddisfazioni: rimaneva rigida, immobile mentre lui le entrava dentro e si muoveva nella spasmodica ricerca di piacere. Lei non emetteva verso o ansito, attendeva che finisse e poi crollava addormentata. Arthurus aveva più volte avuto l'impressione che si mettesse a piangere. Una notte, mentre era sopra di lei per i doveri coniugali, Alessandra aveva voltato gli occhi verso la parete. Arthurus era sicuro di aver visto lacrime scenderle lungo le guance pallide. A quel punto, rabbia e frustrazione lo avevano invaso e non ce l'aveva più fatta. Aveva afferrato un cuscino e glielo aveva premuto sulla faccia con tutta la propria forza. Era ancora dentro di lei mentre la uccideva. Nemmeno in quel momento Alessandra si era mossa. Lui aveva continuato a spingere, spingere sempre più forte stringendo i denti, sperando che scalciasse, si dimenasse, urlasse pietà. Avrebbe smesso, se avesse fatto qualsiasi cosa lui avrebbe smesso. Invece lei non aveva fatto nulla. Arthurus non seppe mai per quanto tempo l'avesse soffocata, ma quando aveva gettato via il cuscino la candela a lato del letto si era completamente sciolta e il sangue dell'alba bagnava il cielo. Il volto della moglie era una maschera di cera di quelle che i guitti portavano durante i loro spettacoli: tutti i tratti del suo viso erano contorti a formare una grottesca smorfia di dolore. Aveva labbra bluastre e la lingua gonfia e viola distesa fuori dalla bocca, simile a un verme grasso. Il suo sguardo, quel suo sguardo pietoso e insopportabile tuttavia era ancora lì. Arthurus aveva urlato.
«La tua ricompensa sarà lauta se ti atterrai al piano. Ora va' e riferisci. Confido nelle tue doti di oratore.»
Maria lo congedò con un cenno sbrigativo della mano. Arthurus si limitò ad annuire prima di imboccare la porta e poi i corridoi illuminati dalle torce a passi nervosi, assorto nei propri pensieri. Rischiò quasi di finire addosso a una fila di Danzatori che si stavano dirigendo verso l'armeria. Si scusò con un cenno del capo. Loro si limitarono a tirare dritto, come se lui non esistesse. Non aveva mai pensato alla libertà da quando era entrato al servizio di Lord Edwin. Era stato ricercato per assassinio e brigantaggio, con le mani sporche di sangue di decine di uomini e donne, ma alla fine il benvolere di quel vecchio gli aveva risparmiato una sommaria esecuzione. La salvezza di essere un Danzatore diventava tuttavia l'inferno di fronte alla prospettiva di tornare libero ed Edwin era il demone che lo teneva soggiogato con lunghe catene ricoperte di spine. Era fottutamente stanco dell'aria umida e fredda di quella stupida caverna, stanco di uccidere elfi con la pelle grigia. Che se la prendessero pure, Neirusiens. Lui sarebbe tornato a sud e con i soldi ricevuti si sarebbe comprato dei campi, una villetta e si sarebbe sposato di nuovo. Avrebbe vissuto in tutta tranquillità mentre Edwin si sarebbe divertito a morire sotto i pugnali di quei vermi pallidi lì al freddo.
Imboccò le scale per scendere al pianterreno di fretta. Nel pianerottolo di transizione, due uomini con addosso la maschera da corvo dei Danzatori vennero verso di lui.
«Ti stavamo aspettando.»
Mormorò quello a destra, togliendosi il becco di ossidiana dal viso. Era un uomo sulla trentina, con le guance scavate e i capelli biondo cenere che gli coprivano a spazzola lo stretto cranio. Mentre parlava pareva che stesse masticando qualcosa. Si chiamava Philip e un tempo lui era stato un membro della banda di Arthurus. Quest'ultimo rilassò il volto in un'espressione più amichevole, ma non sorrise. Per quanto fosse sempre andato d'accordo con il ragazzo, non erano mai stati molto legati.
«Ricevevo le ultime direttive. Avete radunato le truppe nel cortile?»
«Armate e schierate come avevi chiesto.»
«Perfetto.»
Si passò una mano sulle guance ruvide di barba sale e pepe, soddisfatto. Prima sarebbero potuti partire, prima quella faccenda sarebbe terminata e lui avrebbe potuto prendere una di quelle chiatte che conducevano all'esterno e sparire per sempre.
«Quei dannati Neiru avranno finalmente ciò che si meritano per aver assassinato la nostra gente.»
Philip abbozzò un sorriso storto. Arthurus lo scrutò, poco convinto. Era sempre stato uno dei suoi uomini più fidati, un cagnolino fedele e ubbidiente, eppure troppo ingenuo. “Mammoletta” era il soprannome che gli avevano dato nella banda. Davvero si era bevuto tutte quelle puttanate che Lord Edwin propinava loro? Bastava guardare quel suo volto rinsecchito per capire che nemmeno lui ci credeva. “Finché serve ai miei scopi, che creda in quello che vuole” pensò con un grugnito l'ex bandito ricominciando a scendere le scale. Philip e il suo compare silenzioso gli vennero dietro.
«Qual è il piano?»
Domandò il Danzatore. Era smanioso di piantare quel suo amato stiletto nella gola di un Neiru. Arthurus si limitò a scuotere le spalle.
«Lo saprai fra poco, assieme agli altri.»
Spinse il portone dell'entrata ed entrò nel lastricato di pietra scura del cortile. Era ampio abbastanza da contenere duecento persone e normalmente vicino alle mura, accanto agli enormi bracieri che riscaldavano e davano luce, si sarebbero potuti vedere i manichini di legno e stracci con cui i nuovi Danzatori si addestravano a usare i propri strumenti, le rastrelliere riempite di oggetti affilati, i veterani dallo sguardo severo che aggiustavano la posa dei novellini con violenti colpi di armi senza filo, ma in quel giorno di guerra tutto era stato sgombrato. Le truppe erano lì, schierate ordinatamente come Philip gli aveva detto. Erano una cinquantina, ex criminali raccolti da Edwin perché rimpolpassero le fila dei suoi assassini e tutti indossavano maschere da corvo, il becco appuntito teso in avanti. Corvi del malaugurio, di quelli che nascondono con il nero delle proprie piume il sangue che li imbratta. Arthurus ebbe l'impressione di trovarsi davanti a una qualche cerimonia malata, una di quelle che, si diceva in giro, negromanti tutti vestiti di scuro conducevano di notte nei cimiteri. Storie dell'orrore per convincere i bambini a non uscire dopo il tramonto. Eppure ebbe un groppo allo stomaco quando si rese conto che loro lo stavano attendendo, che il celebrante di quella messa nera era lui. Scosse la testa mettendosi una mano sulla fronte. No, lui voleva solo la libertà, lo faceva solo per quello. Che quegli idioti credessero a quello che volevano, erano tutti come Philip. Ben presto la realtà li avrebbe traditi e a quel punto...
«Ti senti bene Arthurus?»
Philip gli aveva posato una mano sulla spalla e lo fissava preoccupato. Arthurus serrò le labbra. Avrebbe voluto dirgli di piantarla di guardarlo in quella maniera, invece si limito ad annuire.
«Mai sentito meglio.»
Si pose di fronte alle truppe e le passò in rassegna con gli occhi una seconda volta. Tutti avevano le proprie armi nel fodero, chi asce, chi spade, chi falcetti, ma la maggior parte aveva preferito pugnali. Tutti attendevano che lui dicesse qualcosa. Per un istante, un singolo istante Arthurus si sentì a disagio. Un tempo era di certo stato a capo di una banda di banditi, ma mai aveva avuto davanti così tanti uomini e mai così tutti uguali nell'aspetto. Tutti nel suo gruppo di sventurati erano stati diversi: si ricordava di Richard, Dick il cazzone, a cui piaceva sperperare fino all'ultimo soldo rapinato giocando a carte, oppure Joseph, alto due metri e dai muscoli enormi ma con la voce di un neonato, entrambi uccisi durante il combattimento contro Edwin. Di tutta quella massa Arthurus conosceva solo Philip. Forse c'erano altri dei suoi lì in mezzo, ma erano sfigurati da quelle maschere dallo sguardo fisso, irriconoscibili. Questo pensiero lo aiutò a trovare coraggio. Schiarì la gola arrochita con un colpo di tosse prima di parlare.
«Danzatori, sarò breve. Lord Edwin ha decretato che questo debba essere l'ultimo giorno in cui la popolazione di Neirusiens abbia motivo di temere quel popolo di vermi che si fa chiamare “predatori di Neiru”. Il loro capo, Ashlon, marcisce già nei nostri sotterranei assieme ai suoi compari assassini, imprigionati da noi per giustizia, perché solo le bestie uccidono i propri nemici senza dar loro modo di redimersi. Ma oggi la giustizia sarà la morte.»
S'interruppe un istante per dare modo alle sue truppe di assaporare quelle parole. Non ci fu brusio né fermento, ma i corpi dei Danzatori fremettero visibilmente, il brivido del leone che sta per andare a caccia. Arthurus era sicuro che non stessero aspettando altro.
«Noi Danzatori d'Ambra siamo i protettori di questa città, e l'unico modo per proteggerla a questo punto è uccidere fino all'ultimo elfo. Solo così Neirusiens potrà nuovamente riavere la pace. Perciò questi sono gli ordini.»
Un sorriso non del tutto intenzionale si dipinse sulle labbra di Arthurus. Si rese conto con orrore di essere compiaciuto dalle proprie stesse sanguinose frasi. Era come essere banditi un'ultima volta. “No, solo la libertà. Voglio solo la libertà.”
«Uccidete bambini e adulti. Nelle donne, mettete loro in grembo abbastanza bastardi da ripopolare questa città. Bruciate le case e i loro rifugi e lasciate che soffochino fino alla morte. Ora andiamo.»
Vi fu un brusio eccitato in mezzo agli assassini, poi il rumore degli stivali che marciavano sollevando polvere giallastra coprirono ogni parola. Arthurus si portò una mano allo stretto colletto dell'armatura di cuoio e se lo allargò. L'aria gli pareva calda, nauseante, eppure il freddo umido del sudore gli pizzicava la pelle. Cercò lo sguardo di Philip vicino alla torre, dove era rimasto per tutto il discorso, ma incontrò invece quello di Maria. La donna in viola era a metà dell'uscio, il volto sorridente adombrato poiché la luce delle lanterne proveniva dalle sue spalle e i bracieri erano troppo lontani. Tuttavia Arthurus ebbe l'impressione che fosse qualcosa di più nero dell'ombra ad avvolgerla. Ma doveva essersi sbagliato, perché non esisteva nulla di più buio dell'oscurità stessa.
Hua
Hua si afferrò al petto la giacca rossa e la strinse forte. Con l'altra mano teneva quella di Jeanne mentre si affrettavano giù per le scale della Torre del Fato, quella ripida chiocciola che non finiva più e pareva condurre fino all'inferno. Hua era tesa, il petto le pesava come se fosse stata caricata di sassi e questa sensazione era accentuata dalla completa assenza di vita nell'edificio. Sugli scalini di pietra camminavano solamente loro e tra le mura strette i passi echeggiavano assieme al crepitare delle fiamme delle lampade appese alle pareti. Era tutto irreale, un sogno strano, di quelli che al risveglio lasciano turbati. Non si sarebbe stupita se un istante dopo si fosse svegliata nel proprio letto alla Fortezza Oriente, con i capelli spettinati e Jeanne a scuoterla per avvertirla che era quasi mezzogiorno. Forse avrebbe persino gradito.
«Non preoccuparti. Concentrati su ciò che devi fare.»
Le sussurrò Jeanne abbozzando un sorriso sulle labbra, ma l'ondeggiare nervoso delle sue code e il suo sguardo tradivano disagio. Forse anche lei avrebbe preferito risvegliarsi alla Fortezza Oriente. In quelle notti la volpe aveva dormito pochissimo e le volte che Hua si era svegliata a causa della sete spesso l'aveva trovata ancora in piedi assieme a lady Maria, a parlottare o semplicemente in silenzio, entrambe a fissare nel vuoto. Era colpa dei Danzatori, delle Ombre, Hua ne era sicura. Le avevano cambiate, le stavano cambiando. La nekomata aveva paura a chiedersi quando sarebbe toccato a lei.
Arrivarono finalmente a un pianerottolo. Due Danzatori d'Ambra facevano la guardia a una porta di legno massiccio sprangata con una sbarra metallica, e quando le videro arrivare rivolsero i loro volti nascosti dalle maschere verso di loro con aria interrogativa. Un brivido corse lungo la schiena di Hua. Era inquietata da quel travestimento. Erano mostri mangiacarne, di quelli che aveva visto divorare carcasse di cervo già sventrate dai lupi. Jeanne si fece avanti, un'espressione decisa sul volto.
«Aprite la porta e fateci entrare. Ordini di Lord Edwin.»
Ingiunse ai due uomini. Quelli le fissarono per qualche istante in silenzio, imperscrutabili. Hua temette che avessero intenzione di ucciderle, ma infine uno dei due parlò, la voce attutita dall'ossidiana.
«Una volta dentro non potrete più uscire. Lord Edwin ha chiesto che la bambina non esca dalle sue stanze.»
Jeanne annuì. Quella era la stanza di Leanne, la bambina con le corna, la piccola mezz'elfa contesa tra Neiru e uomini. Ma, soprattutto, da Maria.
«Aprite le porte allora.»
Hua si fece avanti timidamente, tormentandosi le mani. La barra che bloccava la porta venne sollevata con un rumore stridente e la ragazzina entrò in una stanza immersa nella penombra, illuminata solamente dalla luce arancione che filtrava dalle imposte socchiuse di una finestra. Prima che gli occhi le si potessero abituare, i Danzatori chiusero dietro di lei l'entrata e un tonfo pesante le suggerì che fosse stata nuovamente sigillata. La camera di Leanne era piccola e piuttosto spoglia, arredata solamente con un semplice armadio, un comodino con sopra un candelabro luccicante di cera sciolta e un piccolo letto. La bambina era seduta sulla sponda, la chioma di capelli castani a coprirle gli occhi chiusi. Non sembrava essersi accorta di Hua perché la testa le rimase a ciondolare lentamente, come se fosse assorta. La nekomata sospirò. Lady Maria era convinta che lei fosse la persona di cui la bambina si fidasse di più dopo Aris, ma la verità era che Hua non la conosceva affatto. Le si avvicinò lentamente, per non svegliarla troppo rudemente nel caso stesse dormendo.
«Mmh. Ciao.»
Sorrise facendole un cenno di saluto con la mano.
«Ti senti bene?»
Leanne strinse le palpebre, poi le spalancò appena, come se fosse stata profondamente addormentata per un lungo tempo. Quando si voltò verso Hua, tuttavia, la verità fu evidente: le sue pupille erano enormi e vuote, incapaci di mettere a fuoco. La testa della bambina ondeggiava e sul volto aveva un'espressione stordita. Drogata.
Hua venne percorsa da un moto di orrore e attraversò la stanza correndo, ma la piccola biascicò qualcosa e scivolò giù dal letto prima che potesse raggiungerla. Il tonfo del corpicino sul pavimento riempì le orecchie della nekomata più di quanto avrebbe fatto un macigno. Si inginocchiò vicino a lei e le sollevò la testa con delicatezza. I capelli impregnati di sudore le unsero le dita, ma non si ritrasse. Edwin... Edwin era un mostro. Cosa le aveva fatto quella bambina? Cosa voleva da lei? Voleva corromperla come stava facendo con Maria e Jeanne, voleva trasformarla in uno dei suoi corvi? Gli occhi le pizzicarono.
«Leanne! Leanne! Cosa ti hanno fatto? Ti prego, dimmi qualcosa.»
Si chinò su di lei per sentire se respirasse. La piccola ansimava faticosamente, ma non sembrava che stesse soffocando. Il lord di Neirusiens aveva voluto impedire che uscisse usando quegli strani poteri e rovinasse i suoi piani in qualsiasi maniera. Hua strinse i pugni trattenendo le lacrime. Maria le aveva ordinato di farla uscire, ma era veramente sensato farlo con lei in quello stato? Eppure sapeva che non poteva evitare di farlo, che sarebbero morte se non avesse giocato la propria parte.
«Dobbiamo andare da Ashlon. È in pericolo.»
Le sussurrò in un orecchio, piano, per non farsi sentire dai due Danzatori fuori dalla porta. La piccola spalancò appena gli occhietti e la guardò con un barlume di coscienza. Annuì lentamente, come se quel nome le avesse restituito le forze, ma quando pose una mano a terra per rialzarsi scivolò di nuovo.
«Stai calma. Ci penso io.»
La afferrò per un fianco e la fece sollevare piano per non farle girare la testa. Il corpo della bambina con le corna tremava e Hua dovette fare attenzione perché le gambe non le cedessero. Lanciò un'occhiata alla porta sprangata alle proprie spalle. Le guardie non l'avrebbero aperta per nessun motivo. Ma quello non era un problema.
«Appoggiati qui. Solo un istante.»
Le disse con un sorriso. La lasciò vicino alla sponda del letto, appoggiata con un braccio allo schienale e si assicurò che riuscisse a rimanere in piedi. Rivolse una nuova occhiata all'uscio, uno sguardo rabbioso. Edwin si era impegnato tanto per costringere Leanne nella sua prigione. Ma non sarebbe bastato. Gli occhi della nekomata baluginarono di rosso mentre due ali di piume nere le crescevano sulla schiena.
L'istante dopo la porta della stanza di Leanne esplodeva, scardinata dalle sue cerniere con un clangore metallico. La sbarra di ferro si spezzò e i due frammenti vennero scagliati contro un muro assieme ai corpi delle due guardie, troppo sorprese per poter reagire. Quando la segatura e la polvere si depositarono, Hua osservò senza emozione i Danzatori svenuti, buttati scompostamente a terra come marionette con i fili intrecciati. Non erano meno colpevoli di Edwin per ciò che era accaduto. Li lasciò al loro destino e diede un'occhiata ai corridoi circostanti e alle scale per prepararsi all'arrivo di eventuali rinforzi, ma non vi era nessuno. Non un suono echeggiava dall'alto o dal basso della torre, tutto era nel perfetto silenzio. La nekomata aggrottò la fronte, confusa. Ci sarebbe dovuta essere una battaglia in atto poco lontano, non era possibile che non si sentisse nulla. Quasi sobbalzò quando udì la voce di Leanne alle proprie spalle.
«Non far rumore. Loro non devono sentirci.»
La piccola l'aveva raggiunta e si era aggrappata alla sua giacca rossa, ormai ridotta a uno straccio dalle due ali. La fissava con i propri occhietti esausti tentando di parlare con il tono più basso possibile. Hua non aveva mai visto niente di più fragile. La afferrò saldamente e se la caricò sulla schiena a riposare fra le piume delle ali. Le fece impressione sentire come non pesasse praticamente nulla, ma si disse che doveva essere a causa della trasformazione.
«Di là.»
Mormorò la bambina con le corna indicandole le scale che portavano al pianterreno. Hua annuì e cominciò a scenderle con calma, passo dopo passo per non permettere alle proprie scarpe di scricchiolare o, peggio, di scivolare su quei gradini di roccia consunta. L'uscita dalla Torre si parò di fronte a loro dopo quella che parve un'infinità di scalini. Le porte erano aperte, spalancate. Hua fu felice di constatare che non vi erano Danzatori di guardia, ma la felicità durò un'istante. Il tempo di rendersi conto della densa nebbia nera che all'esterno inghiottiva ogni cosa. Il corpicino di Leanne si irrigidì e anche il cuore della nekomata parve fermarsi. L'Ombra mangiava tutto, divorava case, luce, suoni inglobandoli nella propria massa informe come un'onda fa con la spiaggia. Avanzava imperterrita tendendo le proprie volute in avanti e ghermendo le case nella propria stretta prima di inghiottirle. Le gambe di Hua si misero a tremare. Se doveva svegliarsi da quell'incubo voleva farlo ora, prima che la pece la affogasse. Jeanne, Jeanne doveva svegliarla, doveva dirle di prepararsi per la colazione, di vestirsi, di pettinarsi quella zazzera informe perché non si addiceva a una signorina, di spazzolarsi le code e pulirsi le orecchie, il bagno era pronto e Jeanne dove sei finita, Jeanne ho paura...
«I Danzatori sono qui.»
Sussurrò la bambina alle sue spalle stringendole la giacca.
«Nascondiamoci»
Hua non fu sicura di averla sentita.
Jeanne
La volpe discese le scale di fretta, senza accorgersi che nella torre non vi era più nessuno. La lunga tunica quasi le si impigliava fra le gambe e doveva fare attenzione a non inciampare nel tessuto. Arrivò dove la chiocciola si congiungeva con i gradini che portavano ai sotterranei e li imboccò senza guardarsi attorno. Lady Maria in quel momento avrebbe dovuto essere di ritorno dal quartiere degli elfi. Se non ci fossero stati problemi si sarebbero dovute incontrare lì, nelle carceri, eppure qualcosa dentro Jeanne suggerì che di problemi ce ne sarebbero stati, ma a quel punto non seguire i piani non sarebbe servito a nulla. Ormai si erano spinte troppo in là per fermarsi, e questo la terrorizzava fino a lasciarla sveglia la notte. Lady Maria sembrava sempre essere sicura di ciò che faceva, troppo sicura perché non le capitasse di fallire. Probabilmente lo aveva già fatto, semplicemente era incapace di accorgersi dei propri errori. Sarebbero finite uccise o peggio, a seconda di quello che Edwin o Ashlon avrebbero deciso di fare di loro. Cose a cui la volpe non avrebbe voluto pensare ma che ogni notte sognava con vividezza morbosa: ferri roventi, veleni, aghi, tutti disposti in ordine accanto ai macchinari di tortura, pronti a bruciare la carne, sciogliere in gelatina sanguinosa le budella, perforare gli occhi e le falangi delle dita... Da dietro un angolo una mano guantata di nero si serrò stretta sulla sua bocca. Prima che la volpe potesse realizzare cosa stesse succedendo, una seconda la strattonò per la veste trascinandola dietro un muro, nell'oscurità di una stanza vuota e dall'odore di chiuso. L'alito dell'assalitore le soffiava sulle orecchie e per un istante Jeanne credette di vedere il gelido bagliore di una lama avvicinarsi alla gola.
«Se ci tieni alla vita, bambina mia, è meglio che tu rimanga qui nascosta.»
Sussurrò con voce roca l'uomo, allentando, seppur di poco, la presa. La volpe poté tornare a respirare.
«Bada bene: non ti sto minacciando, ti sto proteggendo.»
Quando la lasciò andare, Jeanne si allontanò da lui di qualche passo prima di voltarsi. Di fronte a lei vi era un Danzatore senza la tipica maschera, il volto dai tratti duri di un uomo di mezza età che si avviava lentamente verso la vecchiaia. Occhi chiari nelle orbite scavate la guardavano con cautela, come se anche lui fosse in dubbio su ciò che lei avesse intenzione di fare. Questo ridiede un po' di confidenza alla volpe.
«Tu... chi sei?»
«Il mio nome è Rakshin.»
Il vecchio Danzatore le fece cenno di fare piano. Jeanne si portò la mano alla gola come se questo potesse cancellare il suono delle parole appena pronunciate.
«È da un po' che vi osservo e più va avanti questa faccenda, più mi convinco che la vostra sia una posizione alquanto pericolosa»
Rakshin la scrutò per qualche istante in silenzio, come per studiarla. Jeanne distolse lo sguardo, nervosa. La faccenda non le piaceva, non le piaceva per niente. Rakshin... quel nome non le era nuovo, eppure il suo volto non le diceva niente. Il vecchio sollevò una mano tendendola verso di lei.
«Avrei bisogno di capire una cosa, signorina. Potrebbe darmi la sua mano?»
«Il palmo della...?»
Jeanne lo scrutò con titubanza all'inizio, poi gli porse il palmo sinistro. Dopotutto se avesse voluto ucciderla lo avrebbe fatto prima, quando non avrebbe dovuto fare altro che tappargli naso e bocca con le dita o farle scivolare una lama lungo la gola.
«Lei... è il danzatore che ci ha portate al cospetto di Edwin prima dell'imboscata ad Ashlon.»
Realizzò dopo qualche istante. Lo ricordava mentre rifiutava a Maria qualsiasi notizia su Aris e Leanne e offriva loro di entrare nei Danzatori d'ambra. Si era immaginata una persona diversa dietro la maschera, un volto duro, crudele, mentre quello che si trovava davanti era un viso intristito dall'inizio dell'ultima età. Rakshin non reagì a quelle parole, troppo concentrato.
«Le è stato ordinato di tenerci d'occhio?»
«Mi è stato ordinato di sorvegliarvi» annuì lui «Ma ciò che sto facendo ora va ben oltre i miei compiti.»
In qualche modo, Jeanne lo aveva sospettato. Alcune delle mosse di Maria erano state tutt'altro che sottili e non potevano non aver fatto nascere sospetti nel vecchio Lord.
«Ascolta. So che la tua padrona è giunta a Neirusiens alla ricerca di Ombre»
Mormorò sfilandosi un guanto. Aprì il palmo della volpe e lo sovrappose al proprio con delicatezza. La sensazione della pelle indurita e ruvida contro la propria le diede una strana sensazione.
«Ma dalle sue azioni non sembrava sapere esattamente cosa cercare e dove cercare.»
Socchiuse gli occhi, sollevando il palmo. Jeanne fissò attonita la propria pelle. Le linee della mano erano diventate un fitto reticolato nero pece e pulsante, dotato di vita propria. Le vene del polso affioravano scure e la volpe dovette trattenersi dall'affondarvi le unghie per strapparsele. Che cosa le stava succedendo? Rakshin le aveva fatto qualcosa?
«Il suo istinto l'ha portata però a prendersi cura di Leanne, e in ciò è stata molto intelligente. Edwin ha visto di buon occhio il legame che si è stabilito fra di loro e credo vorrà sfruttarlo in futuro, ma ciò comporta un prezzo.»
Le venature sbiadirono nel pallore della carne come lo zucchero nel tè caldo. Jeanne si rigirò di fronte agli occhi il palmo. No, Rakshin non le aveva fatto nulla, assolutamente nulla. Quel nero era già dentro di lei e scorreva sempre più copioso nelle vene assieme al sangue.
«Se resterete qui, l'Oscurità che già si annida in voi si risveglierà e vi trasformerà in Danzatori. E' questo il vostro desiderio?»
Rakshin alzò lo sguardo, uno sguardo duro, severo, eppure senza alcun giudizio nascosto fra le rughe che contornavano gli occhi. Jeanne non aveva idea di cosa rispondere. Non sapeva completamente dei piani di Lady Maria, conosceva solo una piccola parte di quello che la Strega aveva pensato e quei frammenti non bastavano a dare risposta alla domanda del Danzatore. Personalmente Jeanne non sarebbe voluta diventare uno di quegli assassini. Non parevano avere intelligenza o coscienza, solo la smania di uccidere con il potere delle ombre chi venisse loro indicato.
«Non... non ho idea di ciò che abbia in mente Milady.»
Balbettò infine, poi rimase un istante in silenzio.
«Cosa comporta diventare Danzatori? Credevo lo fossimo già dopo il giuramento.»
Rakshin socchiuse gli occhi, Jeanne non comprese se per ostilità o per concentrarsi.
«Di coloro che avete visto ospiti qui presso la Torre del Fato, solo poche decine diverranno davvero Danzatori. E non parlo di un semplice giuramento. Parlo del potere dei Danzatori, lo stesso che poco tempo fa avete voi stesse potuto sperimentare sulla vostra pelle all'interno del Palazzo della cerchia.»
Jeanne lo ricordava. Ricordava l'oscurità che aveva avvolto ogni cosa, di quel canto, di quella nenia terribile che si era insinuata nella loro mente fino a rendere difficile il pensiero. Era stato come avere le budella e le ossa congelate, incapaci di muoversi. Un brivido le corse lungo la schiena a quel ricordo. Maria stava veramente cercando di ottenere simili capacità? Voleva diventare... un mostro?
«Coloro che possiedono questo potere sono capaci di cose impossibili per altri, ma il prezzo da pagare per portare l'Oscurità dentro di sé è altissimo: chi troppo a lungo indugia nelle Tenebre, spesso infatti finisce per perdervisi. Difficile dire quanti Danzatori siano ancora umani e quanti invece abbiano smarrito la propria anima, divorata dal loro stesso potere.»
“Se scruterai troppo a lungo nell'abisso, l'abisso scruterà dentro di te” aveva detto un giorno Maria. Parole incomprensibili di un qualche filosofo, si era detta Jeanne, ma solo ora comprendeva quanto fossero terribili. Rakshin stesso aveva esitato nel parlare, come se riconoscesse di non essere escluso dal problema. Tutti loro erano avvolti dalle spire dell'Ombra e lentamente venivano inghiottiti in essa. Jeanne sarebbe voluta fuggire, ma non sapeva come. Rakshin aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma in quel momento la luce del corridoio si affievolì, come se le lanterne fossero state improvvisamente abbassate. Il suono del crepitare delle fiamme divenne attutito, il rumore lontano della battaglia si spense. Alla volpe parve di sentire il proprio cuore battere in petto, tu-tum tu-tum, il sangue scorrerle nelle vene, lo stomaco rivoltare l'acido che aveva nelle viscere. Si portò le mani alle orecchie, esasperata da quei suoni. Cosa stava succedendo?
«Dobbiamo andare. Stanno arrivando.»
Arthurus
Si portò un fazzoletto di stoffa bagnata al viso sforzandosi di non tossire un'altra volta. Il fumo invadeva ogni cunicolo, ogni grotta scavata dagli elfi, rendendo l'aria irrespirabile. Sopra gli edifici dove i Neiru avevano abitato ardevano con un crepitio così violento che poteva essere udito fin laggiù nel sottosuolo. Arthurus si chiese quanto tempo ci avrebbero messo le fiamme a raggiungerli e a ucciderli tutti. Accanto a lui, Philip si strofinava gli occhi irritati dalla cenere. La caligine impediva loro di vedere ciò che stava accadendo fra le gallerie, ma nulla fermava i suoni che giungevano da lontano. Il clangore delle armi che battevano fra di loro era appena un sottofondo, di più erano le urla, i versi agonizzanti, i rantoli. Tutte le grida erano uguali, Arthurus non avrebbe saputo dire quali appartenessero ai Danzatori e quali agli elfi e poteva solo sperare che fossero i secondi. Ma cosa gli importava, alla fine? Ancora poco e lui sarebbe stato libero, finalmente libero.
L'attacco iniziale era andato bene, forse troppo. Erano entrati dentro il quartiere dei Neiru senza incontrare resistenza, anche se sarebbe stato meglio dire che lo trovarono completamente deserto. Le case antiche in rovina in cui avevano vissuto gli antenati degli elfi erano silenziose, prive di luci, nere come la roccia con cui erano scolpite. Le strade usualmente trafficate erano sgombre, e per qualche momento i Danzatori avevano vagato sperduti per gli isolati senza comprendere cosa dovessero fare. Arthurus li aveva radunati in piazza, in quella che un mese prima aveva accolto i racconti di Ka Shanzi, e aveva ordinato loro di perlustrare gli edifici alla ricerca degli ingressi delle gallerie. Non era stato difficile. In meno di un'ora ne avevano già trovati cinque, la maggior parte all'interno di case antiche, nascosti sotto botole o sassi, altri in zone comuni, meno evidenti. Arthurus aveva fatto trasportare vicino a quattro dei cinque accessi i barili di olio infiammabile e le torce di cui si era premunito. Un tempo suo padre era stato un apicoltore. Quando doveva estrarre il miele, accendeva una serie di fuochi di erba fresca sotto l'alveare, fuochi con tanto, tantissimo fumo. Lasciava tuttavia sempre un lato dell'alveare libero. Quando era piccolo, ad Arthurus piaceva rimanere a guardare lo spettacolo delle volute nere alzarsi e poi lo sciame, furioso e intossicato, lanciarsi fuori alla ricerca d'aria. Un giorno aveva chiesto al padre perché non circondasse completamente il nido di fumo, e lui gli aveva risposto che in quella maniera le api non sarebbero potute fuggire e sarebbero morte tutte soffocate. Lui voleva che tornassero, che producessero altro miele. Questo era il piano dell'ex bandito, ma quando diede fuoco alle entrate qualcosa andò storto: forse fu il vento, forse fu l'olio distribuito male, ma le fiamme si espansero rapidamente in tutto il quartiere, incontrollabili. Arthurus aveva osservato l'inferno aprirsi di fronte ai suoi occhi con un moto di sgomento. Se l'incendio si fosse espanso non sarebbero più stati in grado di fare prigionieri come previsto. Gli elfi sarebbero morti, certo, ma con loro i Danzatori che li combattevano dentro le gallerie. Poi la paura, con la stessa immediatezza con cui l'aveva assalito, era passata. Si diede per un'altra volta la stessa giustificazione: lui non era lì per vincere, era lì per guadagnarsi la ricompensa. Aveva ordinato ai suoi di scendere nelle gallerie per il quinto accesso e attenersi al piano. Quell'entrata era ancora ben distante dalle fiamme e posizionata nei pressi di un pozzo. Con un po' di fortuna sarebbe potuta durare tre, quattro ore prima che dovessero abbandonarla. Arthurus era rimasto assieme a Philip e il suo compagno a sorvegliare l'entrata mentre gli altri sparivano nell'oscurità per poi riaffiorare portando con sé file di elfi con i polsi legati. I Neiru erano confusi, storditi dal fumo. Molti di loro tossivano senza ritegno, altri si coprivano il viso con i polsi. Alcuni fecero domande: chiesero dove li stessero portando, cosa avrebbero fatto loro. Altri lanciarono insulti, altri ancora sputarono addosso ai loro aguzzini. Nessuno di loro ricevette risposta. L'ex bandito li guardò passare con occhi inespressivi, tentando di non pensare a ciò che sarebbe accaduto dopo. Le donne, dalla carnagione pallida e le membra sottili, si trascinavano dietro bambini altrettanto magri che si stringevano a loro con occhioni carichi di tristezza. Forse intuivano già quale sarebbe stato il loro destino. Mezz'ora dopo, da fuori il cunicolo avevano cominciato a levarsi rantoli e urla disperate. Philip si stava torcendo le mani stringendo forte lo stiletto. Arthurus gli aveva lanciato un'occhiata divertita. Non era lui quello che voleva farla pagare agli elfi?
«Ti senti male, Philip?»
Gli aveva domandato in tono strafottente. Il compagno non si era voltato dall'oscurità che fissava come se potesse cancellare le immagini orribili che gli balenavano in testa.
«Non... non erano armati.»
Aveva balbettato passandosi una mano sulla fronte sudata. In effetti anche lì aveva cominciato a fare caldo e l'odore del fumo si era insinuato lentamente nell'aria.
«I loro padri e mariti lo sono.»
Aveva risposto secco Arthurus. Cosa si era aspettato Philip? Assassini celati dietro ogni angolo, mostri giganteschi evocati per ucciderli, decine di uomini pronti a combatterli? Arthurus lo aveva detto nel cortile: loro non erano andati lì per combattere, loro erano andati lì per massacrare. Questo era ciò che facevano assassini come loro, e questo era il prezzo della libertà. Le urla esterne presto erano diventate pianti, i piante mugolii incomprensibili, dopodiché i Danzatori erano ridiscesi nei cunicoli. Sulle vesti nere il sangue non si poteva vedere, ma sugli scampi di pelle dei e sui capelli c'erano macchie rosse. Le loro armi gocciolavano.
«Andate e cercatene altri. Non ce ne andremo finché non avremo finito.»
E così avevano fatto e non erano ancora tornati. Arthurus cominciava a preoccuparsi per il calore sempre più intenso nelle gallerie. Aveva saputo di minatori ritrovati con la testa esplosa per incendi avvenuti all'esterno della miniera. Le ossa del loro cranio venivano rinvenute alla rinfusa, il cervello ridotto a una massa rosata, raggrinzita, gettato a metri di distanza. Si portò macchinalmente una mano al capo. No, non stava ancora tentando di uscire, ma ben presto il calore sarebbe stato soffocante.
«Dobbiamo andarcene, Arthurus.»
Gracchiò Philip in un colpo di tosse.
«Finiremo per morire soffocati.»
L'ex capo dei banditi scosse la testa.
«I miei ordini sono stati precisi. Non dobbiamo lasciare le grotte fino alla morte dell'ultimo elfo.»
Si passò una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Philip gli si gettò contro afferrandolo per un braccio.
«Tu sei pazzo!»
Aveva le palpebre socchiuse per l'irritazione e il viso coperto, ma la sua voce grondava di rabbia. Arthurus strattonò per liberarsi.
«Questi sono ordini.»
Ripeté con quanta più pacatezza potesse, ma il tono gli uscì nervoso. La sua libertà dipendeva tutta da quel comando, da quel dannatissimo comando. Se non l'avesse eseguito avrebbe potuto dire addio alla libertà, ai campi, alla nuova casa, a tutto. Sarebbe rimasto a marcire per i Danzatori finché non fosse crepato per mano di un Neiru. No, non aveva intenzione di andarsene.
«Non ha senso, non ha nessun senso! Io soffoco, devo uscire.»
Strillò Philip correndo verso le scale che conducevano in superficie. Non ce la fece nemmeno ad arrivare ai gradini: prima che riuscisse a posare il piede sul primo, il pugnale del Danzatore silenzioso si abbatté sulla sua schiena. Il ragazzo si piegò all'indietro strillando, la colonna vertebrale contorta innaturalmente. Arthurus non avrebbe mai pensato che un corpo potesse flettersi in quella maniera. Il pugnale si sollevò e si abbassò ancora e ancora. Pezzi dell'armatura di cuoio cadevano a terra mentre il sangue colava a imbrattare il terreno. Il ragazzo gorgogliò qualcosa, poi si accasciò scompostamente sulla roccia, rivoltandosi per il dolore nel suo stesso sangue. Arthurus fissò il Danzatore silenzioso a occhi sbarrati nonostante il fumo. Due sentimenti contrastanti lottavano dentro di lui, rabbia e sollievo si avventavano cercando di avere il sopravvento. Ora Philip giaceva immobile e dietro la maschera di ossidiana il suo volto doveva essere digrignato per il dolore. Quello era stato un suo compagno. Avevano mangiato e bevuto assieme, avevano condiviso lo stesso tetto, avevano ucciso assieme, sebbene Philip si fosse rifiutato di fare il lavoro sporco. Philip la mammoletta, eppure tutti gli volevano bene nella banda per il suo carattere. E ora era morto. Arthurus si asciugò di nuovo gli occhi. Era il fumo, soltanto il fumo.
«Grazie.»
Disse all'assassino. Quello non rispose che con un cenno del capo prima di riporre lo stiletto nel fodero dopo averlo ripulito sui pantaloni di Philip. Il ragazzo non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe dovuto disubbidire agli ordini. Nessuno sarebbe potuto uscire di lì prima che i Neiru fossero tutti morti.
Passò del tempo. Il silenzio ora regnava nelle caverne. Il calore si era fatto insopportabile e la pozza di sangue in cui giaceva il corpo del giovane bandito aveva cominciato a bollire. Arthurus si era tolto la maschera da tempo, gettandola in un angolo del cunicolo senza guardarla, ma l'aria era troppo pesante per respirare. L'odore di bruciato era violento, ormai l'incendio doveva essere sopra di loro. Fu allora che delle figure apparvero dalla caligine.
«Finalmente. Avete finito?»
Domandò loro Arthurus con un mezzo sorriso. Sarebbero potuti tornare all'esterno, alla fine, lasciarsi alle spalle quell'inferno di fumo e fiamme. Lady Maria lo stava aspettando con il denaro, sarebbe bastato prenderlo e... Una sensazione fredda lo investì al fianco. Inizialmente l'ex bandito credette si trattasse del sudore, ma poi il dolore gli fece capire la verità. Una freccia gli era sibilata vicino e si era piantata sulla gradinata lasciandogli un graffio sulla pelle.
«Si, abbiamo finito.»
Mormorò una voce anziana. Dal fumo emersero una decina di Neiru, tutti armati di arco e pugnali. Al loro centro, un anziano elfo fissava i due Danzatori con occhi duri. Arthurus venne travolto dal terrore. Cosa era successo ai suoi soldati? Dove erano finiti? Si voltò verso il Danzatore silenzioso. Quello... quello sorrideva con gli occhi. Aveva ancora la maschera sul viso, ma l'ex bandito era sicuro che stesse sorridendo. No, non aveva senso, non aveva alcun senso. Arthurus si lanciò verso le scale in preda alla paura, ma una seconda freccia lo colse sulla coscia. Urlò cadendo a terra e andando a sbattere sul terreno. L'uomo silenzioso rimase a guardare.
«Che cazzo stai facendo? Aiutami, idiota!»
Gridò il capo dei banditi stringendo i denti per il dolore. Qualcosa baluginò nelle mani dell'altro. Un istante dopo, un pugnale penetrò nella gola di Arthurus squarciando pelle, carne, muscoli in un'esplosione rossastra. L'uomo spalancò la bocca, attonito, mentre il sangue colava copioso dalla ferita e gli riempiva i polmoni. Aria, non riusciva a respirare, non riusciva più a respirare, avrebbe voluto anche solo quel fumo bollente nella grotte, si sarebbe accontentato. Gli archi dei Neiru scoccarono, e anche il secondo Danzatore cadde a terra, il corpo trafitto come un puntaspilli. La vista del cadavere non diede sollievo ad Arthurus. Presto sarebbe diventato come lui.
«Non c'è più niente da fare per questo qui.»
Il Neiru anziano gli prese il mento fra le dita e gli sollevò il capo. Sul viso dell'elfo vi era un'espressione triste, pietosa. Le viscere di Arthurus ribollirono nonostante fosse sul punto di morire. No, non doveva fissarlo in quella maniera, non doveva guardarlo così. Lui era importante, lui era forte... non poteva guardarlo... in quella...
Il cuore del capo dei banditi si fermò, e così fecero i suoi pensieri. Ka Shanzi lo lasciò andare sussurrando qualcosa nella lingua dura dei Neiru. Una maledizione o un saluto funebre, Arthurus non lo seppe mai.
Maria
Alle spalle della Strega il quartiere dei Neiru bruciava come un rogo della notte di Valpurga. Il fumo nero si sollevava in alto, fino al soffitto della grotta ad annerire le stalattiti e le rocce. L'incendio avrebbe presto consumato tutti gli edifici e i corpi di coloro che si erano nascosti nelle gallerie senza lasciare altro che macerie e cenere fine. Ma, soprattutto, avrebbe fatto tacere per sempre i Danzatori. Arthurus e i suoi uomini avrebbero gettato ancora più zizzania fra elfi e uomini e infine sarebbero morti in silenzio, bruciati in quel rogo di “giustizia”, come ironicamente l'aveva chiamata Arthurus, e dalla rabbia dei Predatori. Maria aveva previsto la sconfitta delle truppe che le erano state assegnate, anzi, aveva fatto in modo di renderla inevitabile e quello stupido bandito si sarebbe prestato bene al ruolo di ottuso comandante. Tutto il resto del piano era nelle proprie mani, da quel momento. Quel pensiero la compiacque. Aveva avuto incubi, incubi terribili nell'aspettare quel giorno. Aveva sognato ancora la ragazzina con i capelli rosa, aveva sognato di come la sua pelle si ricoprisse di macchie e venature di ossidiana. Aveva sognato di essere uccisa, di fallire. Allora aveva cominciato a non dormire la notte, a rimanere sveglia, a leggere o a parlare con Jeanne, anche lei soffocata dai sogni. Lei aveva invece paura delle torture a cui Edwin e Ashlon avrebbero potuto sottoporre loro in caso di fallimento. La Strega aveva riso di quei timori, ma erano state risa false, forzate. Lo sapeva benissimo anche lei che nella sconfitta non ci sarebbe stata alcuna speranza di trovare una morta rapida, ma l'idea di vedere Jeanne e Hua torturate dai danzatori era insopportabile. Già vedeva il viso di Edwin deformato da un sorriso perverso mentre le guardava nude prima che le lame squarciassero loro le budella. Sarebbe tornato alla sua scrivania buia per scrivere prima di vedere le scene peggiori e togliersi l'appetito. Quella sola immagine le dava la nausea, ma avrebbe fatto ogni cosa per salvarle e garantire loro la fuga, anche se le fosse costata la vita. In quel momento, tuttavia, ogni cosa andava perfettamente, e non sarebbero stati incubi, torture o timori a fermarla. Non quando ormai il potere delle Ombre era nelle sue mani e presto lo sarebbero stati anche Aris, Leanne e Ashlon. A quel punto nemmeno un migliaio di Danzatori avrebbero potuto fermarla: sarebbe stata come il fuoco che travolgeva gli elfi, rapida e implacabile.
Era circa a metà del tragitto per la torre che un gruppo di danzatori sbucò da dietro un angolo. Dapprincipio Maria rimase a fissarli temendo che Arthurus non avesse tenuto sotto controllo le proprie truppe, poi riconobbe fra di essi Marlow, uno dei comandanti di Edwin. Lui la salutò con un cenno di affettata cortesia.
«Immagino che le sue truppe non siano all'altezza di poterla accompagnare, madamigella.»
Sorrise, ironico, senza sapere che in quel momento le truppe di Maria erano troppo occupate a tirare fuori dai sotterranei elfi disarmati per poterla accompagnare, e ben presto sarebbero state fin troppo impegnate a morire.
«Gradirebbe unirsi a noi?»
Maria lo fissò inespressiva, poi tirò dritto senza rispondere. Cosa ci faceva lì quel pagliaccio? Non sapeva precisamente quali fossero state le direttive di Edwin, eppure non si aspettava di incontrare altri Danzatori sulla strada. Si era preoccupata tanto di liberarsi dei testimoni per poi trovarsene una decina lì, poco distante dalla Torre. Si portò un dito sulle labbra, pensosa. Potevano essere d'aiuto, però, se i sotterranei fossero già stati invasi dai Neiru. Decise di rimanere al passo di quei soldati, però si guardò bene dal rivolgere la minima attenzione al loro comandante. Conosceva sufficientemente Edwin da diffidare di qualsiasi suo sottoposto.
Quando raggiunsero la torre a spirale, scoprirono le porte sigillate. Marlow ordinò ai propri di aprirle e uno dei Danzatori si fece avanti mormorando una qualche nenia incomprensibile. Le ante si divelsero come se un gigantesco le avesse abbattute con tale forza da liquefarre il metallo di cui erano composte. Le truppe sciamarono all'interno in tutta fretta, le armi estratte, per poi dirigersi verso i sotterranei. Maria fece per dirigersi anch'essa, ma qualcosa le afferrò una manica.
«Una fanciulla non dovrebbe bramare in questo modo il sangue.»
Le sorrise nuovamente Marlow. La Strega sollevò un sopracciglio. Era la prima persona che incontrasse che dopo meno di cinque minuti di dialogo si fosse guadagnata il suo disprezzo. Quel suo fare viscido nascondeva di certo qualcosa, ma in quel momento lei era troppo di fretta per poter indagare. Ashlon era poco distante, e fra poco Danzatori o Neiru lo avrebbero raggiunto per liberarlo. Doveva arrivare da lui prima che ciò accadesse. Strattonò via il tessuto dalle dita di Marlow per liberarsi e a lo spolverò con un paio di colpi di ventaglio. Non voleva la minima traccia di quell'individuo su di sé.
«No, non è il sangue che bramo. Ma non ho intenzione di rimanere qui ad aspettare.»
Rispose, asciutta, voltandosi e avanzando a passi rapidi verso le scale. Non sentì l'augurio di Marlow alle proprie spalle, così come non sentì il sibilo della lama mentre calava su di lei. Il dolore al centro del capo fu sordo, violento. La Strega barcollò in avanti di qualche passo mentre la vista le si anneriva. Il piatto, solo il piatto l'aveva colpita... doveva andare avanti, doveva raggiungere Ashlon, dirgli del segreto di Edwin, uccidere quello stupido vecchio una volta per...
Maria si accasciò a terra, priva di sensi, appena conscia dei passi del gruppo di Predatori che Marlow accolse con un sorriso.
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