Il sole splendeva alto e fulgido nel cielo d'autunno. Le cupole di Qashra erano stelle del pomeriggio, limpide e dorate con innumerevoli pinnacoli ad attorniarle, lunghe dita protese verso l'infinita volta celeste. Tra i vicoli curati correvano i bambini, rincorrendo ora un gatto, ora una trottola sfuggita al loro precario controllo. Nell'aria si spandeva un piacevole odore di pesce fresco sotto sale, giunto quella mattina dall'oceano e dal Qatja-Yakin. Al bazar il tonno si vendeva per un pezzo d'oro alla libbra. Il pesce spada era più economico: due libbre, un oro. La cernia delle profondità, coi suoi denti aguzzi e gli occhi spiritati, costava di più. Ma era anche la prelibatezza ricercata esclusivamente dai ricchi mercanti della città alta. Uomini del settentrione si destreggiavano con meraviglia tra le bancarelle di frutta, verdura, e spezie dagli odori nauseabondi ma dai sapori eccezionali. Qualcuno urlava: un banditore portava notizie dai palazzi della politica, un predicatore insisteva col dire che i passanti avrebbero beneficiato della fede in T'al, i venditori berciavano prezzi bassi per attirare clienti. Qashra era una città chiassosa e colorata. Gli abiti dei Nani erano sgargianti quasi quanto le loro barbe dipinte, e i capelli delle donne adornati di bigiotteria e gioielli. Per certi versi, era anche una capitale della gioia e della serenità: il Sultano non faceva mai mancare ai suoi sudditi il benessere, dovunque essi fossero e da qualunque sobborgo provenissero. Lungo i viali alberati, le piante di agrumi fiorivano rigogliose e i monelli andavano spesso a carpirne le primizie acerbe. Una vasta piazza si apriva di fianco al bazar, ciottoli bianchi a circondare una maestosa fontana su cui usignoli e pettirossi estinguevano la sete, cinguettando allegri in quella giornata afosa di Settembre. Di quando in quando, una pattuglia di archibugieri e spadaccini attraversava il piazzale tra l'indifferenza della gente. Salutavano i conoscenti, scambiavano poche parole con la popolazione serena e portavano lo scalpiccio dei loro stivali altrove, vegliando su una pace che nessuno dava più per scontata. Uomini, donne e persino qualche bambino aveva vissuto in prima persona l'Assedio. Avevano visto i demoni assieparsi sotto le mura, brulicanti masse di corpi neri e informi. Avevano assistito al massacro di parenti, amici, estranei in armatura che avevano cercato di proteggerli e sacrificato le loro vite per salvarne molte altre. I primi tempi, nessuno aveva avuto voglia di scherzare. Con serietà e dedizione, i Nani si erano adoperati per ricostruire. La città, con le sue magnifiche opere. La civiltà di un popolo, che era andata perduta negli anni della disperazione. La semplice vita quotidiana, di cui alcuni non avevano mai provato l'ebbrezza. Eppure i nani erano sopravvissuti all'estinzione che un male senza nome aveva evocato su di loro. Avevano dato prova di roccioso coraggio, e di non essere soli: in molti li avevano aiutati a costruire quell'impero nascente che era il Sultanato. Uomini, elfi, progenie di chissà quale retaggio. Tutti uniti, verso quell'obiettivo comune. Insieme, avevano vinto.
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« È-- » mormorò Jahrir, con le lacrime agli occhi « È bellissimo. » Esattamente come lo aveva sognato, anzi meglio: non aveva parole per descrivere ciò che la sua mente dipingeva sulla tela bianca del destino. Attonito, osservava come abbagliato quello spettacolo magnifico. Il suo cuore era leggero, a quella vista. Sapeva che la sua vita era valsa a qualcosa, e che l'ultimo prezzo da pagare per quei risultati sarebbe stato un passo facile da affrontare ormai. La voce tornò, perentoria e atona: « Sen yalnız değilsin. » Ogni immagine di gloria e prosperità scomparve, e dinanzi al Nano si estese nuovamente il salone del trono di Qashra. Con i suoi demoni, i cadaveri, il sentore di tradimento e tutta la tristezza che quel quadro desolante poteva conferire all'animo di un uomo. Senza lasciarsi prendere dallo scoramento, il condottiero trasse un profondo respiro. Chiuse gli occhi, li riaprì, e vide le persone a cui si riferiva lo sconosciuto. Un uomo, stregone e cartomante di Taanach mandato fin lì per ucciderlo. Una donna, driade dal cuore d'oro e amica del suo popolo, e della libertà. Un tiranno, la cui brama di potere adombrava il mondo intero con una cappa di timore reverenziale. Li osservò, soppesando ciò che vedeva nei loro volti e nelle anime dietro ad essi rinchiuse. Erano come lui, flebili fiati di vita in un mondo ultraterreno sospeso a metà tra il reale e l'immaginario. Li guardò, e inaspettatamente sorrise. Sapeva tutto - istintivamente, lo vedeva tra le falde del tempo e dello spazio. Si avvicinò a Fanie, le prese la mano fra le sue con fermezza ma al tempo stesso una dolcezza quasi paterna. « Non temere » il suo era un sussurro, che tutti avrebbero sentito comunque: « Ho già preso la mia decisione. » "Uccidi Jahrir" aveva detto, il Priore; "Uccidi Jahrir" aveva detto il Beik dalla sua alta torre. Né lei, né il fattucchiere avrebbero dovuto adempiere a un simile riprovevole atto di inciviltà. Sospirò, un po' stanco e un po' paziente. « Sei stata brava » le disse soltanto, un po' impacciato « Grazie. » "Qashra non sarà salva grazie a Jahrir" avrebbe voluto aggiungere, "Ma grazie alla forza di tanti, di tutti. E grazie a te." Un istante dopo aveva lasciato le mani dell'elfa per scivolare quindi con grazia, camminando su un tappeto di sogni, fino al cartomante. La sua era come una processione funebre, in cui il morituro andava a salutare i suoi amici e nemici, tra conoscenti e sconosciuti. « Jace » i suoi occhi si incontrarono con quelli dell'uomo, senza astio, né risentimento « Delegare la scelta non è codardia, o indecisione, ma saggezza. Per merito tuo, i Nani saranno padroni del proprio destino. » Chinò il capo, con reverenza e rispetto immani. Lacrime di cristallo s'infransero sul pavimento lordo. « Grazie. » Infine, con la dignità di un uomo che piange per una giusta causa, avanzò fino a trovarsi faccia a faccia con Caino. Lo osservò per un istante, cercando di capire cosa celasse quella maschera dietro la maschera, quel santo demonio che comandava sul mondo con i suoi lunghi artigli. Era un enigma, e gli enigmi - Jahrir lo sapeva bene - serbavano mille e un pericolo. Ma quando gli si rivolse, non lo fece con dolore, né orgoglio. Gli parlò da pari a pari, prendendo in un moto di fratellanza la sua mano nella sua. « Non siamo mai stati nemici, o avversari. In fondo, desideriamo le stesse cose: ordine, pace, armonia » si guardò attorno, con aria affranta e aggiunse: « Questo caos non porterà che ad altro dolore. Perciò ti chiedo, amico mio, di impedire che ciò accada ancora. A te spetta un compito gravoso: mantenere l'equilibrio di questo mondo. Ma so che ne sarai in grado. Lo vedo. » Il suo sguardo era perso oltre Caino, oltre Qashra, nell'infinito corridoio costellato di porte che era l'aldilà. Un'ultima volta si rivolse al priore, sinceramente sollevato di lasciare a lui una responsabilità tanto grande. « Grazie. »
L'assedio di Qashra era finito.
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Nessuno seppe cosa accadde a Qashra quel giorno, perché i superstiti ne hanno ricordi frammentati e confusi. L'esercito dei demoni scomparve come neve al sole, lasciando la città ferita ma viva. In molti raccontarono di essersi svegliati altrove, lontano dal luogo in cui credevano di essere impegnati a combattere. Altri semplicemente dissero di aver vissuto un sogno ad occhi aperti: avevano visto giardini pensili e archi di alabastro, case e villaggi di uno splendore indicibile. Il corpo di Jahrir Gakhoor, trafitto a morte dai cultisti di Beiron, non venne trovato. A lui intitolarono la statua che sta nei giardini del palazzo.
Jahrir Gakhoor - padre Riunificatore Primo Sultano.