La strada serpeggiava nel cuore di tenebra dei vicoli, infida e traditrice. Il terreno, duro dal freddo, come fosse cavo echeggiava ad ogni passo; il passo violento ed affannoso di chi fugge.
Chett, con lo sguardo che scrutava una notte ormai esausta e le sue spalle capaci era il punto di riferimento per quell' intera compagnia di derelitti che avevano giocato a fare i prodi difensori del popolo. le cose stavano suppergiù : un energumeno dall' alito graveolente di birra era affiorato dall' oscurità per offrir loro una valida alternativa al finire con il corpo che ciondola piano da una forca davanti alle guglie di ebano della Cattedrale e nessuno di quello sparuto gruppo di condottieri era stato in grado di fare una controproposta che non fosse fuggire a gambe levate verso chissà dove. Era stato bello, finché era durato, ammise Albrich a se stesso. Per un fugace istante, si era sentito di nuovo quello che sapeva essere stato prima della caduta del Leviatano, prima di affondare nel fango, come un albero dalle radici scoperte; la vita aveva invaso il suo corpo, d' improvviso, come un brivido febbrile, riempiendogli il petto, i polmoni, il cuore. Quando il ferro aveva smesso di cantare ed occhi sgomenti, ancora gonfi di sonno, cominciavano a esplorare l' oscurità incuriositi, il nano era ancora del tutto immerso in quel senso di potere che il Mjolnir gli aveva infuso. Le sue mani tremavano ancora, torride, come innervate da fuoco vivo.
Poi, lentamente, la vita era sciamata via, lasciando terra bruciata dove prima le fiamme garrivano alte; man mano che il respiro andava calmandosi, mentre un silenzio fatto di dubbi ed inquietudini tutte personali aveva allungato le sue dita sulla compagnia di improvvisati eroi, si era fatta strada in lui la consapevolezza, dolce quanto un intruglio medicinale, che il gioco era finito.
Era tornato ad essere piccolo, impotente, un insignificante sputo in una realtà troppo grande perché i colpi di un martello potessero riportare giustizia e fratellanza; o per meglio dire, lo era sempre stato.
Era curioso come riuscisse a sentirsi peno, completo, solo quando impugnava il Mjolnir per fare del male.
Ricordava di aver sentito, in una serata da lupi passata in qualche fumosa bettola di quart' ordine, che le tribù Pelleverde delle immense piane polverose solevano chiamare la guerra qualcosa come "La Grande Giostra", o forse "Il Grande Gioco"; * Mai ci fu definizione più riuscita *, concluse il nano lisciandosi l' ispida barba d' argento. I suoi occhi si soffermarono sul fardello inerme di lividi e grumi di sangue che era il piccoletto verde, con quel suo sorriso affilato e gli occhi vispi: anch' egli era un Pelleverde, uno di quei poderosi predoni delle brughiere, capaci di frantumare un cranio umano stritolandolo tra le dita di una sola mano? Esplorò il suo corpo esile, atrofico, che giaceva tra le braccia sicure del giovane dei capelli color rame: le sue braccia avrebbero retto a stento il peso di una spada corta; nel volto bitorzoluto non c' era nulla della caparbietà e dell' audacia di un guerriero; la schiena e le scapole erano quelle curve di un essere abituato a strisciare nell' ombra, a vivere perennemente nascosto sotto un basso profilo. Non c' era nulla del suo popolo, in lui. Il mezzo sorriso che campeggiava sul volto del nano scomparve presto sotto la peluria spiovente. Quel piccoletto aveva la mente fine e la lingua aguzza, più tagliente di qualsiasi spada; eppure Albrich non osò immaginare cosa dovesse significare nascere inadatto alla guerra in un popolo di guerrieri.
"Albrich!"
Una voce chiamò il suo nome; udendola, gli sovvenne la luce spiritata di un focolare, la notte, il profumo del deserto. In un primo momento, non realizzò di stare camminando a fianco ad Arsona, proprio come qualche tempo prima aveva fatto sugli altopiani di Qashra.
"Arsona di Qashra mi onora ancora una volta con la sua presenza!"
La sua voce era arrochita dal freddo, ma vibrante di entusiasmo; si schiarì la gola. Se ciò che sino a quel momento era ad allora conservava un impercettibile granello di logica, vedere il volto sorpreso della sua compagna d' armi lo annientò del tutto.
"Perdonami, io... non ti avevo riconosciuto...
Cosa... cosa ci fai... "
L' imbarazzo nella voce della nana era palpabile, ma Albrich non ne fece un dramma; era stato altrettanto cieco da non riconoscerla, preso dalla foga dello scontro.
"Cosa ci faccio qui, dici? Di solito, ci vivo. Immagino che potrei farti la stessa domanda, ma non credo sia il momento più adatto per fare una chiacchierata davanti ad un tè caldo."
Si scompigliò i capelli, con fare impacciato, sogghignando sotto la peluria delle sue gote. Chett camminava e camminava, mentre i profili degli edifici facevano sempre più imperanti, elaborati e lussuosi. Non era tranquillo, Albrich, per nulla: quell' energumeno dal ventre gonfio ed il cervello vuoto avrebbe potuto benissimo venderli a qualche parvenu della nuova nobiltà di Basiledra per intascarsi un paio di monete d' oro.
"A quanto pare le nostre strade si incrociano ancora... Sono molto felice di rivederti, amico mio, anche se avrei preferito farlo in circostanze diverse. "
La voce di Arsona, ruvida e rassicurante come una pacca sulla schiena, seppe distendergli i nervi. D' altra parte, non aveva altra scelta che proseguire insieme a lei, ancora una volta, su una strada ignota, se non voleva finire in pasto ai Cani Bradi.
"Lo stesso vale per me, puoi credermi. Ora, ovunque siamo diretti, ho la certezza di essere in buona compagnia."
Parlò con schiettezza, da commilitone a commilitone, da nano a nana; gli fece bene all' animo non sapersi solo e perso come al solito, tutto sommato. Pochi passi avanti a loro, le nocche di Chett sfiorarono il legno scuro e lucido di una massiccia porta istoriata, bussando con discrezione. Contrariamente alle aspettative, nessuna guardia a spada sguainata li attendeva al di la della soglia; solo un profumo di granturco, di fave, di pane fresco e di ogni
cosa buona.
[...]
La polvere danzava, portata in alto dalla luce aranciata del mattino che trapelava appena dalle imposte socchiuse. Il lugubre, sospeso silenzio dei vicoli aveva lasciato il posto a tutt’ un’ altra atmosfera, piena di lievi scricchiolii, sussurri a mezza voce, risate di bambini e il piacevole brontolio di un calderone colmo di brodo fumante. Erano stati lasciati nell’ avvolgente penombra di quella che doveva essere una sala da pranzo, mentre tutt’ attorno, dagli spazi adiacenti e dai piani inferiori, si udiva il sereno mormorare della vita quotidiana.
Sulle prime, gli occhi di Albrich roteavano inquieti, senza posa, assimilando ogni dettaglio, cercando di comprendere in che posto fossero stati condotti, scrutando ogni angolo che la luce non riusciva a sfiorare; ma ben presto, quando ebbe compreso che in quel posto non vi era distinzione tra apparenza e realtà, solco d’ ombra che si era tracciato sulla sua fronte spaziosa scomparve.
Chett aveva portato il piccoletto verde ai piani superiori, per tentare di cucire insieme ciò che di lui era rimasto.
L’ attesa, generata dalla brama di spiegazioni e risposte che chiarissero in quale situazione si trovassero, sembrava gravare sui nervi di ciascuno dei presenti almeno quanto alleggeriva il petto pesante del nano: non aveva alcuna fretta, Albrich, di scoprire perché fosse stato condotto in quell’ angolo di città, in quella casa, in quella stanza, abbastanza profonda perché lo sguardo potesse perdersi, abbastanza familiare e rassicurante per ospitare un viavai di persone, odori e sorrisi; trovarsi in quello stato di attesa perenne al nano non sarebbe affatto dispiaciuto: aveva il cuore leggero, la testa sgombra da qualsiasi cosa non fosse in quel momento ed in quel luogo, i sensi inebriati dalla bizzarra serenità che aleggiava in quell’ ambiente immerso nella luce fioca del mattino; i pensieri si erano acquietati, avevano smesso il loro galoppo frenetico ed Albrich sentiva di essere al posto giusto, tra quella gente, tra i bambini, le massaie, i vecchi con più rughe che denti.
Un’ ombra, staccatasi come per incanto dalla parete, mosse nella loro direzione e sconvolse il precario equilibrio interore che aveva raggiunto, facendolo trasalire.
“Pare che ogni nemico della Guardia Insonne sia amico della brava gente di Basiledra.”
Una voce suadente, mansueta giunse alle sue orecchie; due occhi di un grigio pallido guizzarono nelle tenebre della stanza. Appartenevano ad un uomo dalle vesti importanti che male si intonavano con il volto aspro, spigoloso, dalla barba incolta. I capelli avevano qualcosa di indomito, selvaggio, dal modo in cui ricadevano liberi sulle spalle.
Da quanto tempo quel tizio era rimasto in quella posizione, silente, inosservato?Da quanto tempo quegli occhi freddi come pietra di fiume stavano osservando lui, Arsona, il guerriero dalla pelle d’ ebano ed il ragazzo dai capelli color rame?
Gli occhi del nano scattarono come trappole ad incontrare quelli dell’ uomo, che nel frattempo scopriva una cornucopia in vimini ricolma di mele, noci, cachi, e di tutti i frutti che sapevano sfidare il vento del nord, ma anche mandarini, arance e frutti tropicali che il freddo non aveva mai nemmeno sfiorato.
"È per questo che siete salvi dalla milizia. E che siete qui, a casa mia e di chiunque si trovi nei guai."
Le pupille di Albrich luccicarono: tutto quel trambusto gli aveva lasciato un vuoto nelle budella che non vedeva l’ ora di colmare. Chiunque fosse tanto gentile da invitare i propri ospiti ad un desco così abbondante non poteva certo essere un comune tagliagole; semmai, doveva essere un tagliagole di una certa classe, concluse riempiendosi la bocca della polpa fibrosa di un pomo.
“Parole sante”
Mormorò a singulti, sgranocchiando avidamente un sostanzioso morso. L’ anfitrione di quel gruppo di eroi sbandati invitò ciascuno a presentarsi, con un sorriso sottile ed accomodante sul volto; diceva di chiamarsi Remwick, Remi per gli affezionati. Dalle parole di Arsona, che timidamente gli si approcciò, Albrich comprese di trovarsi nelle stanza di qualche facoltoso mercante filantropo, che aveva messo i suoi beni al servizio della comunità di sfollati di cui messer Remwick aveva tutta l’ aria di essere l’ albero maestro. Infine, il nano prese la parola senza troppe cerimonie dopo la sua compagna d’ armi, la polpa della mela che scrocchiava piacevolmente sotto i suoi denti.
"Mi sembra abusare della vostra gratitudine *chomp* bussare alla porta di casa vostra, messer Remewick *chomp*e gettarsi a capofitto sul vostro cibo *chomp* senza nemmeno essermi presentato."
Il succo del frutto zampillava dalle sue fauci spalancate ogni volta che azzardava articolare una sillaba. Fu costretto a deglutire, senza perdere il tono ruvido e privo di infiorettature con cui era solito approcciarsi ad uno sconosciuto.
"Elencare tutti i nomi che ho ereditato dai miei avi sarebbe solo un inutile spreco di tempo, quindi ... Remi … O qualunque sia il vostro nome... chiamatemi pure Albrich. Semplicemente Albrich.".
Mandò i polpastrelli in esplorazione all’ interno della cesta finché non incontrarono la buccia lucida di un altro pomo. Fissò per un istante il suo volto deformato nello spicchio biancastro di luce che scivolava sul volume convesso della mela; scoprì i denti in un sorriso sardonico .
" Se ad ogni zuffa con uno dei porci di Mathias Lorch ci avessi guadagnato un banchetto come questo, state pur certo che a quest' ora mi conoscerebbero come il Flagello degli Insonni."
Nessuno, nemmeno Albrich stesso, fu divertito da una simile uscita: tutti avevano i loro grilli per la testa, le loro preoccupazioni, le loro promesse da mantenere, i loro voti a cui adempiere; tutti tranne lui, certo, Albrich il derelitto, Albrich il solitario, Albrich il codardo, Albrich che da troppo tempo non trovava più il coraggio di vivere.
Il silenzio calò sottoforma di un ombra livida sul volto del nano.
Al Patchouli - così si presentò il guerriero dalla pelle ambrata - espresse tutta la sua preoccupazione per la situazione in cui versavano le genti di Basiledra, mentre due bambine, canticchiando un motivetto popolare, fecero il loro ingresso nella sala da pranzo, seguite dallo sguardo compassionevole di Messer Remwick.
“Bette e Sarah: figlie di un ciabattino massacrato dalla milizia lo scorso mese. Non ricordo mai qual è l'una e quale l'altra.”
Il guerriero dalla pelle d’ ebano tese loro amichevolmente una mela; Al Patchouli ispirava sicurezza e cortesia, con quella debole mezzaluna di denti bianchissimi che emergeva appena dal volto scuro, ricoperto da un’ irta barba color del carbone; ma le tenebre nel cuore del nano sembrarono farsi d’ un tratto più fitte.
“Queste piccoline ..."
Prese prepotentemente la parola; la sua voce era profonda, gutturale, grave di memorie.
"Mi ricordano tanto due graziosi faccini che mi sono saltati agli occhi di recente. Sventolavano i veli delle loro sottane all' angolo della via, con un trucco sgargiante impiastrato su labbra e guance. Si sarebbero fatte fottere insieme da uno sbandato qualsiasi pur di racimolare un tozzo di pane. Avranno avuto dieci anni al massimo... Mi imploravano di giacere con loro."
Dita gelide gli rimestarono le viscere: non ricordava di essere stato tanto disgustato ed impietosito in vita sua; rigurgitare sui presenti quel ricordo sepolto non lo fece stare meglio, affatto.
"Ho dormito con la faccia nel fango in questa fogna di città abbastanza volte per poter dire che ... per ogni persona che voi avete accolto sotto la vostra protezione vi sono almeno deci disperati senza un tetto sulla testa e cibo nello stomaco"
Era una realtà evidente, che tuttavia Albrich, forse per provocazione, forse per semplice correttezza formale, non si fece scrupoli nel rivangare.
"Basta mettere il naso fuori da questo bel quartiere e farsi un giro per i bassifondi per capire che non dico fandonie. E voi ne siete consapevole"
Arricciò le labbra in un sorriso bieco, gli occhi chiarissimi fissi in quelli grigio selce di Remi. Era una frecciata, un colpo di piatto, una provocazione: voleva sondare ciò che si celava oltre il buonismo di quei sorrisi, oltre la generosità e l’ umanitarismo di cui quella misteriosa figura si ammantava la sua reazione gli avrebbe detto molto di più sul suo conto di quanto potessero fare mille e mille parole. Vide un’ ombra scivolare sul volto del suo anfitrione prima che trovasse le parole per rispondere.
“E cosa posso fare io per evitarlo? Basiledra è ufficialmente occupata dalla Guardia Insonne, e i nobili la appoggiano, per paura di perdere la propria fortuna. Vi siete mai chiesti quante famiglie si sfamerebbero con quello che i Lancaster hanno nei loro forzieri? Io credo che mezza città potrebbe mangiare dieci anni interi senza dover alzare un dito. Ah, i ricchi..tutta la vita per accumulare, per riempire casseforti, scrigni, fabbricare la prigione per sé e i propri figli maschi, e la dote per le femmine..perché?”
La domanda dilatò il silenzio che aleggiava nella sala, scuotendo qualcosa dentro Albrich.
"Chi vive tra di noi sono spiriti liberi. Alcuni sono solo vittime del destino, come le povere Bette e Sarah, ma altri...altri riescono a conquistare la via della purezza, decretando la menzogna della ricchezza e la libertà dei loro desideri. In fondo, quella che lì fuori hanno chiamato l'Armata dei Sonnambuli non è nient'altro che questo."
Il tono perentorio di Remi, la veemenza delle sue parole riverberarono in lui.
“Spiriti liberi …”
Mormorò a mezza voce, in un sussurro quasi impercettibile.
* L’ Armata dei Sonnambuli … Remi … *
Un calore intenso sembrò ghermirgli lo stomaco; Remwick … L’ Armata … spiriti liberi … la menzogna della ricchezza … la libertà dei loro desideri … Chi era in realtà quell’ uomo? Un filantropo, che accoglieva a braccia aperte chi non aveva più speranza o qualcosa di più?
"Remi..."
Al Patchouli, pensieroso, con l’ indice che ondeggiava a cercare pace dal dubbio nell’ aria piatta, intervenne, placando il flusso dei suoi pensieri.
“Questo nome non mi è nuovo. Da quando ho messo piede a Basiledra, ho sentito parlare diverse volte di un certo Remi. Anche se non ricordo bene per quale motivo.”
Remi sorrise, lasciando immaginare ai presenti che cosa sarebbe accaduto in quel nido di serenità se gli Insonni fossero venuti a conoscenza della sua identità.
“ Qui siamo tra amici."
E d’ un tratto, Albrich avvampò. Karolis Remi … L’ Armata dei Sonnambuli … ogni tassello della composizione era finalmente al suo posto.
"Quale onore..."
Esordì Albrich, con una scintilla negli occhi chiari.
“ La Volpe Nera in persona ci ha appena chiamato amici. La mia buona stella deve essere particolarmente luminosa, in questo periodo."
Come poteva essere stato così cieco! Karolis Remi, il vero flagello della Guardia Insonne, colui che aveva illuminato la via agli umili ed i vinti per una possibilità di riscattarsi, il criminale che con le sue sortite era riuscito a mettere il pepe al culo agli Insonni a tal punto da guadagnarsi un posto di rispetto nelle liste di proscrizione! Albrich non sapeva se doveva essere onorato, incuriosito o distaccato. Non lo sapeva, quindi fece di tutto per non palesare ciò che gli infuriava dentro il petto.
"Ho saputo cosa è successo alla Grazia Malevola..è bello vedere qualcuno fare qualcosa di concreto, come difendere un poveraccio dalla Guardia Insonne. La gente è la linfa vitale di questa città, e non va ignorata. Che vi piaccia o no, è la città e la sua gente che vi definisce."
Il profondo silenzio in cui la sala da pranzo era immersa rendeva possibile sentire lo scroscio dell’ acqua che si riversava nella coppa di Karolis Remi.
"I vostri occhi raccontano molto, sapete? Avete lo sguardo di chi ha attraversato l'inferno uscendone vivo, roba che la gente normale non potrebbe capire. Non so se siete le persone giuste. Quelle che cerco da tempo, intendo..vorrei sentire la vostra storia prima di giudicare."
Albrich prese un respiro profondo, inalando dalle narici e meditò. Meditò su quanto sin ora la sua vita a Basiledra fosse stata miserevole e nascosta, su quanto il suo peregrinare in cerca di una terra che gli fosse amica fosse stato infruttuoso, deludente e vano; meditò su quanti amici sinceri poteva dire di essersi guadagnato e li contò sulle dita di una mano; meditò su quante battaglie aveva combattuto, contro un nemico che nei suoi incubi non aveva mai una fisionomia precisa o contro se stesso e su quante di esse ne fosse uscito vincitore: la sua mano si chiuse con forza, tingendo le nocche di bianco.
“Non credo di essere la persona che stai cercando, Volpe Nera.”
Ogni formalità era scomparsa dal tono della sua voce, che ora trasudava dolore, rassegnazione. Abbassò gli occhi, come per esplorare la sua ombra, mentre lasciava che la lingua gli si sciogliesse.
“ Forse è vero, ho trascorso abbastanza anni su questa terra per dire di essere stato all’ inferno, ma non posso dire con certezza di esserne uscito…”
Si prese il tempo per respirare; l’ aria viziata della sala da pranzo gli scese sino ai lombi, dandogli la forza di
sputare altre parole su se stesso.
“Un flagello chiamato RottenHaz ha strappato la mia gente dal grembo della terra ed ha reso i miei monti e le mie valli nulla più di una vasta distesa di ceneri grigie. La mia vita, Karolis Remi, da quel momento è stata un continuo vagabondare, un tentativo disperato di far valere la mia carne più di un comune giro di stagione, di poter trovare nella vastità del mondo qualcosa, qualsiasi cosa, che ridesse un senso alla mia esistenza raminga.”
“Il nord del mondo, Basiledra, i quattro regni, Qashra, le giungle dell’ Akeran … i miei stivali portano addosso ancora la polvere dei diversi angoli di Theras in cui ho disteso le mie ossa. La Capitale è stata con me un po’ madre e un po’ puttana, proteggendomi, abbracciandomi, seducendomi e rinnegandomi proprio quando in cuor mio cominciavo … sì, a nutrire una flebile speranza di aver trovato rifugio da ciò che sono stato, dai fantasmi della mia gente.”
“Per questo, quando la Guardia Insonne discese dai picchi del lontano Nord come una slavina, io ero sulle mura, a vedere un ragazzino morire nella bruma del mattino, immolatosi per la salvezza di questo dannato covo di serpi. Poi, calpestato, morso, masticato e sputato, compresi infine che la mia carne non poteva valere molto di più di quella di chiunque altro. Ho guardato nelle pupille di un Insonne morto e ci ho visto lo stesso gelido anelito alla vita che campeggiava nelle pupille di un rivoluzionario appeso ad una forca, con le viscere che penzolavano nel vuoto. Nessuno di loro due voleva morire.”
Sospirò; sentiva la testa di svariate taglie più grossa, gli occhi in fiamme.
“Alla tua causa servono uomini che possano cambiare il mondo, Volpe Nera. Io non ho trovato di meglio da fare che attaccarmi ad una bottiglia di liquore, da qualche tempo a questa parte. Ora sono pulito … ma ciò non toglie che sia ancora parecchio confuso sull’ avvenire che mi attende.”
Appoggiò i gomiti sul tavolo, protendendosi in avanti e lasciando cadere il calo tra le spalle. Perché, dopo tante maledizioni contro gli insonni, dopo aver raccontato la sua storia si sentiva così ... vuoto?
“Continuo a viverlo ogni giorno che passa, il mio inferno quotidiano.”