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« Il mostro è negli occhi di chi volta il capo » proverbio sulle vicende di Kóróna
I giorni passarono, febbrili, mentre il giovane drago d’osso lavorava teso a un solo risultato: il frutto dello Hjarta. C’era chi diceva, tra i draghi, di averlo visto avventurarsi lontano da Verkstæði, nella tundra sconfinata dove le stelle riempivano il cielo e il vento piegava i cespugli e il pensiero, in cerca delle creature senz’ali. Il nipote di Blóð prendeva parte alle migrazioni delle specie stagionali, studiando i quadrupedi dal lungo pelo: ne ammirava la forza mordace, che resisteva agli irrilevanti cambiamenti della natura in quei poveri corpi minuti; valutava la loro consistenza; ne seguiva gli accoppiamenti. E, si vociferava, era ormai in grado di comprenderne i versi insensati tanto li aveva sentiti urlare al vento delle steppe, in quei luoghi in cui il cielo notturno si macchiava di rosso e di verde, e di tutti i colori del creato. Collezionò mille cuori d’uccello; alzò un simulacro con le corna degli alci. Quando Thorsberg lo assaporò per la prima volta, quel rigurgito amaro nel petto, non gli diede peso. Pensò che, come tutti i patemi dello spirito, ignorandoli e concentrandosi sulla propria tabella di marcia quelli sarebbero rimasti lì, al pari di una cena indigesta sullo stomaco. Thorsberg aveva passato l’infanzia a sognarlo, quel fuoco che doveva animarti la mano e il cuore: tanta era la mancanza nel mondo di fuori, la possibilità di attrezzare, fare di più e meglio, quanto più quel fuoco avrebbe bruciato. Il mondo pieno di meraviglie di Verkstæði lasciava solo il vuoto nelle officine e tra le costole: credette di poter cambiare le cose con il fuoco dello Hjarta.
Quando furono pronti, Thorsberg e Dreki d’ossidiana unirono le loro arti nelle camere della Gola Nera. Thorsberg arrivò sfiancato a quell’appuntamento, ma era consapevole che i grandi risultati portavano sacrifici; forse ancor di più, per lui che nelle sue grezze opere non si era mai davvero adoperato. Preparò un’ala che si era lui stesso carpito. “La temperatura è giusta, regolo la pressione. Tu occupati di formare le strutture...questa volta non puoi fare un lavoro abbozzato” pronunciò Dreki, chino sul calderone. “Sigillo la caldera. Ci saranno i fuochi d'artificio!” L’aula della Gola brillava, mentre i due draghi si apprestavano a compiere la loro opera: dallo strano composto che i due artigiani rimesciavano si alzarono fumi convulsi, che spiraleggiavano ricolmi di segreti e parole che nessuno avrebbe mai potuto udire. Thorsberg preparò l’ultimo materiale. “Oh, no: questo Alfur saprà fare cose che faranno impallidire Fyrirliði e il suo pupazzo spaurito!” Urlò il drago d'osso, aggiungendo quella parte di sé nel calderone. Metà del potere che gli dava accesso al cielo. Creste di luce si alzarono tra le mattonelle sotto le loro zampe; Dreki intonò un canto alle loro creature. Quel giorno -che forse non era nemmeno un giorno preciso ma più un mese, o un anno; forse era una spaccatura nella memoria, tra ciò che prima e ciò che è dopo-, quel giorno a Verkstæði una sala, o magari più d’una, eruppe in un rumore tremendo. Aveva qualcosa della voce di un vulcano, e qualcosa dell’urlo del vento che batte la tundra. Chiese:
“Guardami, padre”
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Nei tempi che seguirono Thorsberg cominciò a educare la Figlia sulle cose del mondo. Gli mostrò prima di tutto i posti e i materiali da cui l’aveva creata, e gli confidò ciò che da lei si aspettava: sperava che la sua creatura fosse in grado di riuscire persino oltre ciò che i draghi artigiani avevano potuto. Era bruttina, ma lui la presentava impettito agli altri padri, perché era la luce dei suoi occhi. “Così, gli anziani hanno scoperto la polvere di cui è fatto il mondo, e come scinderne in due ogni singolo granello.” La Figlia, che nella lingua dei draghi è Dóttir, seguiva i gesti del padre acconsentendo col capo; anche crescendo, la sua statura era minuta se comparata alle fattezze di un drago, e così osservava cavalcando sul dorso di Thorsberg il profilo frastagliato del mondo. Ma Thorsberg doveva marciare sulla terra, perché aveva sacrificato la sua ala; e la creatura non sapeva volare. Tanti corpi ossei partivano però dal suo capo e dalla sua schiena, aprendosi in grandi ali appuntite: Thorsberg pensò fosse solo questione di tempo, quindi. E continuò a istruire la Dóttir, ignorando la pelle color della cenere, percorsa da una fitta ragnatela di crepe. La chiamò Kóróna, per via delle escrescenze sulla sua testa; e perché aveva sacrificato tutto per lei, e non chiedeva altro alla vita. Le fece vedere le officine abbandonate dei draghi, dove il mondo era stato piegato al loro volere. Un giorno, quando non c’era più nessuno, la portò nell’Officina Dorata dove lui e il suo amico Draki avevano lavorato in gioventù. Il drago d’osso toccò gli enormi macchinari arrugginiti e soffiò via la polvere dalle decine di valvole magiche. Ricacciò in gola, ancora una volta, quel rigurgito inutile che sentiva più forte col passare del tempo: Thorsb non era più giovane, e cominciava a farsi nostalgico. Una volta erano a Gola Nera, e Thorsberg stava lavorando ad una nuova brynja d’osso che calzasse alle sue forme, fattesi più magre e curve col tempo. La Dóttir l’assisteva, avendogli mostrato i segreti della polvere che costituiva il mondo. Lavorava ad un braccio dell’armatura, quando inavvertitamente Thorsberg inciampò, e uno strumento cadde sul punto in cui lavorava la Figlia. Il braccio era ancora in fase di lavorazione, dunque era normale fosse fragile: eppure crollò interamente, sfaldandosi in tanti granuli. Thorsberg guardò chinando il capo, mentre la cascata di polvere bianca cadeva al suolo tintinnando. Non era il primo pezzo di brynja rotto che vedeva, ne aveva scheggiati tanti in gioventù; consolò così la creatura, le cui dita sinuose e molli potevano dare problemi in quei primi lavori complessi. Tutte le mani della Dóttir non erano altro che tentacoli sinuosi in effetti, che a volte si univano formando poche forti dita, sensibili e in grado dei più delicati prodigi meccanici; a volte si sgrovigliavano in tanti piccoli filamenti. Decise di finire così per quel giorno, per riprendere l’indomani. Thorsberg divenne sempre più stanco.
Si disse che arrivava ugualmente, per giovani e vecchi; si disse che le creazioni avrebbero dovuto capirlo meglio di tutti, si disse. Anche Thorsberg d’osso, che era stato giovane e arrogante, cominciò a non far sentire più la sua voce tra i pinnacoli alzati secoli prima dai sacri artigiani. La sua creatura cresceva e creava prole intanto, ognuna diversa; ognuno di quei nuovi esserini con una sua peculiare struttura ossea sul capo, così come noi abbiamo colori e minerali unici di cui siamo fatti. Ma col tempo Thorsb non volle incontrarla più. Vedeva forse i suoi vecchi amici, andava ancora a guardare il mondo come una volta. Ma non più solcando il cielo, il monco. Gli dissero che stava diventando simile a suo zio, chiuso e bisbetico; li maledì. Gli dissero che solo pochi anni prima lo aveva ammirato pubblicamente. Allora si chiuse nella magione della sua famiglia, e nessune seppe più altro di lui. Neppure il suo vecchio fratello d’ossidiana, a cui si udì avesse affibbiato la colpa dei suoi fallimenti. In un giorno di fine estate Thorsb si incamminò, gobbo e sfatto, verso il lago a sud di Verkstæði dove usava sguazzare in gioventù. Ammirò ancora una volta il sole incendiare la superficie dell’acqua cadendo dietro le montagne, e si immerse in quella piacevole frescura, che non ricordava così pungente. Meditò su tante cose: quelle compiute, e quelle fatte a metà. Allora la sua Kóróna lo trovò immerso a testa in giù, perché l’aveva cercato preoccupata con i più grandi della sua prole. Anche lei in quei giorni si era fatta vecchia e fragile. Lui sbuffò in un ruggito decrepito alzando il muso, spruzzando acqua e saliva sulla sua creatura, mandandola via. Riprese a meditare, su tante cose – o in verità su poche, perché altro non contava ed erano solo bubbole di chi sente vuoti e favole nel petto, secondo lui –: le cose che aveva compiuto, e quelle fatte a metà. Aveva sempre pensato che, trovato un nuovo modo di sfogare il suo estro creativo, avrebbe abbandonato la propria noncuranza nel lavorare. Credeva fosse un fatto legato al periodo in cui viveva, dove non mancava niente all’esterno – e, per questo, qualcosa mancava. Quando Fyrirliði gli parlò dell’Alfur credette fosse giunta la sua ora. L’ora del riscatto. Aveva tanto voluto per la sua creatura, così malamente aveva lavorato per non vincolarla alle fissità che uccidevano il suo tempo, per dargli piena flessibilità, che l’aveva resa …amorfa; incapace di creare come loro. Mostruosa. Gli aveva dato la sua ala per solcare il cielo, e ora strisciavano come serpi, pensò immobile nel lago. E di tutto il suo volere, di tutto l’odio che aveva seminato -Fyrirliði e Andóf, e le loro fazioni; suo zio; il suo amico Dreki; la sua prole- si ritrovò a pensare se, forse, il fuoco dello Hjarta non era per tutti da maneggiare. Lo guardò un’ultima volta, il sole fiammeggiare dietro i monti. Poi, a poco a poco, il fondo di alghe si fece sempre più scuro.
Eccomi, al pelo! Azioni e dialoghi concordate con Volk Per il resto, ho preso spunto da Echidna per l'immagine, ma l'idea di una creatura con ossa strane che uscivano da schiena e testa, e con le dita serpentose e mutevoli mi era venuta in mattinata.
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