La Voce del Regno
Chi ben comincia
deve finire l'opera.
I finestrini della carrozza erano velati da pesanti tende scure, come il velluto che ne ricopriva i sedili. Ainwen sedeva da un lato, un velo a celarle gli occhi vuoti, la bambola in grembo. Ogni tanto ne carezzava lentamente il capo, facendo scorrere le dita tra i capelli pettinati in boccoli ordinati. Davanti a lei, il mastro costruttore dell’ambasciata era rimasto in silenzio per un certo tempo, schiarendosi ogni tanto la voce. Non sapeva cosa volesse quella dama, né perché l’avesse fatto chiamare in disparte. Lei non pareva nemmeno guardarlo, adagiata nella propria posizione come se fosse fatta di porcellana.
“Noto che i lavori procedono bene”.
Alla fine si era decisa a parlare, e la sua voce era risuonata gelida e inespressiva. Se l’uomo l’avesse conosciuta meglio avrebbe potuto percepire la soddisfazione che traspariva tra le sue parole. Ma era un giovanotto semplice, senza esperienza del mondo etereo della nobiltà, quindi si fece ancora più piccolo al proprio posto, annuendo. Si ricordò all’ultimo che l’Oracolo era cieco.
“Tutto va per il meglio, signora”.
Si torse le mani, sperando che lei non decidesse che le serviva un nuovo mastro costruttore. Pensò che quelle labbra sottili parevano fatte apposta per condannare gente come lui. Lei abbozzò un sorriso che sfiorì immediatamente.
“Procedete in questo modo. Non fermatevi, non lasciatevi intralciare, non sperperate. In tutta la città il denaro scarseggia”.
La mancanza di denaro non sembrava turbarla molto. L’uomo le rivolse un’occhiata perplessa, chiedendosi dove volesse andare a parare.
“Ma non per noi, non per ora. Quindi, se continuerete a lavorare come ora, può darsi che finiremo presto. E sarete adeguatamente ricompensati”.
Ancora una volta non c’era alcuna emozione percepibile nel suo tono, ma le parole furono sufficienti. Il mastro costruttore annuì vigorosamente.
“Non ti preoccupare, signora. Vedrai che finiremo esattamente come dici tu. Non sarai delusa”.
Lei gli porse una mano, che lui strinse nella propria, callosa e brunita dal sole. Nonostante un lieve sussulto lei non si ritrasse, ma con la mano libera aprì lo sportello della carrozza.
Lo guardò allontanarsi a grandi passi per esortare i propri uomini e strinse le labbra. Non poteva permettersi un fallimento, non anche in quel caso. Con il piede avvisò il cocchiere che poteva ripartire. Aveva affari ben più spinosi di cui occuparsi.
Le Mani Cieche
Dimmi con che nobile vai
ti dirò quanto idiota sei
Chissà come il Conte Piccardo era riuscito ad assicurarsi degli appartamenti a Ladeca, dove scarseggiavano perfino le abitazioni per gli operai. Li aveva fatti arredare con tappeti pregiati e mobilio che probabilmente utilizzava durante i propri viaggi e sembravano quasi la tenda di un re mercante. Seduto sui morbidi cuscini, la camicia di seta leggera sbottonata sul petto e una tazza di bevanda calda in mano, era perfettamente a proprio agio.
“Se me lo permettete, signora, trovo che i nostri nobili abbiano perso l’ago della bussola”.
Ainwen sedeva davanti a lui, affondata nella propria gonna blu notte, la treccia candida poggiata sulla spalla. Non si era velata gli occhi, non per lui, e lo fissava con ostentazione sperando di metterlo a disagio. Davanti a lei, anche la bambola aveva una piccola tazza in mano e le labbrucce aperte parevano sul punto di bere.
Con uno scatto secco, delicato ma violento, fece cozzare la tazzina sul piatto. Perentoria, incapace di contenere la rabbia.
“Sono degli inetti. Degli incapaci. Dei pusillanimi. Mi chiedo come li abbiate scelti”.
La sua ira era tale che per un istante le tremarono le mani. Il conte le rivolse un sorriso divertito. Era evidente che non si sentiva affatto responsabile della situazione.
“Sono pur sempre membri dei Pari, my lady di Ardeal. E sebbene non vi conoscano ora si sentono i vostri uomini”.
Lei storse le labbra, sottolineando come l’idea non le piacesse affatto.
“È necessario fare qualcosa, prima che finiscano per confessare i propri affari anche a Mark Smith”.
Aveva parlato con voce gelida, sommessa. Si sporse lievemente in avanti. Non sperava in un consiglio di quell’uomo, eppure fremeva per risolvere tutto il più velocemente possibile.
“Se posso darvi un suggerimento, signora, penso sarebbe necessario consolidarli dando loro una facciata di comune e buona apparenza”.
Ainwen gli rivolse un sorriso sprezzante.
“Un asino non sarà mai un pavone, nemmeno se gli inchiodassero delle piume addosso”.
Poggiò la tazza sul basso tavolo circolare. Nonostante tutto sapeva che l’idea del Conte Piccardo era buona. Era necessario che quegli incapaci trovassero una maschera da indossare, qualcosa di semplice e che le consentisse di muoverli da vicino.
La risata dell’altro era calda. Battè le mani in segno di apprezzamento.
“Osservazione sagace, signora. Ma i nostri nobili per quanto possano apparire confusi hanno dalla loro una grande quantità di denaro. E di capacità di vivere in società”.
La guardò negli occhi e la bambola guardò lui. Ainwen si domandò se quel discorso fosse preparato, se non fosse lui che, in realtà, cercava di manipolarla. Poggiò le mani in grembo, stringendole una nell’altra per calmare la tensione. Non sarebbe arrivata da nessuna parte a quel modo. Per impedire che i nobili le sfuggissero dalle dita come sabbia avrebbe dovuto ingabbiarli uno per uno come mosche in una ragnatela.
Ugualmente stupidi. Forse più utili. Ma come?
Pensò al denaro che avevano da offrire, alla città annaspante. A tutti i progetti che si fermavano come ingranaggi arrugginiti. Agli altri nobili.
Un sorriso sempre più ampio le si allargò sul volto.
“Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, Conte, la vostra idea non è per nulla male”.
“Dunque seguirete il mio consiglio?”
Lei chinò lievemente il capo, raccogliendo nel frattempo la propria bambola.
“Non io. Loro lo faranno. Ricordate, Luciano Piccardo. Loro seguiranno il vostro consiglio. Il mio ordine. Il vostro nome, ma la mia volontà”.
“Ardita”.
Provò quasi disgusto per il tono con cui lui le si rivolgeva. Sospirò.
“Come preferite. Purchè, quando vi servirò la prossima mossa come uno scudiscio, voi lo usiate per riportare tutti quei pecoroni all’ovile”.
Si alzò, concedendogli un sorriso divertito.
“Abbiamo abbastanza ovini a Ladeca. Li avvisi che la prossima tosatura farò rotolare a terra direttamente le loro teste”.
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L’ospedale emanava un cattivo odore, che le ricordava i giorni della propria malattia. Ogni tanto gemiti spezzavano il silenzio, ma per la maggior parte del tempo era riuscita ad udire solo il rantolo di respiri spezzati. Per quanto gli inservienti si impegnassero, non vedeva alcun segno di speranza tra quelle mura.
Per i malati, per quelli che sarebbero diventati i mutilati, i reietti o i moribondi, non ne esisteva alcuna. Anche lei era stata una di loro, quindi non si faceva alcuna illusione. Si strinse nel mantello scuro, il cui cappuccio le celava completamente il viso. Le mani guantate scivolarono lungo le casse che avevano contenuto materiale medico. Vuote. Coperte da un lieve strato di polvere.
“Desidera?”
Non sapeva chi fosse l’uomo che aveva davanti, con la fronte imperlata di sudore e le mani calzate in guanti di stoffa. Dalla veste bianca che indossava avrebbe potuto essere un medico, ed era questa impressione a bastarle.
“Riferirete a chi comanda qui un messaggio”.
“Signora, questo è un ospedale, qui…”
Si strinse nelle spalle. Essere giunta di persona la esponeva al pericolo di essere riconosciuta. Ma mandare un altro avrebbe significato mettersi nelle mani di quegli imbecilli dei suoi nobili. Non le interessavano le obiezioni di quell’uomo, le interessava di concludere tutto il più in fretta possibile.
“Riferirete che un gruppo di Pari, che vorrebbe per ora restare nell’anonimato, ha ritenuto che questo ospedale sia fondamentale per Ladeca”.
L’altro taceva e lei seppe di aver conquistato la sua attenzione. Sospirò di sollievo: se lui le avesse fatto altre domande o si fosse avvicinato avrebbe dovuto obbligarlo ad obbedirle.
“Data la difficile contingenza economica hanno deciso di stanziare dei fondi per aiutare queste povere anime”.
Storse la bocca, lieta che lui non potesse vederla. Da una tasca interna del mantello estrasse una pergamena arrotolata.
“Qui troverete la cifra e i nomi dei Lord da cui potrete esigerla. Vi prego di consegnarla al vostro responsabile senza leggerla”.
Sogghignò. Certo che l’avrebbe letta, lui e tutti quelli che ne fossero stati capaci. E avrebbero rivestito i nomi dei suoi grassi, tronfi nobili di una patina di pietosa bontà. Li avrebbero elevati sopra gli altri per simpatia e generosità, facendo di loro degli esempi, unendoli sotto un’unica bandiera. Perfino degli idioti come quelli avrebbero guadagnato un po’ di respiro e forse avrebbero imparato qualcosa.
Pensò al conte Piccardo e si chiese che discorso avesse dovuto fare a ciascuno di loro per ottenere quella firma. Sperò che avesse piantato almeno una lama al centro delle loro preziose tavole imbandite, ma ne dubitò.
“Signora, io…”
Il medico prese la pergamena, le loro dita si sfiorarono. Lui si fece avanti.
“Io vi prego di trattenervi il tempo necessario…”
La mano di lui le si strinse attorno al polso. Si domandò perché tutto dovesse essere sempre così complicato.
“Non ho tempo di trattenermi e voi non avete tempo da perdere. Della gente muore qui dentro”.
Si divincolò con un gesto deciso e uscì rapidamente dalla porta. Lungo il corridoio un paziente, con indosso una lunga tunica candida, si dirigeva verso uno dei reparti. Si fermò per un istante, rivolgendo gli occhi di porcellana della bambola verso di lui. Qualcosa in quel volto pallido le era familiare. Aggrottò la fronte.
Ma in fin dei conti non aveva tempo da perdere. Avvolgendosi nel mantello si dileguò nella strada trafficata.