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Fosso dei Lamenti stanza della trinità Tre ore prima
"Il Corpo" "La Mente" "La Psiche"
Teslat fu colto quasi di sorpresa da quella scena. Rimase inabile a qualunque reazione, per diversi istanti. Trasalì di corsa il passaggio, infilandosi per la porta quasi senza pensarci. La ferita gli doleva più del solito ed era costretto a tenersi il torso con una mano, come se fosse necessario tamponare il sangue che gli usciva dal ventre, per rimanere in vita. Ogni sussurro, ogni respiro era un dolore immenso; era una lama che gli trafiggeva il costato, appesantendogli lo sguardo e l'affanno. Anche per quello, non ebbe tempo per rifletterci troppo. Lasciò il suo sorriso finto e spavaldo al di là dell'ultima stanza, tenendo per se soltanto uno sguardo alquanto spaurito e un leggero tremolio del labbro. Con quel tremolio lesse le tre parole, alcune volte. Senza capirle del tutto. Senza capirle davvero.
E con questa inconsapevolezza, fece l'unica scelta che il fato gli aveva destinato. « Il Corpo » sussurrò, perplesso. « Hai visto mai che ci tengano qualche bel... » passò la soglia e le parole quasi gli si strozzarono in gola. « ...giovanotto. »
La stanza era un gigantesco ambiente circolare, che si apriva a mezza luna al di là del muro. Due grosse vetrate dividevano il salone in tre ambienti separati, riservando al "Corpo" l'ambiente centrale, in cui Teslat era entrato. Ma non era questo a preoccuparlo, per certo. Lungo le pareti erano disposte celle di vetro spesso. Alcune parzialmente filate, qualcuna vuota. Le altre, invece, erano piene. Tenevano al loro interno corpi deformi, apparentemente umanoidi ma con cavità e anomalie del fisico che fecero rabbrividire anche il dissacrato e disilluso Teslat, che al dolore credeva di aver già sorriso abbastanza. Ebbe un fremito che gli partì dai piedi e terminò nel petto, lasciandolo andare a un urlo ingoiato di sangue e sudore. Ebbe un conato, nel vedere esseri con tre braccia, due teste o tanti occhi. Alcuni sembravano partorire dal ventre altri esseri uguali, mostruosi. Altri, ancora, erano un misto di carni, tendini e nervi che si riconosceva come "umano" solo da piccoli e impercettibili particolari". Come gli occhi spauriti. Come una mezza bocca incurvata verso il basso. E una lacrima che chiedeva pietà.
« C-cosa d-diavolo » Teslat si tenne il volto, raccogliendo lo sguardo dietro le dita. Era terrorizzato e afflitto da quella che aveva dismesso i panni della prigione mentale, per diventare un lercio e terrificante laboratorio di esperimenti. Ma, ancora, non era nemmeno quello il particolare più terribile. Invero, quei mutanti in linea, esposti come un baraccone degli orrori, avevano tutti un particolare inconfondibile. Capelli posticci, tendenti al rosso. Corpo pressoché esile e sguardo a metà tra l'irriverente e lo spaventato, il più delle volte. Ciascuno di loro era etichettato con un numero e un codice, ben impresso in un foglio di pergamena appiccicato sul fronte del vetro grezzo. Tranne l'ultimo.
Una gabbia, la più grande, risiedeva al termine della stanza. Entro di essa c'era un essere perfetto: due gambe, due braccia e un torso integro. Uno sguardo affranto, che lo fissava con cordoglio. E un'aria disperata che, comunque, non mascherava affatto il più terribile ed evidente dei particolari. Quello stesso particolare che li accomunava tutti, uno a uno. E che aveva fatto gelare il sangue a Teslat. Al sarcastico, omertoso e saccente Teslat. Erano tutte sue copie perfette.
« Sei tornato, fratello. » Quello più in fondo, parlò per primo. L'etichetta recitava: "L'imperfetto numero uno"; eppure, a discapito di quanto scritto, di imperfetto non aveva nulla. Era bellissimo, era cordiale e - a differenza di tutti gli altri - sembrava sinceramente felice di vederlo. « Già già » gli fece eco un altro poco più distante, con un volto parzialmente deformato da un'apertura nel cranio « shei tornato fratellone stronzo..! » « Urgh; che sei tornato a fare » aggiunse un altro ancora, che se ne stava curvo nella sua gabbia, affaticato da una evidente gobba. « Urgh; sei venuto a prenderti gioco di noi? » L'Imperfetto numero uno non parve gradire le parole degli altri. Fece una smorfia di sofferenza col volto e, dopo, poggiò una mano sul vetro, quasi a voler toccare Teslat. « Smettetela » disse, placido. « Non si ricorda nulla; non sa nulla di tutti noi. » Si rabbuiò, fin quasi a piangere. « Non dev'essere affatto facile per lui. » « Oh no no no » disse il secondo, sforzandosi di scuotere il deforme capo. « Non deve essere facile essere prescelti dal padre e poi tornare di propria volontà in questo cesso. » « Bisogna impegnarshi parecchio per essere così deficienti...! » « Uah, uah uah » si scosse l'altro, apparentemente divertito, « non farmi ridere che mi fa male tutto...! » Poi si placò, tornado a fissare Teslat. « Dovrebbero sostituirlo con uno di noi. »
L'imperfetto numero uno guardò Teslat per diversi secondi. « Ascoltami, non è colpa tua. » Gli parlò piano, con sguardo quasi paterno. « Siamo tutti figli del suo ego » ribadì, indicando gli altri, « ci ha creati e ricreati, fino a quando non ne ha ottenuto uno che rispecchiasse davvero la sua forza. » Lo guardò ancora, con sguardo fermo. « Ma è colpa sua, non certo tua. »
Teslat lo fissò, atterrito. Ingoiando l'ennesimo grumo di sangue, altro non poté fare che sciogliersi in un urlo inumano.
La stanza puzzava di odore stantio. Due uomini e una donna si lasciavano andare a un'ammorbante desiderio e sentimento, diametralmente opposto. Eppure, così coinvolgente da dissimulare la realtà. Improvvisamente, infatti, non c'era più la stanza fredda del laboratorio. Non c'erano più gabbie o celle. C'era solo il loro desiderio inconscio di sentire e volere ciò che non sentivano o desideravano più. Il buio attanagliò la mente dei due uomini. La realtà si modificò, lasciandoli inermi dinanzi a un potere troppo grande e diffuso perché fosse da loro contrastabile in qualche modo. I due si sarebbero trovati in una stanza adorna di rosa e luci soffuse, ciascuno solo col proprio dolore. E avrebbe visto l'altro alle prese con la propria donna. Riconoscendosi come vittime di un complotto, avrebbero mirato impotenti le mani bianche delle proprie amate scivolare entro le vesti altrui, abbracciarlo e volerlo con voluttà, fino a prenderlo in quello stesso punto. Fino a farlo suo, con voluttà e sberleffo, mirando gli occhi affranti dell'altro distruggersi in quella sofferenza senza nome che puzzava tanto di tradimento e amenità. Tutto sarebbe parso vero, mentre domante e dubbi avrebbero lasciato il passo a un inerme desiderio di vendetta.
E tutto questo sarebbe parso vero. Reale per gli uomini. Ma non per la donna. Dal suo punto di vista, infatti, la donna avrebbe visto tutt'altro. Dei due uomini avrebbe mirato l'atavica ira montare in rabbia. Dolore negli occhi e nel cuore, che li avrebbe spinti ad un passo dalla lotta. Ma, attorno a loro, nessuna delle loro donne. Soltanto una malia psionica, generata dallo sguardo concentrico degli innumerevoli occhi che li circondavano. E degli occhi avrebbe riconosciuto lo sguardo suadente, il colore violaceo e le lunghe ciglia. Tutto le riportava alla mente la voluttuosa Viluca, figlia di Caino. Tutto e nient'altro.
A parte gli occhi, infatti, le donne erano cavate di decine di mostruosità. Occhi sulle guance e sulla fronte. Ammassi di carne con terzi e quarti arti a riempirne il torso squadrato e affatto sinuoso. Mutazioni che ricordavano soltanto lontanamente ciò che la dama Viluca le era apparsa in passato; mutazioni che ne rivelavano una natura tutt'altro che convenzionale. E, oltre lo spesso vetro che circondava la stanza, avrebbe visto l'intero salone: le altre celle, le altre stanze. Avrebbe visto Teslat urlare a squarciagola dinanzi all' "Imperfetto numero uno" che gli si palesava come il proprio fratello di provetta. L'avrebbe visto e non l'avrebbe udito, in quanto l'urlo sarebbe stato rapito dal vetro che li separava. E, in tutto quello, avrebbe percepito null'altro che l'imprevisto e il dubbio: su come agire, su cosa fare. Se infrangere il pesante vetro e raggiungere Teslat, o lasciarsi andare al buoncuore e salvare due anime innocenti pronte a sfidarsi per un onore mai realmente perduto?
La luce della torcia apparve come un lamento di speranza in un nugolo di empietà. Il buio si diradò per qualche istante, dissipandosi nei contorni sfumati di quell'unico e flebile bagliore. La torcia era, in verità, una lampada a olio, sorretta con perizia e attenzione da una mano tremula e rugosa. Tintinnava alquanto, sotto il peso di un tremore e di una stanchezza angosciante. Era il dottore che la sorreggeva all'altezza del volto. La luce della fiamma risplendeva piano nei suoi occhialetti da lettura, poggiati sul naso adunco. Nel mentre, il volto era contratto dalla stanchezza. Per la corsa; per la fuga. Per la paura. Tirava il fiato più volte, dissimulando con imperizia la stanchezza nel volto paonazzo e poco rilassato. In ogni caso, cercava di ostentare sicurezza. La fissava con alterigia e abbozzava sorrisi finti per non cadere nella trappola di farsi credere troppo preoccupato dagli eventi. Invero, c'era un qualcosa di lascivo in quel suo sguardo saccente. Era come una latente coscienza di sicurezza; come l'addivenuta consapevolezza di aver raggiunto una qualche salvezza. Un qualche punto fermo in quel vortice di disgrazia che si abbatteva sulla sua prigione. In qualche modo, quantomeno ne aveva catturata una.
« Fine della corsa, tesoro. » Mentre digrignava i pochi denti sporchi che facevano capolino oltre il suo malevolo sorriso, la luce si fece più ampia. Il dottore appoggiò la lampada su di un mobile poco distante e ne accese una seconda a pochi passi da se. E una terza, poco distante. In questo modo, ella poté mirare l'inimmaginabile. V'era qualcosa, o qualcuno, in cui il dottore faceva risiedere ogni sua sicurezza. Era una cavalleria inaspettata, che attendeva di salvarlo. O, più pragmaticamente, nell'ennesimo suo prigioniero che s'era venduto ai suoi favori, pur di conservare una maggiore autonomia in quei suoi servigi. « T-ti sarei grato » balbettò, asciugandosi il sudore con una manica del camice « se la riportassi nella sua cella. » Disse, rivolto a qualcuno che non era lei. « Dopo che avrai finito con lei, naturalmente. » Al suo fianco, infatti, c'era una seconda figura. Era seduta si di una sedia lussureggiante; lo scranno aveva fini ricami in oro e intagli preziosi nel legno. Le decorazioni rappresentavano gesta eroiche e di battaglia, richiami ad antichi fasti ormai dimoranti sul legno come quadri di ciò che si vuol rappresentare di se. O di qualunque virtù voglia farsi vanto chi vi si siede. Era alto e ricamato con cuscini in camoscio rosso, ripieni di piume d'oca. Su di esso, il portamento dell'uomo era regale e virtuoso. Altezzoso e quasi snob, a ben guardare. Era un Trono. E quello seduto sopra appariva a tutti gli effetti come un Re. I suoi lineamenti erano aggraziati e smunti. Sembrava debole all'apparenza, con capelli lunghi fino alle spalle e neri come la notte. Un viso fine, incorniciato da due occhi nocciola, grandi, che la squadravano da capo a piedi, in un misto di pietà e distacco. Teneva le mani esili entrambe sui braccioli, aggrappandosi con forza a essi come se temesse di lasciarle andare. E aveva un volto conosciuto. In qualche modo Ririchiyo poteva dire di averlo rivisto tante volte. Nei quadri di un tempo; nelle vetrate di Ladeca o della fu Basiledra. In ogni rappresentazione che parlasse del fasto del passato, o che pragmaticamente ricomponesse i pezzi del tempo fino a dare meriti e colpe a chiunque fosse meritevole delle stesse. E meriti e colpe del passato, spesso e volentieri, risiedevano sempre e solo in un volto e in un nome. Il nome era Ranier. E il volto era quello della persona seduta sul trono. Il Re che non perde mai.
« È solo una bambina » gli rispose, poco dopo. « Perché la tieni qui? » Era solo una copia, probabilmente. E questo fu immediatamente evidente. Non da qualsivoglia differenza fisica, bensì da un mero distacco mentale. Alla copia del fu Re del Bianco Maniero mancavano infinite virtù che avevano reso il vero Rainier una leggenda d'altri tempi. Gli mancava la regalità, la potenza e l'autorità. O, più probabilmente, soltanto il coraggio. Il perché e il per come fosse lì, però, era quantomeno un mistero. A trionfare sul nulla; ad attendere il momento in cui la sua apparenza fosse stata necessaria. Benché quel tempo e quelle ragioni fossero ormai morte e sepolte con coloro che le avevano da sempre attese. Anche perché, a ben guardare, nessuno ci avrebbe mai creduto davvero. « Non sono problemi tuoi » sbottò il dottore, secco. « Fa come ti dico o te ne torni in cella anche tu. » Il dottore fu scontroso e il Re che non perde mai abbassò gli occhi, rivelando la sua codardia. Poi lo vide risalire delle scale laterali e scomparire oltre la soglia del piano superiore. Nel mentre, Ririchiyo notò la terza figura presente nella stanza. Era un costrutto di carne. Un essere di pelle violacea, rosa e rossa, rappezzato alla bene e meglio con punti di sutura e pezzi di stoffa. Grondava sudore e sangue e la fissava con due grossi occhi azzurri, vacui e una bocca senza denti. Non rispondeva alle parole, ma solo alle emozioni; sembrava null'altro che una vaga astrazione di qualsivoglia guardia o schiavo, che si limitava a eseguire qualunque ordine impartitogli. Per il solo scopo di trovare un senso alla sua triste esistenza.
« Ti piace? » Chiese il falso Ray, con aria quasi amichevole. « L'ho chiamato Chevalier » « Il mio personalissimo Chevalier » Chiunque poteva sapere di Chevalier. Padre di Rainier, costrutto e suo cavaliere. Schiavo, protettore; essere vincolato al suo destino da una catena indissolubile. Ma, sopratutto, un guerriero dall'inaudita potenza, che nessuno aveva mai avuto nemmeno possibilità di sopraffare. Nonostante ciò, quella creatura non ne era nemmeno una copia. Era solo un ammasso di carne a caso, assemblato per servire il falso Ray e ottemperare i suoi bisogni di vita e complicità. Per farlo sentire regale, superando le amenità che quelle quattro mura gli imponevano ogni giorno. « Ti darò una possibilità, comunque » disse, secco. « È cavalleria, negli scacchi, concedere all'avversario più debole la prima mossa. » Sorrise, subdolo. « Per questo farò altrettanto: ti concederò la prima mossa. » La indicò, fermo. « Agisci, bambina » aggiunse, sicuro. « Non importa quello che farai: parla, attacca, piangi, corri. » « Non importa davvero » asserì, divertito. « Fai semplicemente la tua mossa e convincimi che non meriti di tornare in quella cella. » Sorrise ancora, subdolo. « Se sarai abbastanza scaltra, ti lascerò andare. »
CITAZIONE QM Point. Alla scena che apre il post, assiste in verità la sola Ainwen. Gli altri due, infatti, vengono rapiti da una malia psionica che li impone a credere che l'altro stia avendo un rapporto d'amore con la propria amata. Per meglio dire, ciascuno dei due "uomini" riconosce la propria amata (vi lascio libertà d'interpretazione in questo) che avvolge il suo corpo sul proprio "sfidante" e si appresta a "intrattenerlo". La cosa vi vale come una tecnica psionica di potenza Alta che infligge voi due singolarmente, istigandovi a "sfidarvi". Per converso, la malia non affligge Ainwen (anche perché non incrocia direttamente gli sguardi delle ammaliatrici) che vede la realtà per quella che è: siete, di fatto, nella stanza in cui sono stati creati "Dulwig", "Viluca" e "Teslat" (nel caso specifico, Erein e Fray sono preda delle malie delle "copie di Viluca"). Ainwen può decidere, dunque, se provare a interrompere le malie delle varie Viluca (agendo come meglio crede), o infrangere il muro che la separa da Teslat e raggiungere questo. Oppure di fare entrambe le cose; in ogni caso "l'effetto" del suo agire, lo stabilirò io al prossimo turno.
Malz e Snek, invece, dovranno difendersi dalla malia autonomamente, oppure attaccare l'altro al meglio delle proprie forze. Se Anna riuscisse a interrompere la malia in questo turno, nel prossimo comunque l'effetto si interromperà. Diversamente, questo potrebbe continuare per coloro che non si sono liberati.
Circa Ririchiyo. La scena credo sia chiara: quello che ti trovi dinanzi non è nient'altro che una copia del leggendario Re che non perde mai. Non sai perché ne sia presente una qui, ma puoi fare tutte le considerazioni che preferisci. In merito, puoi prendere spunto da infiniti frammenti di ambientazione presenti sulla piattaforma. Rainier è il Re che non perde mai, che un tempo regnava sul dortan (quando ancora non si chiamava Dortan, lol) e che scomparve con la guerra del crepuscolo. Egli è anche il "profeta", il primo che aderì alla religione del Sovrano poi diffusa dai Corvi. Chevalier, invece, era il suo golem personale, dalla potenza inaudita. Quel costrutto che ti trovi dinanzi non è una copia del vero Chevalier, naturalmente. È solo un ammasso di carne che il falso Ray chiama Chevalier, per sentirsi più vicino al "vero" Rainier. Comunque, egli ti concede una prima mossa. Il tuo scopo è fuggire, presumibilmente da dove è fuggito il dottore (una scala alle spalle del falso Rainier). Agisci come meglio credi, direttamente nel post. Puoi pormi domande in confronto, se preferisci. Ma l'azione definitiva la farai nel tuo prossimo post.
Tempi: diciamo una settimana, fino a sabato prossimo massimo. Questo per scusarmi del mio ritardo.
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