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Neve, Contest Agosto 2016 - Famiglia

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view post Posted on 29/8/2016, 17:25
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Bigòl
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Neve
Contest Agosto 2016 - Famiglia


Rannicchiati sulla carcassa di un albero caduto, il vecchio ed il cane guardavano le montagne. La nebbia si allungava sulle creste, scivolava veloce tra i pini attorno. L’uomo osservava il galoppare delle nuvole dondolando il capo con disincanto, gli occhi gonfi, le mani avvinte alle ginocchia; ancora una volta il cielo magnanimo calerà un sudario sul cordoglio dei viventi, recitò a memoria dentro di sé, senza convinzione. La bestia slungava il muso ed uggiolava piano, il corpo folto di pelo nero acciambellato sul tronco morto; ancora una volta il vecchio rudere non si deciderà a muoversi sino a che non si sarà buscato qualche malanno, previde dentro di sé, senza parole per esprimersi. Sia il vecchio sia il cane fiutavano odore di neve. Nuvole basse, gonfie di tempesta si riversavano nelle valli lontane. Il vecchio amava la radura, il silenzio che si dilatava sino al firmamento e l’ombra distesa sul ciglio del bosco; quando il tempo si faceva aspro come allora, sentiva affiorare più forte in petto l’attrazione verso quel luogo, il tronco spezzato e le montagne coperte ed il cielo sfumato di grigio. Il cane per conto suo se ne sarebbe stato volentieri disteso al calduccio, ma chissà in quali guai sarebbe andato a cacciarsi l’uomo se nessuno avesse vegliato su di lui. Dacché la grossa bestia nera avesse memoria, nessuno si era mai preso cura del vecchio. Una stanza, un letto, un fiasco impolverato, un paiolo gorgogliante con dentro poco niente; parole affogate nel vino e grandi silenzi; un guscio elegante e consumato, ecco quel vecchio frusto accanto a cui aveva scelto terminare i suoi giorni. Era un uomo finito, per sua stessa ammissione. La mattina la passava ad osservare le cornacchie raspare la terra in cerca di semi e larve d’insetto per poi alzarsi in volo, circonfuse di fumo. Dopo aver messo qualcosa sotto i denti, imbracciava un’ascia consumata come le sue ossa e si inoltrava nel bosco; tornava accompagnato dal buio, chino sotto fascine di legna giovane che poi posava a stagionare lungo le pareti di casa. La sera accendeva il fuoco, versava il vino e se ne stava a guardare la legna sprizzare lapilli con gli occhi liquidi e tristi sino a che il sonno non gli si insinuava dentro. Quando le torride dita del liquore gli stringevano la testa improvvisava una danza. Ballava senza musica né seguito. Lo osservava volteggiare insieme alla polvere, le mani protese come a voler stringere a sé una presenza impalpabile che fluttuava nella stanza, un refolo di vento; come se la donna scomparsa che gli aveva segnato l’anima fosse sempre rimasta al suo seguito, pronta per un ultimo giro di valzer. Il povero bastardo se la rideva un po’, piroettava un altro po’, poi iniziava a farfugliare sottovoce, gli occhi foschi e velati. Il suono della sua voce giungeva al cane come uno spento guaito. Sulle colpe che opprimevano il cuore del vecchio il cane aveva presto smesso di interrogarsi; in fondo non erano faccende che competessero ad un animale domestico. Accompagnava la danza dell’uomo con un basso ululato, senza interferire nella sua richiesta di assoluzione ad orecchie ormai troppo lontane per potergli dare ascolto. Quando il vecchio cadeva stremato sull’assito lui gli si avvolgeva accanto, premendogli contro la coltre di pelo nero. Condivideva la vita dell’uomo da più di una decina di anni, eppure faticava ancora a capire cosa gli passasse per la testa. Quando i suoi consimili si ritrovavano soli, abbandonati dal branco, passavano il tempo a loro rimasto cercando un buco nella terra dove lasciarsi morire. Comprendevano all’istante che abbandonare la famiglia a cui si apparteneva voleva dire rinunciare al proprio posto nel mondo. Tradire o essere traditi, allontanarsi o essere allontanato, un cane senza branco non aveva alcun futuro. La vicinanza al vecchio aveva mostrato al cane lo scorcio di una realtà diversa, di cui spesso non si capacitava. Un uomo senza più nulla non avrebbe mai rinunciato a considerarsi un uomo. Portagli via la terra; egli ne soffrirà per un certo tempo, poi corrugherà la fronte, serrerà le braccia e si farà nomade. Portagli via il cibo; egli ne soffrirà per un periodo, poi lo stomaco gli dorrà tanto che ucciderà i suoi simili per un tozzo di pane. Portagli via la dignità; egli nemmeno ne soffrirà. Escludilo dal suo branco; egli ne patirà tanto da desiderare che i rapaci gli mangino le viscere. Allora sarai vicino alla sua distruzione: gli avrai svuotato lo sguardo della luce, piegato l’anima come un tralcio di vimini, ridotto in cenere le speranze. Un cane, o una qualsiasi bestia con un pizzico di sale in zucca, giunto a quel punto avrebbe già mollato la presa. Eppure gli uomini parevano non necessitare di un’anima per continuare a vivere. Ci si sente più leggeri senza niente dentro. Il vecchio lo ripeteva spesso; rideva ogni volta che gli toccava ripercorrere quelle parole. Un ghigno amaro e stanco.

L’uomo distolse lo sguardo dalla macchia di pini che si allargava davanti alla radura; si accorse che il cane si era alzato sulle zampe davanti e lo fissava ad orecchie basse. Passò la mano ruvida lungo il fianco della bestia, salendo sino alla collottola. A volte sembrava che quel paio di occhi volessero passarti attraverso. A volte sembrava che lui fosse in grado di fiutare la natura dei tuoi pensieri. L’uomo sorrise, premendo la mano sul dorso del cane per sentirne il respiro. Anche se sapeva che la memoria di un vecchio era una grossa giara piena di crepe, credeva sarebbe stato difficile dimenticare il loro primo incontro. Era un grumo di carne sanguinolenta riverso su una stuoia di muschio. Le dita del vecchio si mossero per istinto a cercare le lunghe cicatrici sotto la peluria del garrese. Il petto si alzava ed abbassava senza rumore, composto nella morte. Una bestia poderosa dal manto fradicio di sangue. Denti smussati dalla lotta, cranio massiccio, muso schiacciato. Occhi grandi e buoni. Ad una prima occhiata, considerando le sue dimensioni e l’entità delle ferite che gli erano state inferte, aveva stabilito dovesse trattarsi di un capobranco randagio, spodestato da un paio di esemplari più giovani con il fuoco nel ventre ed un demone nei testicoli. Condividiamo lo stesso destino, bastardo; bestie moribonde, abbandonate a se stesse, che non vedono l’ora di lasciarsi andare. Vediamo cosa si può fare per te. Se ti toccherà la malaugurata sorte di rimanere in vita, i nostri destini resteranno allacciati stretti. Lo sai questo? Si era trovato a pensare. Il cane già lo sapeva. In un primo momento si era tenuto a distanza: a quell’esemplare sarebbe bastato un guizzo di artigli per portargli via metà faccia. Aveva atteso che le forze lo abbandonassero del tutto prima di caricarsi il suo corpo gigantesco in spalla, come un grosso fascio di strami. Aveva pulito le ferite infette, eliminato i lembi di pelle tumefatta, ricucito e fasciato quanto era in suo potere. Se gli avessero detto che una bestia ridotta in quello stato potesse sopravvivere, non vi avrebbe dato credito; se poi avessero aggiunto che una volta in grado di reggersi sulle zampe non l’avrebbe più abbandonato, allora sarebbe scoppiato a ridere. Poteva una bestia senza padroni rattoppare il cuore sdrucito di un vecchio?

Infine si mise a nevicare; larghi fiocchi di neve fradicia. Nevicava sui picchi screziati di nembi neri. Nevicava lungo i crinali azzurri e nelle valli lontane. Nevicava sul limitare del bosco nella radura dell’albero secco, sui due cumuli di terra smossa dove in primavera l’erba cresceva di un verde più profondo, all’ombra dei pini. Il cane riusciva ancora a sentire l’olezzo grasso della morte promanare dai tumuli. Il vecchio non sentiva più nulla: erano passati troppi anni perché i sensi potessero riconoscere la sua carne ed il suo sangue impastati in quella terra. Il cane sapeva che i corpicini sepolti laggiù erano tutto ciò che rimaneva del branco del vecchio; non avevano mai conosciuto altro che la terra umida e buia. Il vecchio era un uomo finito, per sua stessa ammissione. La vita gli era scivolata via dal petto un pezzo alla volta ed ora la sentiva pulsare tutt’attorno, nella radura, nel velo di neve che si stendeva sul bosco, nelle ossa e nel sangue inumati nel profondo del suolo. Stava vivo per inerzia, recitando preghiere perdute e conversando a mezza voce con la femmina che aveva perso per sempre. Se il cane aveva in parte compreso cosa fosse un uomo lo doveva al vecchio ed a nessun altro. Fiocchi leggeri che fluttuano nell’aria; generati soli, nel loro tragitto si aggregano sino a formare intrichi fragili e maestosi. Il destino voleva si separassero prima di raggiungere il bianco manto convulso che si allargava sul suolo. Durava un istante, tempo di precipitare dal cielo. Eppure non esisteva nulla di più bello al mondo.

Rannicchiati sulla carcassa di un albero caduto, il vecchio ed il cane guardavano la neve.

Per prima cosa, urge premettere che Jovil, il mio personaggio, non è il protagonista dell'elaborato, tuttavia risulta ad egli collegato per vie traverse: lo scritto è il primo di una serie di capitoli che intendono gettare luce sui trascorsi e sull'avvenire di Jovil e della sua sfera familiare. Il tema della "famiglia" all'interno del contest è presente sotto due forme compresenti: la abbandono della famiglia biologica, lo sfaldarsi del gruppo relazionare in cui si oggettiva il bisogno di affetto primario dell'uomo ed in certa misura lo sagoma come tale e la capacitá di ogni essere vivente di riconoscere empaticamente i propri consimili "spirituali"(Dio, spero si capisca qualcosa) a prescindere dall'etnia o persino dalla razza biologica
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Edited by Farka. - 31/8/2016, 00:07
 
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