Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Il lascito degli Dèi ~ inno all'oscurità

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view post Posted on 27/12/2019, 14:01
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And...bla..Bla..BLA
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Lasciate qui le vostre armi e i ricordi a voi più cari.
Abbandonate nome e sangue,
dimenticando chi eravate.
Nulla di tutto ciò vi servirà dove state andando,
perché è nell'eternità che risiede la vostra nuova casa.


Antica iscrizione Sorya




Dormiva ancora, la terra insonne. Dopo lunghe veglie da incubo dove sogno e realtà erano parsi andare a braccetto in quei luoghi immoti, ecco che finalmente all'Edhel era stato concesso di sopirsi, sprofondando come un vecchio stanco nel proprio giaciglio di gelo. Non si trattava di un riposo tranquillo. Un cupo gorgoglio si agitava nei suoi visceri, instancabile rimescolarsi di un male inquieto, frenetico, rivoltante. Un sussulto costante che come il battito oscuro dell'ombra rimbombava in quel clima di attesa.
Neve color cenere cadeva dal cielo, oscurando la vista con una patina fitta e invalicabile.
Antiche leggende raccontavano che l'Edhel non fosse sempre stato così; che anticamente la sua bellezza e mitezza fossero tali da ricordare il paradiso più grazioso e perfetto che Theras avesse mai avuto. Privo di mali e turbamenti. Governato da elfi luminosi e Corti verdeggianti, abbarbicate su alberi secolari come nidi di uccelli multicolori. L'animo dei suoi abitanti, mite come il clima, era docile e pronto alla meraviglia. Poi però qualcosa era cambiato e mai più era tornato a essere ciò che era stato. Un paradiso perduto. L'ultimo, su Theras, per cui sarebbe valsa la pena combattere.
E allora perché ostinarsi? Perché giungere fin lì, emblema di ciò che corrotto, mai più tornerà, e combattere per una terra destinata a fare la stessa fine?
Il gelo verrà,
e con esso la morte.

Questo era stato scritto.
La Sfinge l'aveva visto; Eitinel l'aveva predetto.
E ogni abitante di Theras, in fondo al cuore, lo sapeva.
Valeva dunque la pena lottare, per impedire a ciò che già era perduto, di perire?


Furono i primi ad arrivare, la Gelida e il Savio. Nel nulla della tormenta, due figure spettrali, appena distinguibili. Inumane per certi versi, eppure le più vive che da tempo calcassero quei territori spogli. Samarbethe non era cambiata, eppure come non intravederli, i sottili segni dell'imminente distruzione? I fili invisibili del destino si tendevano nella piana deserta, ondeggiando in quella eterna tormenta come ragnatele scintillanti e indistricabili, tese dalla terra all'infinito nel disegnare un arazzo colmo di minaccia.
Non osate
Intimava
Avanzare oltre.


«Ricordi la sua voce?»
sussurrò Kjed, lo sguardo bianco rivolto al cielo. Fra le sue ciglia, i cristalli di neve formavano già una sottile corona di ghiaccio.
La Dama Bianca
«Ricordo la sua forza.»
Rispose Ogron facendosi vicino e stringendola a se come per difenderla dal freddo. Che sciocco gesto, per loro.
Il Re che non perde mai.
Eppure sono tramontati, gli astri del passato. Il tempo li ha divorati, prendendo per sé tutto ciò che rimaneva e lasciando al loro posto sabbia e cenere; cenere e neve. Oltre all'abisso.
«Se fossero qui, tutto sarebbe diverso.»
obiettò la Gelida con un sospiro.
«Infatti,» ammise il Savio. «è contro di loro che staremmo per combattere, in un secondo Crepuscolo dell'umanità.»
«Forse ci avrebbero aiutato.»
«O forse no.» scrollata di spalle. «Tutto ciò che è rimasto di buono su Theras è qui, Kjed, non nel passato che ci siamo lasciati alle spalle.»
E sta arrivando.
Per un attimo la Gelida non disse niente, qualcosa di nostalgico ad attraversarle il volto nell'ombra di un'umanità che ella non avrebbe dovuto possedere. Pareva triste o allo stesso tempo, affranta. Poi scosse il capo, un sentimento diverso a rabbrividirle negli occhi.
«Con questa neve, non troveranno mai la strada.» constatò. «Finiranno per perdersi, e allora tutto sarà stato vano.»
Ogni sforzo, ogni rinuncia, ogni goccia di sangue che già era stata versata ancor prima dell'inizio della grande battaglia, l'ultima prima del grande Oblio.
«Strana constatazione per te, Kjed.» commentò Ogron accennano un sorriso. «Avrei giurato che in realtà tutto ciò non ti importasse davvero. O sbaglio?»
Il gelo negli occhi di lei si intensificò.
«Ed è così, infatti. L'unica possibilità che hanno quei pazzi di vincere è che sia lo stesso Kishin ad arrendersi, consegnando le armi e lasciandosi ammazzare senza opporre resistenza.»
«Decisamente improbabile, a giudicare da ciò che percepisco qui.»
Dinanzi a loro, le ragnatele parvero scintillare al vento, riflettendo il grigiore spettrale della neve in un intrigo caleidoscopico.

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Vi fu allora silenzio. Poi Ogron sospirò.
«Mi mancherai, Kjed.»
«Tu no, vecchio.» fece lei, fredda come l'inverno. «Perché so che presto ci rivedremo dall'altra parte.»
Laddove tutti i sogni affiorano e svaniscono, come flutti di un mare madreperla.
Così Kjed chiuse gli occhi, e fu così che la neve cessò d'improvviso di cadere, portando via con sé ogni grigio e oscurità di quella piana infinita, bianca e spettrale come le vesti di una sposa. Illibata, Samarbethe pareva ora fare meno paura nell'affiorare di uno scuro sole all'orizzonte, rosso come il sangue.
Era la luna o l'astro rovente?
Il suo calore, distante, pareva troppo fioco per raggiungere quei luoghi, accontentandosi così di proiettare su di essi lunghe dita nodose, parentesi oblunga di figure che da molto lontano, lontanissimo in realtà, giungevano ora oltre il Crepuscolo.
Ogron le studiò, cogliendo in esse il calore del deserto, la frescura delle foreste e la solidità di grandi e antiche costruzioni in pietra. In loro, la grandezza degli eserciti, la vastità di un popolo che mai prima di allora e forse mai più, aveva trovato la forza di riunirsi e marciare incontro alla tormenta.
Ora la bufera era passata, così sotto di essa era più facile percepire il rintocco basso di un cuore.

Tum
Tum
...
Tum
Sono qui.
Venite a prendermi.


Ogron vide per un attimo tutto ciò.
Il cielo. La neve. Le figure all'orizzonte e gli astri così bassi sul profilo di Theras da parere quasi volersi unire a essa.
E chiuse gli occhi.
Presto sarebbe giunto anche il suo tempo. Il tempo del Tempo, che come ogni cosa, giunge anch'esso alla fine. E quando anche lui sarebbe spirato, quando l'ultima lancetta avrebbe finalmente rintoccato l'ultimo battito, allora ogni cosa sarebbe giunta finalmente a compimento.

Venatrix l'Antico, ultimo delle grandi leggende.
Jahrir il Coraggioso, essenza stessa della perseveranza.
E la Sfinge, Entità senza tempo capace di scorgere il futuro, ma non la sua risoluzione.


Li vide lontani, dipinti a fuoco in quel miraggio di luci e ombre, e augurò loro, per l'ultima volta, buona fortuna.


QM Point.

Un solo esercito, guidato fondamentalmente da Jevanni e dalla Sfinge, si spinge verso Samarbethe per addentrarsi nei labirinti del Baathos. Dell'esercito fanno parte anche le delegazioni del
Dortan (sotto il comando di Dalys) e dell'Akeran (sotto il comando di Jahrir e Venatrix). Il vostro compito, in questo primo post, è quello di descrivere l'arrivo in Samarbethe e la discesa in Baathos. Tale passo però porta i vostri personaggi a scontrarsi con la loro più grande paura (sotto forma di sogno, di visione, di illusione o qualsiasi modalità preferiate), una battaglia interna che impedisce, in caso di sconfitta, di accedere a un luogo così malsano.
Avete dieci giorni di tempo, quindi fino al 14 Gennaio alle ore 12:00.


Edited by Räv - 4/1/2020, 14:17
 
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view post Posted on 19/1/2020, 14:56
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Like a paper airplane


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See the sun set
The day is ending
Let that yawn out
There's no pretending

I will hold you
And protect you
So let love warm you
Till the morning


Per quanto avevano marciato? Non avrebbe saputo dirlo.
Quando erano partiti i soldati cantavano, qualcuno utilizzava strumenti improvvisati, inneggiavano alla propria terra e alla propria donna che aspettava. Erano spavaldi e sicuri di sé, con le armi scintillanti e gli scudi con il nuovo stemma dipinto di fresco. Giravano la testa per guardare i loro condottieri, la Rosa e l’Angelo.
Quando erano partiti loro due erano gloriosi, una promessa. Lei indossava un mantello intessuto di fili d’oro e lui una corona d’argento, di tanto in tanto si guardavano negli occhi e sorridevano. Lei non poteva fare a meno di snocciolare battute sagaci e al tramonto si lanciava al galoppo al fianco delle truppe, lasciando che le dita del sole le sciogliessero in lacrime insanguinate i lunghi capelli neri. Feroci, giuravano a quegli uomini che non si sarebbero arresi e non avrebbero perso, che avrebbero salvato il mondo da qualsiasi minaccia.
Quando erano partiti il sole era alto quanto il morale. C’erano luce, terre rigogliose, applausi dei villici che incontravano per caso.
Che ora del giorno era? Non avrebbe saputo dirlo.
Nel luogo in cui si trovavano non c’erano giorno e notte ma solo una coltre cinerea, una coperta di metallo che nascondeva il sole e il cielo. Per ore, forse giorni, avevano camminato su un terreno estraneo più di ogni altro, indurito da un gelo che pareva provenire dal cuore stesso della terra. Un vento tagliente spazzava le caviglie innervosiva i cavalli, perfino la lucentezza delle armature pareva diventare opaca. Avevano iniziato a consumare le razioni in silenzio e lei aveva smesso di spogliarsi per fare il bagno a fine giornata. La notte si abbracciava a Zephyr, cercando di scacciare con il calore del suo corpo quel peso opprimente che la schiacciava a terra, la sensazione di essere sull’orlo di un precipizio e non poter fare a meno di sporgersi.
Sapeva che avrebbero dovuto scendere nel Baathos, nella terra sotto ogni terra, che l’ingresso non sarebbe stato facile, ma cercava di non pensarci. Carezzava i volti dei guerrieri più giovani, ascoltava la narrazione delle loro poche, acerbe gesta, tentava di sorridere.
Poi era comparsa la neve. Prima sottile, una spruzzata di zucchero sul terreno ostile, in breve sempre più fonda, una coltre liscia come cristalli di vetro, friabile, che faceva affondare i passi già stanchi e mozzava il respiro. Si insinuava negli stivali, rendeva i piedi fradici e intirizziti. Lei, che era il fuoco, aveva cercato di sciogliere quel cuore di ghiaccio, di aprire un passaggio, ma neppure le sue mani bollenti riuscivano a sciogliere totalmente quell’inverno.
Gli uomini gemevano di dolore quando si spogliavano per dormire, avevano iniziato a litigare per prendere il fondo della scodella di zuppa, non portavano più i pesanti elmi che per il freddo strappavano la pelle dalle guance. Lei si stringeva il viso tra le mani e cercava di evitare tutti gli sguardi, chiedendosi se quel viaggio avrebbe mai avuto fine o se, come nelle leggende, si sarebbero limitati a vagare in eterno ai confini del mondo fino a che non fossero tutti morti.
Da quando era sveglia? Come aveva dormito? Non era certa di ricordarlo.
Si volse verso l’angelo. Il suo volto era pallido, segnato dalla stanchezza. Allungo una mano verso di lui, le dita tremanti. Aprì la bocca per rivolgergli una domanda, una qualsiasi pur di spezzare quel silenzio. Una tremenda emicrania le mozzò le parole, colpendola in mezzo alla fronte come un pugno. Massaggiandosi la sella del naso prese fiato, chiuse gli occhi.
Solo pochi secondi.
Solo pochi secondi?

Sbattè le palpebre, incredula. Attorno a lei non c’era più nessuno, nulla. Solo la neve, intonsa, fino a che il suo sguardo riusciva a spingersi. Una nebbiolina brumosa si frapponeva davanti all’orizzonte. Tutto il suo esercito, i suoi uomini, i suoi cavalli, il suo promesso sposo, erano svaniti nel tempo di un respiro.
Così poco? Davvero?
Non può essere vero.
Chiuse gli occhi, strofinò le palpebre. Il cavallo scalpitava nervoso sotto di lei. Ancora niente. Il vento le fischiò nelle orecchie, minaccioso, simile al grido di voci disperate. Non ricordava della notte precedente, dei giorni che erano passati, di tutte le soste e delle partenze. Tutto pareva più confuso.
Possibile che se ne fossero andati lasciandola in quel luogo, a massaggiarsi la testa? Possibile non se ne fossero accorti?
O peggio.
Possibile che qualcosa li avesse
Non osò formulare quell’ipotesi. Le braccia le caddero lungo i fianchi, mentre tutto il suo corpo iniziava a tremare violentemente.


Sono andati”.


La voce proveniva da un punto indistinto alla sua destra. Girò il capo lentamente, il più lentamente possibile, così lentamente da provare dolore. Sapeva a chi apparteneva, ma non era possibile. Era sbagliato come solo poche cose nell’intera esistenza possono esserlo. Le sue iridi si offuscarono mentre cercava di rifiutarsi di guardarlo negli occhi, neri, quasi a mandorla.

Ray”.


<p align="justify">Pronunciò il suo nome sottovoce, flebile, quasi che farlo lo portasse più vicino a lei. Le parve una beffa del destino che in quel luogo deserto, dove non riusciva a trovare nessuno, lui avesse trovato lei, proprio lui. Non lo chiamò sovrano, non in quel momento in cui nessuno poteva sentirli.


Sono scomparsi. Tutti quanti. Il nemico ha vinto, ma tu eri troppo impegnata per accorgertene.
Il mondo è stato spazzato via. Ed è tornato – ti ricorda niente mh? – e sei rimasta solamente tu
”.


Lei scese da cavallo. Il suo corpo tremava visibilmente, non riusciva nemmeno a stringere le mani a pugno, le labbra non articolarono altro se non un gemito di sconforto. Lui le stava mentendo, doveva essere così, dopo tutto era il re degli inganni. Era riuscito a sopravvivere ed era venuto a farle un brutto scherzo, la giusta paga per avergli voltato le spalle e aver desiderato il potere che sarebbe dovuto spettare a lui.
Le camminava incontro, con quell’andatura inesorabile che lo contraddistingueva, con una maschera inespressiva in una mano.


Non ti rallegri? Hai perso, ma hai anche vinto. Sei viva, come sempre”.


Cadde in ginocchio. Se fosse stato vero, se quel nemico fosse stato capace di vincere la guerra nel tempo in cui lei aveva chiuso il gli occhi, perché non l’aveva portata via insieme a tutti gli altri? Aveva veramente senso sopravvivere ancora, sopravvivere alla figlia che non aveva mai avuto, ai suoi amori, ai suoi amanti, agli uomini che aveva voluto guidare e aveva giurato di proteggere? Aveva senso restare l’ultima, senza più nulla del mondo che le era appartenuto, senza nessuno con cui fingersi capace di cavarsela da sola? Affondò le mani bollenti nella neve, mentre le sue lacrime fumanti si spegnevano a terra.


Hai passato tutta la tua vita a fuggire. Non sei felice di aver finalmente raggiunto la meta?


Negli anni aveva temuto e vinto molti nemici: la morte, la guerra, i traditori, l’amore. Una sola cosa non sarebbe mai stata capace di battere: la solitudine. Sola, come nella casa di suo padre quando tutti erano morti. Sola, nella sala del trono rimbombante dopo aver scoperto tutta la verità. Sola, dopo aver chiuso le porte di una città all’unico alleato che avesse mai avuto. Sola, in una tomba di legno senza essere riuscita a salvare chi aveva voluto proteggerla. Sola, in quel mondo vuoto, senza nemmeno un sarcofago su cui poggiare il proprio dolore.
O forse non aveva davvero vinto, forse era solo rimasta distante da tutto, se lo era lasciato alle spalle, come una porta che si chiude, per non affezionarsi davvero a nulla e a nessuno, per non doverli più perdere. Perché tutto quello che toccava pareva esserle tolto da un destino egoista. E quando finalmente aveva scelto di fermarsi, di lasciarsi sfiorare da qualcosa


Non può essere vero. Tu sei morto, loro devono essere qui”.


Era stata una delle sue ombre, conosceva l’odore della sua presenza, come il sapore salmastro del mare sulla lingua, sapore di gloria e timore, di acciaio tra i denti, di segreti celati a stento. Si era lasciata dominare, per poi sfuggirgli. Anche da lui, inseguendo il desiderio di vincere su se stessa, il desiderio di non essere sola.
Ora era in piedi davanti a lei, poteva vedere i suoi piedi sprofondare appena nella neve, come se fosse più leggero dell’aria. Sentì il peso della sua mano sulla testa, una mano fredda e inesorabile, sentì le sue dita che le stringevano i capelli.


Non siamo morti, io e te. Siamo rimasti. Per sempre. Non hai mai voluto amare, non hai mai stretto legami. Questo è il tuo premio”.


Ora piangeva così violentemente che gli occhi le si appannavano. Aveva rovinato tutto, anche quell’esercito che si era presa la responsabilità di guidare, anche l’angelo che aveva scelto di starle accanto. Con la sua superbia ostentata, con quella vita sopra le righe, aveva gettato uomini e donne del mondo, il solo mondo che avesse, nel baratro. Le era stato donato dell’oro e l’aveva trasformato in cenere per fingere che non le importasse. E ora, in quel momento, quando era troppo tardi, scopriva di aver sbagliato.
Come era successo con suo padre, quando il suo corpo era ormai freddo. Come era successo con gli uomini che aveva amato, dopo che li aveva stretti esanimi tra le braccia, dopo che aveva sacrificato se stessa per loro. Come era accaduto per la figlia che aveva rimpianto solo dopo averla perduta. Si strinse la vita con le braccia, cercando di sorreggersi.
no…
No
NO!
Si alzò in piedi di scatto, afferrandogli il polso. Gli occhi umidi le bruciavano, riusciva a vederlo a stento. Era solo una macchia scura che non reagiva alla sua presa.


Se questa è l’eternità, io non la voglio. Se il nemico ha vinto, se lo ha fatto perché io - PERCHE’ NOI – non abbiamo difeso chi aveva riposto fiducia in noi, allora l’immortalità non mi interessa. Siamo fuggiti per troppo tempo, io e te. Abbiamo rinunciato per troppo tempo al nostro posto. E non perché siamo più grandi”.
Un sorriso sprezzante le si dipinse sulle labbra livide, mentre lo tirava verso di sé.
Non perché eravamo migliori, più forti, più a m a b i l i, ma perché ne avevamo paura. Eravamo sciocchi, superbi. Quindi se tutti sono morti per noi, è ora che onoriamo il loro sacrificio”.


Il suo corpo avvampò a partire dai piedi, una scarica di fiamme che vaporizzò la neve in una nuvola di fumo. Dentro e fuori di lei, ogni centimetro di pelle e di capelli.


Mi pare giusto che lo facciamo insieme, non mi sentirò sola almeno mentre me ne andrò. Addio, Ray, mio Sovrano”.


Sentì il fuoco bruciarle la pelle, quel fuoco che finalmente aveva liberato, polverizzare le sue lacrime, ardere le sue paure. Si sentì finalmente libera di librarsi verso l’alto, senza più avere nulla a trattenerla, finalmente. Chiuse gli occhi.

Aprì gli occhi, il pugno era ancora davanti alle palpebre, dove lo aveva lasciato per strofinarli.
Accanto a lei, Zephyr stava allungando una mano per sorreggerla. Si accorse di essersi sbilanciata. Il vento gelido le urlava in faccia il canto dell’inverno.
I soldati non cantavano, ma molti avevano la bocca spalancata. Davanti a loro la terra si era sollevata, come le fauci spalancate di una creatura, e una scalinata sgrezzata nella roccia gelata conduceva verso il basso.
Si accorse di piangere, senza riuscire a controllarsi, e non perché finalmente il loro viaggio nella neve era terminato, ma perché loro, tutti quanti, erano ancora lì. Si guardò la mano destra, arrossata dal fuoco che non era mai esistito, e tra sé si concesse un sorriso inspiegabile per chiunque altro.


I'll stay with you
By your side
Close your tired eyes
I'll wait and soon
I'll see your smile
In our dream

Feel the wind rise
A dawn we're bound to
Watch that star die
Eons without you




CITAZIONE
Brevissima spiegazione del post: nel mezzo del viaggio alla ricerca dell'ingresso del Baathos, Dalys affronta d'improvviso la su apaura più grande: quella di restare completamente sola, e perdere tutto ciò a cui tenga. La paura è incarnata dalla figura di Ray, che le dice che il nemico ha vinto e sono rimasti soltanto loro nell'intero mondo. Solo una volta che Dalys accetta la propria paura e, anzichè fuggire e fingere che non le interessino i legami con altri, decide di sacrificarsi per coloro che sono già morti, l'illusione scompare e al suo posto restano le porte aperte di Baathos.

 
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view post Posted on 19/1/2020, 23:39
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Darth Side
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Quel viaggio era stata la cosa più bella che gli era capitata da anni.
Avevano guidato l'esercito, cavalcando in testa ai soldati come generali indiscussi, l'uno a fianco all'altra, trascorrendo giornate tra sorrisi e sguardi lieti, dimenticando i propri timori e allontanando le proprie incertezze. Giorni pacifici, una tiepida vacanza dalle difficoltà con la quale la vita li aveva spesso vessati e derisi.
E Zephyr avrebbe voluto che quel loro viaggio verso la fine del mondo potesse non aver mai termine. Fosse stato per lui sarebbe andato avanti in eterno, attraversando montagne e praterie, boschi e città, facendo il giro del mondo per poi, una volta tornati al punto di partenza, ricominciare da capo.
Forse alcuni nobili lo digrignavano astiosamente i denti per la posizione di potere che adesso ricopriva, forse alcuni soldati lo guardavano gelsoamente in tralice per quella donna cui solo lui adesso poteva dire accompagnarsi ma, per la prima volta in tanti anni, Zephyr riusciva a ignorarli completamente, troppo preso dai suoi caldi abbracci e da quei baci che riusciva a rubarle nascondendosi con lei dopo il tramonto, quando gli uomini erano troppo impegnati a distribuirsi le razioni di cibo per curarsi della loro presenza.
Più importante della loro guerra sacra, della destinazione e dei loro nemici. Solo lei aveva importanza.
Ma se aveva imparato qualcosa nella sua vita, era che niente era destinato a perdurare in eterno. E le cose liete, ancor meno di altre.
La realtà non dimenticò di rammentargli quella semplice e ovvia lezione che lui, preso dalla tranquilità degli ultimi giorni, aveva dimenticato, troppo indaffarato a rivolgere sorrisi e alla donna affianco e lui per accorgersi di quello cui stavano andando incontro.
E la violenza di quella mesta realizzazione lo colpì con quanta più forza possibile, sgranandogli gli occhi e costringendolo a ripararsi sotto un pesante mantello di pelliccia.
Il paesaggio che circondavano quell'enorme serpente di uomini che marciavano in file dietro di loro, era cambiato improvvisamente, e quella che dapprima avevano creduto essere una fredda giornata uggiosa si era presto rivelata essere l'arido e grigio clima che ammantava come una cappa plumbea quelle regioni che un tempo venivano descritte come un paradiso in terra. Le verdi pianure e boschi fioriti erano scomparsi, lasciando solo roccia e terra inaridita.
Il sole era nascosto da una coltre di cenere che ricopriva il cielo nella sua interezza, togliendogli l'unico punto di riferimento sul quale potevano fare affidamente in quelle terre straniere. Il territorio attorno a lui sembrava opaco, in maniera non dissimile a ciò che accadeva quando lui stesso lasciava che il suo potere tracimasse oltre il suo corpo per inondare la realtà, sminuendo la vividezza dei colori della natura per offuscarli. E si chiese quale intemperante potere fosse in grado di applicare quella abilità da un orizzonte all'altro.
Cercò di non pensarci, per non far sì che il suo turbamento incontrasse lo sguardo dei loro seguaci e ne destabilizzarsse le convinzioni. Sarebbero andati avanti, come avevano sempre fatto. Come lui aveva sempre fatto.
E poi d'improvviso, quella quiete si estinse in fretta come un temporale estivo.
La neve, il ghiaccio, il f r e d d o.
Avanzando nel morente deserto grigio, erano entrati in una regione di ghiacci perenni, tanto candidi e spettacolari quanto ostili alla vita.
Erano passati diversi giorni da quando il morente deserto grigio aveva lasciato spazio a un panorama tanto candido e silenzioso quanto ostile alla vita. Gli uomini erano ormai allo stremo, con la fatica e il freddo che gli attangliava tanto il fisico quanto lo spirito, i tiepidi braceri del loro ardimento che a stento venivano ravvivati dalle avvolgenti parole della Rosa.
Zephyr non faceva eccezione. Aveva cercato di nasconderlo, chiamando a raccolta quanta più dignità avesse in corpo per combattare contro i brividi che sentiva scavargli nelle ossa, intorpidendogli le estremità e lasciandogli il volto arrossato e le mani tremanti. Anche lui, come tutti gli altri, sembrava aver perso la voglia di parlare, limitandosi unicamente a girarsi di tanto in tanto verso Dalys per assicurarsi che il suo natuerale calore non le facesse patire troppo il freddo.
Del paradiso dell'Edhel non era rimasto niente che potesse essere ricondotto al florido passato: speroni di ghiaccio sbuacavano innaturali dal terreno, e profonde voragini erano pronte a inghiottire chiunque osasse avvicinarvisi troppo. Come se un'apocalisse avesse divelto la perfezione del Samarbethe e il ghiaccio avesse voluto cristalizzarne la disfatta, ergendolo a simulacro di ciò che l'oscurità potesse fare al più rigoglioso dei luoghi. Memento di un inferno che loro avrebbero dovuto evitare al resto di Theras.
Il passo degli uomini e dei cavalli sulla neve si era fatto incerto, scricchiolante. Avevano perso la giovialità che aveva contraddistinto la merce nei loro giorni, spegnendo le loro voci con fredde folate di vento, lasciandoli tremanti e capaci solo di sbattere i denti, dei timidi sbuffi di vapore che si disperdevano oltre le labbra screpolate.
Ma non gli interessava degli altri, non più ormai. Da tanto tempo.
Forse fu solo la stanchezza, forse l'indignazione nel non aver colto prima quella sfumatura che invece avrebbe dovuto essere palese sin da subito per lui. Obnubilato, dai sentimenti che provava per lei e dai quali si era lasciato trasportare.
Più difficile la missione, più grande la ricompensa.
Maggiore la sofferenza.
Gli mosse un insulto in silenzio, allungando lo sguardo verso le loro pietose figure ormani più simili a statue di ghiaccio che a soldati del Leviatano. Troppo deboli e inesperti per fregiarsi di un tale titolo.
Cerco di distrarsi dalla rabbia, volgendosi premurosamente per l'ennesima volta verso la Rosa e accarezzarne la guancia in un gesto che avrebbe confortato tanto la sua anima quanti i suoi polpastrelli intirizziti. Le avrebbe voluto assicurare che lui era abbastanza forte per farsi carico della sofferenza di entrambi, che l'avrebbe protetta perchè potessero continuare il loro viaggio all'infinito. Ma non appena alzò la mano, in un istante lungo un'eternità la vide esitare debolmente.
Poi il mondo scomparve.

Era solo, completamente.
Immerso in un assordante silenzio, e solo il rumore del suo cuore agitato a ricordargli di essere ancora vivo.
Chissa per quanto.
Nessun cavallo, nessuno soldato, nessun esercito o tormenta di neve. Nessuna Rosa.
Il freddo gli riempiva le ossa e allungando una mano di lato sentì la roccia umida toccargli i polpastrelli. Capì di trovarsi in una grotta, scura come una notte senza stelle e altrettanto fredda come i ghiacci del Samarbethe. Non riusciva a scorgere niente oltre la punta del proprio naso e schioccando le dita si accorse di non essere in grado di liberare nemmeno il più banale degli incanti, incapace e inerme in un luogo che non ricordava di aver raggiunto.

Dov'era l'esercito e l'inferno di ghiaccio? Erano sprofondati in un anfratto e non ne aveva memoria? Dove era D a l y s?
Doveva tornare subito da lei, proteggerla, abbracciarla e assicurarsi che fosse in salvo; e quando l'angoscia gli annebbiò la mente uno spasmo lo costrinse a chinarsi su se stesso mentre nella sua mente uno stridio aveva preso a infettargli il cervello martellandone le tempie e lasciandolo dolorante, chino su se stesso come uno schiavo violentemente bastonato sulla schiena dal proprio padrone.
Nel buio assoluto una smorfia di dolore gli tirò il volto. Boccheggiava come se quella aria umida non fosse in grado di riempirgli i polmoni e nauseato da quel posto, sentiva una sensazione insinuarsi in lui, serpeggiando lungo tutto il suo corpo fino al cervello e ancor più in profondità, scavandogli nel petto fino al cuore e ancora più avanti.
Qualcosa gli stava divorando l'a n i m a.
Sentiva il sangue ribollire, dilaniato da un dolore che gli strozzava le urla d'aiuto che avrebbe volentire lasciato eccheggiare tra le pareti di roccia che lo imprigionavano chissà quanto lontano dai suoi compagni.

Lui era un essere di luce, per nascita.
E il suo pensiero tornò al sole del Samarbethe, che non avevano mai visto perchè offuscato da grigia cenere.
Cenere che rassomigliava alla sua, con la quale si era difesa dall'odio e con la quale aveva offuscato la propria luce, adombrandola di grigio.
Ma la sua luce, come il sole del Samarbethe era solo stata nascosta, oltre le nubi continuava a brillare, stolido e luminoso come sempre.
Una lacrima rigò la guancia di Zephyr, e un angolo della bocca gli aprì un sorriso velato di un commisto di tristezza e ironia, le braccia strette attorno al petto per placare gli spasmi del freddo lancinante.
Per anni aveva stupidamente pensato di essersi liberato di quella parte di se stesso, scegliendo da sè il proprio destino e la propria vocazione. E proprio il destino, ora, per dimostrargli quanto si fosse sbagliato in questi anni l'avevano condotto in un'oscura caverna, così che il Baathos stesso potesse divorare le dolci carni di un inconsapevole e stupido angelo che, accecato dalla sua arroganza, aveva pensato di potersi lasciare alle spalle il proprio retaggio.
Allungò una mano nel vuoto, come a volersi aggrappare un'ultima volta alle speranze che sentiva scivolargli via dal corpo, come a voler afferrare quel sogno ormai sempre più lontano che avrebbe tanto voluto realizzare per il suo Sovrano, come a voler compiere quel gesto che prima di sparire non aveva fatto in tempo a fare: carezzare un'ultima volta le guance di Dalys.
Si sentì artigliare un'ultima volta le viscere, un ultimo sussulto.
Poi un ansito, e un commiato liberatorio.

« ...mi dispiace. »



Percepì la sua coscienza svanire, precipitare in un baratro trasportata dalla pesantezza di quel suo peccato, l'ignoranza che alla fine gli era costata tutto. Aveva perso la sua personalissima battaglia contro quel mondo ingrato, contro se stesso e contro il destino beffardo.

E' una bugia, Zephyr.
Tu non sei più.



Senti il leggero tocco di una mano familiare poggiarglisi sulla spalla.
Sobbalzò sbigottito da quella voce che non sentiva da tempo e che, ora, nel silenzio più totale si era palesata.
Zephyr galleggiava nell'etere, e prima che potesse cercare di parlare, da quell'oscurità indistinta prese a delinearsi un volto dai contorni sfocati, illuminato di una luce d'argento scuro e rilucente di un sorriso compassionevole.
Troppo preso dalla sua missione e della Rosa, si era scordato di lui, dell'Angelo. L'altra faccia di una medaglia opacizzata dalle avversità del mondo mortale, bruciata di un fuoco spento. Ma non capiva, non riusciva a comprendere cosa gli stesse dicendo. Avrebbe voluto chiedergli scusa per tutte quelle volte che erano stati in conflitto, per averlo coinvolto in quel pasticcio che aveva causato la loro morte. E per aver estinto la luce di entrambi, senza che lui fosse d'accrdo.
Voleva chiedergli scusa, ma quelle parole non vennero mai pronunciate.
Poi, la maschera di cenere parve sorridere, comprensiva.

Noi non siamo più.
Abbiamo scelto di non esserlo
Ti sei sottratto alla grazia, l'hai rifuggita.
Rinnegandola, angelo traditore.
E da quel momento io non sono più.
E tu, con me, non sei più.
Ti sei votato all'uggiosa cenere, ricordi?
Grigia come il braciere di un fuoco spento. Che tu hai estinto.
Una luce che ha smesso di bruciare, consumata dalla tua disperazione.
Ricorda, Oracolo di Cenere, tu non sei più.
Ricorda chi sei e chi non potrai più essere.


Nel tempo di un battito di ciglia i contorni del volto sfumarono fino a tornare nell'anonimato delle tenebre dal quale erano comparse.
Zephyr percepì il proprio corpo riverso a terra, infreddolito e con l'umidità che gli lambiva le guance. Non era morto, non ancora.
Si mise a sedere, poggiando poi le mani alle ginocchia e tentendo di rialzarsi goffamente, ancora incerto sulle proprie gambe mentre mille pensieri gli vorticavano in testa, arrovellandosi gli uni sugli altri segno che la sua coscienza stava tornando al momento presente, lontanto dall'oblio dal quale aveva rischiato di sprofondare.
Non sapeva se tutto quello stava accadendo realmente, se si trattava di una prova, di un illusione o solo di uno scherzo imbastito da qualcuno che presto l'avrebbe pagata cara. Però, ora più di prima, era sicuro di una cosa:
Sapeva che cosa era. E anche chi era stato molto tempo fa, cosa non era più.
E l'oscurità non poteva inghiottire un angelo caduto.

« L'angelo di cenere... »
disse infastidito, mentre di puliva i vestiti dalla polvere che sentiva addosso.
Aveva già immaginato il suo epitaffio
« pateticamente morto all'inferno senza nemmeno combattere. »

Doveva tornare da lei.
Con un gesto risolutivo della mano, l'oscuro anfratto, quella prigione mentale venne dissipata alla velocità della sua volontà. Le pareti di roccia divennero presto visibile, rilucenti di un'uggiosa luce grigia -ancora, quasi come il cielo del Samarbethe, il paradiso perduto. Fu sufficiente solo che Zephyr indurì il suo sguardo perchè la trama della realtà intorno a lui prendesse a vorticare in un turbinio di fiocchi di cenere che spezzarono l'illusione e ricongiungessero la sua coscienza al suo corpo, lasciando in balia del freddo e in procinto di avvicinarsi a lei. L'unico motivo per il quale aveva deciso di combattere quella guerra disperata.
Il vento lo sferzò per l'ennesima volta, e malgrado il freddo Zephyr ebbe la prova di essere nuovamente vivo. Ancora in testa all'esercito, ancora accanto a lei.
La vide piangere, ma prima che potesse chiedergliene il motivo, con la coda dell'occhio vide gli sguardi sbigottiti dei soldati al loro seguito e seguendone la direzione capì che il loro viaggio era giunto al termine.
Forse per sempre. O forse, come sperava, sarebbe continuato ancora, per l'eternità.

« Temevo di averti persa prima della fine del viaggio. »


E per concludere ciò che aveva iniziato prima di sprofondare nell'oblio della sua mente le accarezzò la guancia, risalendone la morbida curva e asciugando le sue lacrime.
Nessuno sapeva cosa sarebbe successo di lì in avanti ma, ma non gli importava.
Avrebbero combattutto insieme, contro il destino e contro gli Dèì.
E se poi la morte fosse giunta a reclamarli entrambi, le sarebbero andati incontro assieme come
fuoco e c e n e r e.




Allora, per fare chiarezza.
La prova affrontata da Zephyr è l'oscurità. Durante la sua vita a causa di diverse situazioni di Bg etc... la sua essenza di luce è cambiata, simbolicamente diventando cenere. Una parte del suo inconscio non era però ancora del tutto convinta che la sua luce si fosse effettivamente estinta e la "prova" ha fatto sì che questo pensiero riaffiorasse facendogli percepire come l'oscurità del Samarbethe lo stesse divorando essendo l'oscurità nemico naturale della luce. Poi l'angelo -la sua seconda coscienza che esce quando utilizza la trasfomrazione di avatar- gli fa capire tutto e quindi riesce a superare la prova.
Posso capire che risulti abbastanza complesso. Se servirà fornirò spiegazioni più dettagliate.

Ps: ovviamente scusate il ritardo :v
 
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view post Posted on 2/2/2020, 22:16
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Alder accolse il bardo con un cenno del capo e lo invitò a sedersi. Una volpe nera apparve poco dopo lui, seguendolo e sedendosi ai suoi piedi, una piccola sagoma immateriale. A giudicare dalle movenze goffe ed esitanti del giovane, doveva essere stata una giornata di faticosa marcia. Un po' tutti erano stanchi, sia fra le forze dell'alleanza che quelle di Lithien. Alcuni più di altri. Con Surturson sparito e Glacendrangh in quello stato, l'elfa si era trovata di punto in bianco a fare le veci del comandante. Nel giro di una manciata di settimane era stata strappata alla fortezza dell'Erynbaran per essere lanciata in qualcosa di più grande - per cui, tutt'ora, non necessariamente si sentiva pronta. Ma quando gli occhi dei suoi sottoposti fra le Lanterne si erano spostati su di lei, in attesa della prossima mossa, quelli delle altre figure a capo dei loro alleati avevano man mano fatto lo stesso - finché lei non accettò tacitamente quel ruolo. «Dicono che hai notizie da riportare. Ha a che fare con il perché Lithien non si sia mossa sino ad adesso?»

Con un gesto la donna indicò la propria borraccia, e il bardo bevve avidamente. «Sarà...» si interruppe di colpo, tossendo per l'acqua andata di traverso. Lei non gli tolse gli occhi di dosso nemmeno per un attimo. Il ragazzo era stato uno di loro: aveva sentito parlare di lui. Solo, era sparito, lasciandoli da soli a combattere l'oscurità. E nel momento in cui l'oscurità si era fatta fitta, il Kishin ad orchestrare ogni sua mossa, era tornato - portando uomini e donne pronti a dar man forte a chi avrebbe tranquillamente potuto tacciarlo come disertore. Alder stessa era insicura di se ringraziarlo o meno, specialmente visto il ritardo. «... sarà una lunga storia.» Lei annuì senza dire una parola, quindi Taliesin iniziò a raccontare una storia che sarebbe parsa un'altra delle sue storie narrate, ballate intrise però di un'oscurità priva di fondo che di certo non apparteneva al suo repertorio tipico.

Quando finì, i due rimasero in silenzio per diversi momenti: lei si mordeva il pollice, lui fissava assente il tavolo, di tanto in tanto voltandosi verso l'entrata della tenda, come se si aspettasse che uno di loro entrasse.
«Quindi Lithien è stata penetrata dall'interno. Tutt'ora è in stato di pericolo, se la breccia è avvenuta senza che vi fosse maniera di prevederlo - e prevenirlo.» deliberò infine lei. Non le piaceva come prospettiva, per nulla, ma l'assalto era sostanzialmente stato respinto. Non potevano fermarsi, non per Lithien, non per ogni singola persona in pericolo - non finché il Kishin respirava. Per quanto avessero fatto l'impossibile, riunendo l'Edhel sotto un unico accordo, non sarebbero mai riusciti a salvare tutti. Le foreste di chi aveva ignorato il loro richiamo alle armi sarebbero bruciate, le fortezze di pietra degli Anahmid più testardi sarebbero crollate, e persino Lithien non sarebbe sopravvissuta ad un'altra incursione tanto disastrosa.

«Comandante Alder.» La voce cauta del ragazzo la scosse: non si era nemmeno accorta di star stringendo i pugni tanto forte che le unghie erano affondate nei palmi. Quando si volse verso il Canterino, come una volta era conosciuto fra i suoi compagni nelle Lanterne, venne colpita dalla sua espressione. Non meno stanca di prima, a dir poco esausta, ad un passo forse dal crollare - eppure una stoica fiamma riluceva nei suoi occhi, tale da quasi proiettare ombre sul suo viso invecchiato troppo presto dopo l'esperienza dell'invasione di Lithien. E forse di qualcos'altro. «Se posso, che fine ha fatto Jevanni?» La donna sospirò, quindi si alzò in piedi e gli fece cenno di seguirlo fuori. Mormorando, seguita dal bardo e dalla sua strana volpe, gli raccontò del Talamlith e della tormenta, dei draghi e dei demoni. E gli disse di quando, davanti ai suoi occhi, il guerriero si era spento davanti ai suoi occhi.

- - -

Quando giunsero nell'altra tenda, Alder congedò con un cenno il ragazzo che stava facendo la guardia - questo annuì sollevato ed uscì, lasciandoli soli. La tenda al suo interno aveva un gelo innaturalmente profondo e conteneva un solo grande oggetto che la riempiva quasi del tutto. Il bardo realizzò immediatamente che fosse quella la fonte di quel freddo.
«È così da quando si è conclusa la battaglia.» disse lei, tetra. «Durante la battaglia ha perso conoscenza dopo averci messo tutto sé stesso - ma prima che potesse risvegliarsi, è successo...questo.» Sfiorò con le dita l'oggetto, un blocco di ghiaccio dalla forma simile ad una bara priva di un coperchio sollevabile, al cui interno era visibile il Guerriero in uno stato di apparente incoscienza. L'elfa fissò il bardo. «Crediamo lo abbia fatto da solo.» Si era detto che fosse naturale - per quanta naturalità potesse esserci in quella bizzarra stregoneria; che fosse una misura estrema per proteggersi durante il recupero delle forze, come un letargo per un orso ferito. Una congettura al volo per tranquillizzare le truppe, ma a cui lei poteva credere solo in parte. Pure in quel momento, guardando un Jevanni così sereno dentro quel sigillo di cristallo, lei non poté scrollarsi del tutto il dubbio che quella barriera non fosse tanto per proteggersi, ma separarsi. Concedersi un sonno indisturbato, che nessuno però si sarebbe potuto concedere in quel frangente. No: dopo tutto quello che era successo, persino con la morte di così tanti e dei propri cari, nessuno si sarebbe voluto concedere un momento di riposo.

Gli occhi dell'elfa si soffermarono su un dettaglio che prima non aveva notato: una crepa, proprio sotto l'indice, attraversava la superficie altrimenti perfettamente liscia. Era piuttosto sicura che non ci fosse prima. Con la coda dell'occhio vide un guizzo nero - mise a malapena a fuoco la volpe balzare sulla bara, prima che essa sparisse come una goccia d'acqua in uno stagno: in quel momento Jevanni riaprì gli occhi. La crepa si allargò, si moltiplicò fino a diventare una ragnatela, e davanti ai due la bara si infranse con un tintinnio a malapena udibile, come se non si fosse trattato di una mole massiccia di ghiaccio ma un paio di schegge di vetro lasciate cadere a terra. Il Guerriero, ora sdraiato al suolo, si sollevò a sedere sotto gli sguardi esterrefatti di Alder e Taliesin.

«Che diavol...?!» imprecò Alder, la mano istintivamente portata ad un bastone che era però troppo distante, lasciato appoggiato fuori dalla tenda; Taliesin rimase invece ammutolito. Jevanni osservò per un lungo, lunghissimo momento i loro volti esterrefatti - una dozzina di secondi in cui parve non riconoscerli, per poi finalmente sorridere e alzarsi a fatica in piedi. «Bene...credo...» si aggiustò la veste, stiracchiandosi appena con diverse smorfie, i muscoli intorpiditi. «...credo che la battaglia sia finita.» Alder annuì lentamente, la sua pelle pallida che man mano riprendeva colore e contegno con una forza che non le parve propria. «Il Talamlith è nostro. Abbiamo continuato la nostra marcia; il Kishin è stato sconfitto nel Matkara, e le Ombre si sono unite a noi. La prossima missione, per quando potremo muoverci...» Jevanni scosse il capo ed allargò il sorriso. «Ho riposato e visto ciò che dovevo vedere, fatto quello che dovevo fare. Sono pronto per questo ultimo passo, Alder.» Si rivolse dunque al bardo, che ancora non era riuscito a spiccicare una parola - ma i suoi occhi lucidi dicevano abbastanza. «Hai fatto quello che ti avevo chiesto?» Il ragazzo annuì, esitante, distogliendo però lo sguardo con una traccia di ansia. «Lithien è stata invasa dai demoni. Siamo a malapena...insomma, siamo qui. Mi dispiace non essere arrivato prima.» Jevanni annuì e gli diede una pacca leggera sulla spalla, costringendolo a guardarlo. «Va bene così. Davvero. Hai fatto del tuo meglio, ed è bastato: il nemico è ancora qui, in fondo. Non sei in ritardo.» Lo fissò dritto negli occhi finché non riuscì a scorgere nei lineamenti una vaga forma di convinzione. «Sei stato coraggioso e forte, per essere arrivato fin qui. Grazie per aver tenuto duro.»

Finalmente il bardo si lasciò andare ad un sorriso debole, capace di dar vita al volto altrimenti smunto e segnato dalle intemperie subite e i giorni - quelli che sarebbero potuti essere gli ultimi giorni in cui avrebbero effettivamente vissuto. Come pagine e parole tracciate su un inchiostro che stava per terminare, sui bordi di una pergamena ormai prossima alla fine. Era una sensazione palpabile nell'aria, tale che nonostante la serenità trasmessa dal volto del Guerriero, nessuno riusciva ad essere realmente tranquillo e dimentico dell'imminente scontro. «Dovremo scendere nelle profondità di Theras. Ripartiremo all'alba.» Il Guerriero annuì gravemente, e con un gesto la spada rinfoderata gli apparve fra le dita. «Costi quel che costi.» L'elfa incrociò le braccia quindi rivolse uno sguardo penetrante al bardo per comprendere le sue intenzioni. Questi sentendosi interpellato aprì la bocca - ma non riuscì a parlare. Come un brutto sogno in cui spalancava la bocca e il suono della voce non riusciva a liberarsi dal petto, come un gatto privato degli artigli, Taliesin il bardo si sentì inerme di fronte a quell'improvvisa inquisitività. In passato aveva reagito con violenza a quegli approcci, lasciandosi alle spalle tutto e tutti pur di non avere nessuna catena e nessuno a cui dover render conto. «La battaglia non è ancora finita - ma hai fatto quanto ti avevo chiesto. Non hai più nessun vincolo.»

Il ragazzo chiuse gli occhi. La volpe nera si era dissolta, e con essa il controllo che il Guerriero aveva posto su di lui. Aveva imparato il nome del famiglio quel fatidico giorno in cui Lithien bruciò sotto il controllo dei demoni: Andvar. Responsabilità. Il più grande dono e la più grande maledizione, crudele frutto di un'amichevolezza artefatta e di una disperazione che aveva costretto il Guerriero a plasmare un guardiano che tenesse d'occhio la volpe, creando una sua Ombra che lo seguisse e fungesse da suo opposto per riportarlo al suo dovere. Taliesin non era stolto: aveva notato la traccia di colpevolezza da parte di Jevanni, il velato dispiacere nell'incontrare lo sguardo e il suo tentativo di rassicurarlo per rimediare al fardello imposto. E sapeva che non era stato un caso che l'Ombra l'avesse costretto a rimanere sul suo cammino con tanta solerzia dopo la sua promessa stretta con lo spadaccino. Ora che era sparita, il peso della libertà era sprofondato sulle sue spalle.

«Ci sarò.»

- - -

Le truppe marciavano nell'oscurità del Samarbethe. I loro passi tentavano di essere leggeri, ma era abbastanza futile: gli occhi dei Molti erano puntati su di loro, e le pareti nude scavate nella roccia sembravano essere gole che solo attendevano che il boccone giungesse, per poi deglutirlo. La prima ed unica portata: loro.

«Hai paura?» Al suo fianco, Mikhiel digrignò i denti e diede impressione di voler sputare per terra, ma ci ripensò subito ricordando dove si trovavano. «Mai stato più tranquillo. Secondo te, coglione?» Poco davanti, al fianco di un Donovan di fronte all'armata, Alder si voltò per rifilargli un'occhiataccia - i suoi occhi scuri a malapena visibili nell'oscurità - ma Jevanni le fece cenno con la mano ridacchiando. «Risposta più che adeguata. Non sono molto bravo a far conversazione.» La Lanterna gli lanciò un'occhiata torva, grattando l'elsa dell'ascia riposta nella fondina al fianco. «No, infatti.» Dopo una breve pausa, scrutandolo, borbottò qualcosa che si perse nell'echeggiare della moltitudine di passi degli eserciti. «Hai...?» L'altro sbottò schiaffandosi la mano in fronte, sibilando fra i denti una bestemmia che il Guerriero riconobbe divertito pur senza udirne la voce. «Grazie. Ti sto ringraziando. Maledizione, c'è davvero bisogno di farmelo urlare? Grazie. Toh. Pensavo fossi un buffone, e non mentirò: nel Talamlith ero lì lì per tagliarti quel cazzo di braccio quando ti ho visto restar fermo tutto il tempo. Poi ho visto...insomma, hai salvato Rusk ed Alder prima di crollare come un sacco di patate.» E Jevanni rise. Una volta per quel tono e linguaggio si sarebbe sentito piccato nell'orgoglio - gli era costato quasi la vita e aveva riversato ogni propria risorsa in quello scontro, dopotutto - ma era evidente nel modo in cui camminava che qualcosa fosse cambiato. Rispetto alla prima volta che Mikhiel l'aveva visto entrare nella baita-rifugio proponendo quel folle piano, il Guerriero dell'Inverno aveva qualcosa di radicalmente diverso: una vitalità nuova, una leggerezza nel suo portamento che portava una prontezza. Confidenza irradiata, una torcia che da sola poteva scaldare l'esercito e illuminare il cammino - lui, che aveva evocato una bufera da oscurare il cielo e gelare le ossa nemmeno qualche giorno prima. E inaspettatamente, il Guerriero rise, forte, come nessuno in sua presenza in quell'intero esercito l'aveva mai sentito. Il suono colse di sorpresa i più vicini, che dapprima nervosi si unirono, poi sempre più rilassati, fino a riempire quella grotta sempre più piena di ragnatele mosse dalle correnti delle gallerie di una cacofonia di voci di ogni razza e lealtà, fede e paese.

Per un momento, davanti alla morte, il mondo rise.

Mentre ancora l'ilarità collettiva era in procinto di spegnersi, Jevanni si congedò con una pacca sulla spalla della Lanterna e rallentò salutando con cenni vari gli uomini della Ruadh, Rusk, Gramar, e tutti i compagni dell'Ordine con cui aveva parlato - prima di giungere ad un ragazzo che poggiava, evidentemente teso, la mano sul pomolo di una spada. Al suo fianco, il Beduino vide Jevanni e si congedò con un gesto - andando ad unirsi al resto dei suoi uomini. «Mi sono sempre chiesto: è un gran bel fodero. Non è troppo grande per la tua spada?» Taliesin gli lanciò un'occhiata confusa, riscuotendosi dai suoi pensieri con un sussulto, poi chinò lo sguardo verso l'arma. Compagna di una vita passata all'insegna del non usarla, dell'avere una garanzia, sempre un piano B - ma forse, dopotutto, la più grande finzione di tutte: l'essere capace di difendersi. «Non conta la dimensione effettiva della spada, ma la percezione che si ha di essa.» Dopo un po', fissando un punto indefinito davanti a sé - come se per riascoltare quanto aveva appena detto - sfoderò un sorrisetto. «Proprio come --» ma quando si voltò, Jevanni era sparito. Ai suoi lati, sorpassandolo non appena si fermò, gli uomini continuarono a marciare senza curarlo di uno sguardo, procedendo strenuamente nelle gole del Samarbethe.

- - -

Jevanni aveva sfoderato Orizzonte ed era scattato in avanti sentendo il boato e l'eco delle urla proveniente dalle prime file - ma l'oscurità era divenuta più fitta, e le torce spente da un improvviso, fatale vento avevano lasciato che le tenebre si impadronissero della testa dell'esercito. Clangore di spade e voci e versi stridenti rimbalzavano nelle orecchie, e improvvisamente il caos animò le viscere della terra stringendo le sue fauci sugli incursori del Samarbethe. Jevanni non aveva bisogno della vista: l'istinto quasi sovrannaturale affinato in una vita di scontri in condizioni avverse, costretto a non potersi basare solo sull'illusione (o percezione, qualcuno avrebbe detto), gli permetteva di scorgere quasi chiaramente l'uomo che si parava di fronte a lui e la mostruosità che, poco oltre, usava una delle sue chele e ganasce per sventrarlo. Udiva le urla ruggenti di Donovan nell'affrontare simultaneamente due demoni simili a mantidi, con corpi sinuosi dotati di lame lungo le braccia che danzavano avanti e indietro evadendo la sua spada e i suoi lampi di luce, e sentiva il clangore pesante dello spadone di Alder poco più avanti - per poi sentire uno stridio assordante e infine il più assoluto silenzio. Le truppe erano come congelate dietro di lui, dove i bastoni delle Lanterne proiettavano una luce tenue e tremolante nel buio incalzante, come pece che cola pronta ad accendersi in un incendio per divorarli tutti in un batter d'occhio. Davanti al Guerriero, però, solo un improvviso sudario: un passo esitante in avanti, poi un altro, sentì i cadaveri ai propri piedi quasi farlo inciampare. La tranquillità con cui si era addentrato nei cunicoli era stata sostituita da confusione, un crescente orrore che solo a fatica tenne a bada.

Qualcosa nelle tenebre si mosse; Jevanni sferzò l'aria con un fendente, il brillare dei funesti venti dell'Edhel comandati dalla lama si abbatté come un maglio nella direzione di quel movimento a malapena intravisto, ma l'essenza delle tenebre lo evase con la semplicità disarmante di una fiamma che rimane a malapena turbata dalla pietrolina scagliatavi attraverso, e questa gli guizzò contro passandogli ai lati senza curarsi di affrontarlo, andando a cercare famelica - un brulicare di zampette e sfilacciare di ragnatele ancora attaccate - le prede più indietro. Il Guerriero fece per seguire la matassa oscura, ma non appena fece per voltarsi il sesto senso lo costrinse a porre Orizzonte di fronte a sé; un colpo possente tuonò come acciaio fino ad assordarlo, e l'impatto dell'arma posta a difenderlo rischiò di lussargli la spalla. Arretrando cauto, ora in posizione di guardia, lo spadaccino riuscì finalmente a mettere a fuoco la sagoma che si poneva di fronte a lui - e fu sicuro di star sognando.

- - -

Taliesin si guardò attorno, improvvisamente confuso dalla sparizione di Jevanni. Si guardò a destra e a manca, cercò nelle retrovie ma non gli riuscì di guardarlo. Il passo monotono dei soldati nella quiete soffocante prima della battaglia era un tamburo che rullava, ma era una melodia alla quale non aveva voglia di unirsi. C'era qualcosa che voleva dire al Guerriero, qualcosa di importante - non quella sciocca battuta di pessimo gusto che sul momento gli era sorta, maledizione a lui e alla sua linguaccia lunga. Doveva dirgliela prima della battaglia, prima che il momento di pentirsi lo cogliesse, prima che quel briciolo di spina dorsale sparisse al primo soffiare del vento di guerra. Chiese ai più se avevano visto il Guerriero, ma i più alzarono le spalle e gli altri lo fissarono infastiditi. Alcuni di loro si erano uniti ai canti la notte prima, e per poco il Bardo non finì per replicar loro aspramente - ma si era trattenuto: si trovavano tutti, in fondo, sulla stessa barca. Una barca magica che raschiava la sua chiglia contro il fondo pietroso, trascinandosi con crescente rammarico e un malcelato timore, un timore però perpetrato dalla nenia stridente del legno e riecheggiante nelle orecchie, l'accompagnamento agli stivali sulla terra. C'era qualcosa di bieco e parimenti ipnotizzante in quella manifestazione di lugubria, eppure la mano ancora non corse a cercare lo strumento per porre la propria impronta sonora accanto a quelle del mondo.

L'Ispirazione era una musa dolce e invitante come le ragazze per le quali il suo cuore aveva battuto, ma lì dentro era come se, tolti i veli, la pelle della fanciulla fosse putrefatta e i suoi denti ingialliti e cadenti svelassero una lingua biforcuta e sibilante - e se avesse pizzicato anche una sola delle corde, lei si sarebbe avvinghiata al suo collo e glielo avrebbe strappato a morsi ridendo, folle. Cercò più avanti, si avvicinò a Juan toccandogli un braccio per richiamare la sua attenzione, ma questi lo scacciò con un gesto senza interrompere l'infervorata discussione che stava avendo con una delle Lanterne; parve al Bardo che il beduino stesse tentando di vendergli uno dei ninnoli, raccontando di come quell'amuleto lo avesse protetto durante lo scontro nelle piane con i demoni. Da un lato volle sorridere, pensare che nonostante il momento il suo pensiero fosse sempre volto agli affari, ma dall'altro l'inquietudine di sottofondo - lo sguardo della musa - gli impedì di considerare il lato quasi grottesco di un manipolo di canaglie in un contesto che non lasciava spazio per svicolarsi, lasciare agli altri il momento eroico. In quella storia gli eroi sarebbero stati anche loro. «È importante.» Juan finalmente si scusò con la Lanterna, un ragazzo con i capelli ricci castano chiaro dalle orecchie da elfo appena accentuate, e si voltò di scatto con a malapena dissimulata irritazione. «Vai, dimmi. Cosa c'è?» La reazione brusca dell'amico lo colse di sorpresa, un po' lo ferì, ma non lo diede a vedere. «Hai visto Jevanni?» L'altro lo squadrò confuso per un attimo, occhi sottili. «Chi? Jev...oh, l'albino?» Fissò più in avanti, sollevò il braccio. «Sarà prob...» non riuscì a finire la frase, la voce si ridusse ad un sibilo a malapena udibile, come se qualcosa gli avesse accartocciato la gola stringendola con un pugno d'acciaio invisibile. Lui e molti altri nei pressi si fermarono, di punto in bianco, chi tastandosi la gola e chi piegato in due o in ginocchio in preda a dolori indicibili, tremando sempre più forte - e gli uomini di Lithien seppero subito cosa stava succedendo, sfoderando le armi e intonando incantesimi rivolti ai loro compagni. Taliesin, bianco come un lenzuolo, arretrò mentre qualcosa di anche a lui familiare accadeva a Juan. «Un'altra epidemia! Alle armi!» tuonò un vecchio mago, e immediatamente le truppe si allontanarono dagli individui colpiti, le cui fattezze stavano già iniziando a mutare e le voci a riaffiorare con tonalità gutturali e strianti. Il primo a scagliare un dardo di luce fu il mago che aveva lanciato l'allarme, e subito dopo demoni ed ex-compagni si scagliarono l'uno contro l'altro in uno scontro fatto di lampi bianchi e vermigli che danzavano nella penombra dei tunnel. Anche più avanti e indietro l'esercito era in subbuglio, e il Bardo man mano indietreggiò fino a toccare una delle pareti con le spalle. Il cuore a mille, la mano che stringeva convulsa l'elsa di Fabula ma non riusciva a tirarla fuori, impigliatasi nel lungo fodero, il ragazzo fissò tremante la Ruadh venir dilaniata e il Beduino cadere per mano del ragazzo a cui aveva voluto vendere il gingillo.

Fratello contro fratello, l'esercito si stava uccidendo - e lui non aveva la minima idea di cosa fare. Voleva fuggire. Questo era ciò che avrebbe voluto dire allo spadaccino, molto prima che quel momento arrivasse - e ora sarebbe stato troppo tardi per farlo. Raccolse le energie per lanciarsi in avanti, schivando qui e lì colpi di lancia, mazza e incantesimi che andavano a sbriciolare la pietra ad un soffio dal cappuccio del proprio mantello scarlatto, spingendo a terra con una spallata un Anahmid a cui erano spuntate due braccia scheletriche dal collo, per poi scavalcarlo con un balzo. Quando le gambe furono sul punto di cedere si accasciò in un anfratto riprendendo fiato, le mani tremanti e sudore gelato a fargli girare la testa. Una vena pulsante nel collo ritmava i battiti del cuore con la violenza di un martello sulla fronte. Non è reale. Non può essere vero. Non di nuovo. I pensieri erano serpenti neri che scivolavano nella sua testa ai lati del suo campo visivo, vermi che rifuggivano ai confini di quanto la sua testa tentava di elaborare - senza successo. Come possiamo vincere? Perché non posso...perché non posso vincere?! Gli eroi salvavano tutti alla fine di una storia - era necessario che fosse così, perché ci fosse qualcuno a raccontare le sue gesta alle generazioni successive. Non sono un eroe. Sarebbe morto, e non valorosamente: sarebbe morto in quel cunicolo e la sua carcassa sarebbe rimasta a marcire, forse divorata da chissà quali bestialità. Il suono della battaglia parve distante in quel momento, la testa in principio di spaccarsi. Non ci sarebbe stato nessuno a ricordare con affetto il suo nome, a guardarlo arrivare pomposo per le strade e dire So chi è!. Nessuno sguardo languido di fanciulla sognante, nessun timore reverenziale ad accompagnare i suoi ingressi nelle grandi sale. Perché sarebbe finita lì. Finì per fissare una pozza di sangue, nella quale attraverso la luce tenue dei lampi di battaglia riusciva a malapena a specchiarsi. L'occhio sinistro, che gli aveva preso a far un male indicibile, era diventato nero. La gola era divenuta secchissima, e le dita tremavano: iniziava a comprendere. Sarebbe successo presto. Pensieri alieni si infiltrarono fra i labirinti di paura, sussurrando di rasserenarsi e concedersi invece di opporsi, e che tutto sarebbe presto sembrato più naturale. Tutto più ovvio. Più semplice. Voci di tanti, fiume di mormorii dove tranquillamente perdersi invece di dover strillare per farsi sentire. Gli occhi seguirono il flusso di sangue che aveva originato la pozza, e scorse gli occhi privi di vita di Jevanni, la sua testa mozzata e rotolata dal corpo fino a giungere a pochi passi da dove il Bardo si trovava.

Voglio fuggire.
Hai ragione a volerlo. Puoi farlo adesso, se vuoi. In questo preciso momento, pure. Nessuno lo noterebbe.
Non...non sarebbe giusto.
No, non lo sarebbe. Nessuno ti obbliga a fare del bene. La vera domanda è...
Che cosa voglio fare.
Hai sempre fatto quello che volevi, Taliesin. Uomini più saggi di me ti direbbero che questo è ciò che conta.
Allora perché mi hai contattato? Perché mi hai fatto andare a Lithien?
Credevo che fossi intelligente abbastanza da capire la necessità della situazione.
Che avrei fatto qualcosa di assolutamente folle contro ogni istinto di autoconservazione?
Che fossi più di quanto pensassi di essere.
Lo sono?
Solo tu puoi dirlo. Solo tu puoi saperlo. Solo tu puoi deciderlo.
E se non volessi?
Allora la tua storia terminerà assieme alla mia.

L'occhio destro era per metà nero, e una vampata di calore si era impossessata del Bardo aumentando la nausea. Si risollevò a fatica con un corpo che sembrava mosso a distanza attraverso fili di burattinaio invece che da tendini. Riuscì finalmente ad estrarre Fabula e appoggiò la sua fronte umidiccia sull'acciaio gelido della spada. No, non avrebbe avuto senso farla finita così: avrebbe solo significato lasciarsi totalmente in balia del Guerriero.

Mi sarebbe piaciuto un modo più facile per diventare famoso.
Quelli come noi vengono dimenticati facilmente, amico mio. Ma forse un posto c'è per chi vince questa guerra.
D'altronde non ci sarà nulla da raccontare se non finisce oggi.
Nessuna storia lasciata a metà può essere tramandata.

Il Bardo scosse il capo per scacciare i sussurri dalla propria testa, una mano poggiata sull'occhio sinistro e la bocca schiusa a respirare affannosamente. «Ti dispiace se nella storia ometto la parte della volpe in Lithien? Se devo essere coraggioso ora, tanto vale dire di esserlo stato pure lì...?» Jevanni non rispose: gli occhi vitrei e la bocca erano sempre immobili, e per sempre lo sarebbero stati da allora. Eppure, in un angolo recondito della sua mente, al confine fra la realtà e il dubbio, Taliesin credette di sentire un verso soffocato, una risata dal naso sfuggita.

Il ragazzo uscì dall'anfratto e si avventò sui demoni, abbattendone due, il primo affondando la spada fino al petto e il secondo decapitandolo con un fendente brutale. Nuova energia nelle sue braccia, frutto dello stesso influsso diabolico che intendeva trasformarlo nelle aberrazioni che avevano quasi raso al suolo Lithien. Altri si voltarono e si lanciarono, ma il Bardo passò oltre i loro attacchi e deflesse un calcio con il piatto della spada, per poi piantare quest'ultima fermamente nella fronte del più vicino, proprio fra i suoi attacchi. Schioccò le dita e il liuto apparve fra le mani, e prima ancora di rendersene conto queste già stavano pizzicando le corde seguendo note che dall'essere vagamente nell'aria parevano ora marchiate a fuoco su un pentagramma imprescindibile dalla realtà stessa.

La musa sussurrò le parole nel suo orecchio; nonostante il suo alito pestilenziale pregno di putrefazione e sangue l'avrebbe di norma fatto svenire, lui inspirò a pieni polmoni - quindi aprì la bocca e iniziò a cantare. Le parole che scivolarono dalle sue labbra sovrastarono il clangore e le urla, man mano riempiendo come acqua e permeando le menti di demoni e combattenti assieme: elfi e umani, demoni e ombre, paralizzati sentendo un linguaggio che mai avevano sentito e che pure riuscivano a comprendere - inspiegabilmente. Parole appartenenti a tutti e nessun idioma, capaci più di qualunque altro modo di brecciare la paura, la collera e la disperazione, paralizzando il mondo intero sul suo asse - come un pubblico ammutolito, e lui fosse la stella.

La voce tremò, la gola stretta nella morsa - la fetiales continuava il suo percorso, inesorabilmente tentando di strappargli l'ultima arma che gli era rimasta; si fermò, deglutì quello che gli parve essere catrame, e inspirando nuovamente tornò: la voce esplose questa volta, annichilendo i demoni e facendo ondeggiare la realtà stessa, finché questa non iniziò a sfumare e perdersi in un mare di luci, suoni e vibrazioni che iniziarono a scindere da quella visione di incubo che gli era stata imposta. Il Bardo cantò, e cantò a lungo finché la voce artificialmente arrochita non tornò la sua vera essenza, e l'asse del mondo tornò a girare per tutti.

- - -

Jevanni sapeva che quella che aveva davanti fosse una menzogna: questo tuttavia non lo fermò dal gettarsi in avanti come una furia, calando un fendente sull'omone con tanta violenza che nel venir parato provocò una pioggia di scintille. Altri attacchi partirono: alcuni vennero deflessi dallo spadone, alcuni colpirono il mastodonte ma all'impatto fu come colpire un lenzuolo impalpabile. Era un'illusione, qualcosa che non doveva esserci: qualcosa che doveva appartenere al passato, eppure era lì.

«Fuori dalla mia testa...ora.» Il volto massiccio di Yester, la Montagna di Uthenera, lo osservava impietosamente da dietro la celata che copriva il resto del suo capo. Tanto, tanto tempo addietro gliel'aveva strappato dalla testa - si erano scontrati e si erano battuti. E Jevanni aveva vinto: solo, aveva commesso un errore.

«Bello vincere, eh? Ti dà una certa sensazione, un non so cosa di soddisfacente.»
La voce non venne dall'omone, ma proprio nella sua testa - una fitta di dolore che gli fece digrignare i denti.
«Non c'è posto per te qui. Non ho paura di te.»
«No?»
Lo spadone mulinò sfregiando cinque volte in rapida successione il suolo, lanciando scintille e rintoccando a mo' di campana prima di abbattersi in due guizzi rapidi (troppo perché fosse fisicamente possibile) sul Guerriero; questi deviò il primo a lato e sfruttò la violenza del colpo per portarsi all'infuori del raggio del secondo. Si scambiarono altri attacchi come una fitta ed intricata danza le cui mosse erano poco più di un battito di ciglia.

«Sei rimasto solo perché sei incapace di proteggere gli altri.»
«Ho combattuto al fianco di altri sino ad ora, non sai niente.
Fuori dalla testa ho detto, maledizione, FUORI!
»

Yester fece per deviare l'attacco, ma Orizzonte attraversò la spadone del bestione come fosse stata di burro spezzandola nettamente. Jevanni sfruttò il momento per voltarsi e tirare un affondo dritto nel petto, penetrando l'armatura e trafiggendo proprio il petto della Montagna. Con un sussulto ed un brivido questa parve afflosciarsi, ma il Guerriero non commise l'errore dell'ultima volta: posò il palmo della mano libera sulla fronte dell'omone, da lì una patina di ghiaccio si andò a formare fino a racchiuderlo in una vera e propria statua di ghiaccio.

«Non...non è Uthenera. Sono diverso.»
Ansimante, sfilò la spada dalla statua violentemente. Questa cadde in frantumi - di Yester, nessuna traccia.
«Più cambi, più rimani lo stesso.»

Alle sue spalle, avvertì la presenza di Yester. Non erano più nei cunicoli, non più nelle viscere del Samarbethe, ma fra le piane di un campo di battaglia devastato dalla foga di due nazioni che si erano scontrate con l'idea di dividersi i territori. Una gran collina sormontava quel tavoliere spezzato, un tempo l'aveva discesa a cavallo. Il Guerriero inspirò, ma il petto era come stretto da una ganascia impalpabile. Quando abbassò lo sguardo, Orizzonte era spezzata e macchiata di sangue nel punto di frattura.

«Non puoi sconfiggermi ora. Non puoi sconfiggerci.»
«Tu e quale esercito?»

Il suolo era lastricato di cadaveri impilati l'uno addosso all'altro. Alcuni di Uthenera, alcuni delle Lanterne, Arshaid e Ruadh, Lady Alexandra e Serhat Satu, Hocrag e Kreisler, Visilne ed Asmus, Seyrleen e tutte le vittime che il mondo aveva mietuto e strappato crudelmente. Uomini e donne che Jevanni aveva conosciuto o visto, e alla fine di tutto quanto - alla fine di tutte le guerre - lui solo era rimasto in piedi.

«Combattere al fianco non basta. Eri un generale - dimentichi? E hai fallito.»
«Non...»
«Un generale conduce i suoi uomini alla vittoria, non si limita a combattere.»
Strategia, lungimiranza ed accortezza, fiducia e autorevolezza: il minimo richiesto per una tale responsabilità.

«Perché dovrebbe andare diversamente?
Puoi dire quello che vuoi: ma la Sfinge, le Lanterne, Kjed, Taliesin, le speranze di tutti
sono sulle tue spalle.
»

La voce raschiante provenne da Donovan, un nido di larve scavato nella guancia sinistra per poi riemergere dall'occhio destro.

«Hai fatto di tutto per scrollarti la responsabilità
lasciare tutto ad altri per coordinare le armate con cui volevi affrontarmi
ma tutto è su di te.
»

Una Visilne trafitta da una pioggia di frecce, mutilata e ridotta ad una polpa quasi irriconoscibile non fosse stato per la matassa scomposta di capelli rossi, parlò con una mascella decomposta.

«E tu li deluderai, di nuovo.»

Jevanni rimase in silenzio, lo sguardo perso nella punta di lancia che spuntava dal proprio addome.
La mano percorse il manico in legno, incapace di avvertire realmente il dolore che lo attraversava. Eppure lo conosceva bene: era l'errore da cui era originato tutto. Dando le spalle alla Montagna. Era il momento in cui aveva tolto a sé stesso la possibilità di vivere con Visilne il sogno per il quale aveva finalmente trovato una soluzione. Davvero non riusciva a perdonarselo, dopo tutto tempo? Nonostante avesse già scorto in sogno la splendida esistenza al fianco di Visilne...
...nonostante sapesse che non avrebbe mai potuto vederla in questa vita,
che il mondo che conosceva era già andato e finito.

Aveva già dato l'addio alle miriade di volti che tappezzavano il suolo fra stendardi in brandelli, come sudari.

Era piuttosto sicuro di essere in grado di perdonarsi, adesso.
«No.»
Dalla punta delle dita il legno iniziò ad incrinarsi, per poi spezzarsi ed esplodere in schegge - la testa della lancia cadde a terra conficcandosi nella gran pozza di sangue che allagava la piana un tempo verdeggiante. Il dolore sparì, il corpo del Guerriero si destò da quel torpore.

«No, Kishin: sono diverso.»
In fondo, non aveva bisogno di calamità nella sua testa per ricordargli dei fallimenti accaduti nei tempi antichi.
I veri demoni sono sempre presenti nella nostra testa, pronti ad azzannarci nei momenti di debolezza.
Aveva avuto tutto il tempo per affrontarli, e abbatterli uno ad uno.


«La morte ad Uthenera non è riuscita a fermarmi, non lo farà adesso;
e anche avendo perduto tutto - tutti - coloro che ho amato, non è il momento di arrendersi.
Fai del tuo meglio, quando arriveremo.
»

Se non altro, avrebbe dovuto ringraziarlo per quel memento respònsus.
E lo avrebbe fatto - nelle viscere del Baathos.

Una brezza fresca attraversò il campo di battaglia, e la lama di Orizzonte crebbe con un filo luminescente di ghiaccio. I suoi occhi scintillarono nel cielo sempre più cupo, e la mano andò a toccare il fianco - tirando fuori il corno da guerra.

Così aveva soffiato l'inizio di quella maledetta battaglia in quella maledettissima piana:
così ne avrebbe soffiato la fine.

Gale esplose nel suo suono profondo,
uno squillo tale da accartocciare quello spazio artefatto
e mandare in frantumi i riflessi nel sangue.

Lentamente la realtà tornò a soggiogare quel dominio fantastico,
il cielo tornò pietra,
e Jevanni non fu più solo.

- - -

La situazione era a dir poco caotica. Uomini in stato confusionale si stringevano la testa, chi erano piegati in due e chi tremava nell'angolo. Alcuni erano in preda a raptus violenti, ed era stato necessario legarne le mani o tramortirli - uno di loro proprio per mano del Guerriero, che per un momento temette di esser stato scambiato per un demone del Baathos. Alder stessa era scossa, anche se giurava di star bene e che sarebbero partiti non appena gli uomini si fossero ripresi, e Donovan passava in rassegna assieme ai curatori chi era stato ferito - la psicosi aveva portato molti ad aggredirsi fra di loro, credendoli nemici. Due erano morti: uno per l'aggressione di un compagno, un Anahmid a malapena capace di cavarsela in battaglia, e un'Ombra si era invece accasciata priva di vita al suolo - nessuna ferita visibile sul corpo, solo un'espressione angosciata. Taliesin era in un angolo a suonare la stessa nota, con occhi spalancati sul nulla e un'aria assente; lo spadaccino seppe in seguito che il ragazzo con la sua melodia aveva aiutato a indebolire l'ondata malefica che aveva penetrato le loro menti. Donovan stesso ammise mormorando che era sul punto di soccombere, non fosse stato per la voce del Bardo. Il vecchio aveva salutato Alder con un abbraccio una volta giunto all'accampamento assieme agli uomini di Lithien e Taliesin, qualche giorno prima. Era stato uno dei pochi momenti in cui i sottoposti avevano mai visto l'elfa così tanto a disagio. Nonostante le suppliche velate della donna di riprendere le sue mansioni e comandare le Lanterne, lui aveva scosso il capo: era arrivato il momento delle nuove leve. Aveva però accettato lo stesso ruolo di una volta: quello di braccio destro di una più giovane conduttrice. E in quel momento, vedendo la stanchezza dietro l'energia che palesava per ravvivare gli uomini, Jevanni comprese il perché di quella sua scelta. Jevanni chiuse gli occhi e si concesse un momento di riposo assieme agli altri, tastandosi il petto lì dove la lancia di Yester lo aveva trapassato - come aspettandosi di trovare sangue.


Lasciati indietro i cadaveri e coloro che non potevano più muoversi, più un piccolo contingente per custodire i feriti e scortarli fuori, l'esercito continuò.


ͽS Y N O P S I Sͼ
"of deeds and struggles"

PJnzb

Chiedo ancora scusa per il ritardo a dir poco mostruoso, ma la mia disponibilità per l'evento era limitata ai tempi originariamente prestabiliti; si sarebbe dovuto concludere verso la fine dell'anno, purtroppo però con la sessione universitaria (e il dannatissimo Windows corrotto che mi è costato tre anni di file ed immagini e documenti) ho dovuto mettere del tutto in pausa l'evento per concentrarmi. Se interessa a qualcuno, questo sacrificio è valso una raffica di voti positivi - mi amareggia solo aver fatto aspettare ulteriormente.

Passando alle cose serie: ho trattato il mio post similmente ai colleghi del Dortan non citando la presenza degli altri eserciti per ovviare al problema di comunicazione per facilitarmi la vita, spero non sia un problema per il QM - in caso si può dire che ci siano numerosi ingressi per la rete del Samarbethe. Con l'uscita di Hole, ho ricevuto la possibilità di muovere il suo personaggio in sua vece - quindi il post è visto secondo prevalentemente secondo le prospettive di Jevanni e di Taliesin.

Taliesin ha paura di morire - ed è qualcosa che, nonostante la presenza e fiducia di Jevanni lo abbia incoraggiato, ancora non è riuscito ad affrontare. È cresciuto con la prerogativa di dover badare a sé stesso, di essere attaccato alla vita e di doversela godere - ma questa è una situazione che non glielo permette, e più che mai lo mette a contatto con questa possibilità. E nel crescere, il ragazzo diventa sempre più uomo: il pensiero di cosa ci sarà dopo di me inizia a diventare sempre più presente in lui. Questo si concretizza in una totale disfatta: la trasformazione che aveva preso piede in Lithien colpisce l'esercito e lui stesso, presto tutti coloro che lo conoscevano sono morti sotto i suoi occhi. Raccoglie il coraggio e la determinazione di affrontare i demoni, e dopo averne uccisi una manciata utilizza il liuto per tentare di infrangere la magia ed infondere coraggio negli alleati (immaginavo parole in hopelandic), che è ciò che permette a larga parte delle truppe di salvarsi - anche se comunque molti, fra cui Taliesin stesso, rimangono visibilmente traumatizzati.

Per Jevanni la paura è un evento legato al suo background. Non c'è molto più di rimasto in realtà come possibili paure, perché il grande sonno da cui si è risvegliato gli ha permesso di trovare una nuova serenità: dopo l'ultimo contest, ormai il personaggio è realizzato ed è completamente libero dei pesi che gli facevano in principio da zavorra. Rimane solo un nodo - il ricordo della sua morte (pregherei di non leggerlo, è...orrido agli occhi del me presente, lo inserisco giusto per dire "non ho tirato Yester/Uthenera dal nulla"). Morto da generale di una battaglia persa, il timore di effettivamente perdere un'altra volta e deludere chi ora lo sta seguendo, qualcuno forse più lui della Sfinge (che per ora sto interpretando come presenza all'interno dell'Oneiron o che in ogni caso non sta seguendo fisicamente le truppe), conducendoli alla sconfitta. Jevanni vedendo Yester, colui che l'aveva ucciso (prima di spirare lui stesso, ucciso dal Guerriero) riconosce subito che si tratta di un'illusione, ma nonostante questo cerca di spazzarla ugualmente via con forza bruta. Questo non fa che man mano scivolare tutto nel surreale, ampliando gli effetti dell'allucinazione portandolo fuori dal Samarbethe finanche al trovarsi nuovamente ferito a morte. Ma una volta ripresa la calma, avendo assaporato appieno l'effetto della disperazione indotta dall'allucinazione, Jevanni ripensa a tutto quello che è successo, che hai vissuto e visto, e ha fatto i conti con sé stesso. E alla fine, ha stabilito che non aveva più senso temere di deludere - men che mai in questo momento precedente alla battaglia. Suonando il corno di guerra incantato Gale spazza quindi via l'illusione, tornando del tutto alla realtà, e assieme alle truppe dopo un breve momento per riprendere fiato si procede nuovamente avanti per la destinazione.
 
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view post Posted on 16/2/2020, 12:17
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Discesero nel gorgo.
Un lungo serpente circolare che vibrava nel sottosuolo con dispotica caparbietà, rigirandosi su sé stesso a più riprese. Con infinite spire e altrettanti trascinamenti; verso il basso, poi verso l'alto o verso l'esterno.
Poi in basso ancora; sempre più in basso.
Le pareti di sassi parlavano del ritorno dei viventi, di ciò che gli ultimi giorni avevano significato per le creature del sottosuolo. Gli esseri mortali che si erano rifugiati alle porte del Baathos dovevano aver cercato i migliori auspici per il proprio futuro. Lì, oltre la soglia del buio e al di là delle decine di cancelli di pietra che segnavano il lungo passo verso le viscere, il freddo gelido del nord pungeva sempre meno.
Quando ancora le ossa scricchiolavano di morte, queste si sarebbero disciolte, riscoprendo un sottile piacere nel poter riprendere agio del proprio essere. Le carni passavano dal pallore bianco della neve a un colorito più vivace, meno morto. Quello era il piacere della scoperta e il dramma della falsa vittoria. Con quelle false speranze, la bestia doveva aver convinto le genti rifugiatesi in quelle gole, che il sottosuolo avrebbe donato loro il piacere della vita. Li avrebbe protetti e custoditi, fintanto che il mondo non fosse collassato, morendo e rinascendo ancora.
Solo allora sarebbero tornati su, per riscoprir l'eterno.

Ma il gelo pungeva ancora.
Quindi dovevano esser discesi ancor un passo. E poi ancora uno.
A ogni ora, o forse giorno... o forse settimana che dedicavano a districarsi in quelle tentacolari gole di roccia, radici e fango, sentivano la neve scomparire poco a poco. Avvertivano finanche il lucido giubilo di un conforto lontano; come se il fuoco di un grosso camino li sorridesse al di là dell'angolo successivo. Fino a riscoprirsi più lontano di un altro angolo. Quindi un passo ancora, poi un altro. Infine, un altro ancora.
E sarebbero passate altre ore, forse giorni.... o forse settimane ancora.
Soltanto per cercare il calore più umano.

Disegnarono sulle pareti.
Per ritrovar la via, segnarono la strada a mo di ghirigoro. Una virgola a indicar la girata; un serpente a indicar quanti passi prima del successivo incrocio.
Altri animali e disegni a manifestar l'ebrezza della scoperta e il fascino di quel calore sommesso, che donava loro una certa ilarità. Questo, almeno, i primi tempi.
Poi scribacchiarono altro. Scrissero di bestie paffute, quasi a simboleggiar la fame, di contro allo scarseggiare dei viveri. Poi, infine, bestie zannute, draghi e mostri informi, a rispecchiar l'orrore dell'animo.
Questo accadde, quando alcuni di loro si ribellarono, impazzirono e si violentarono vicendevolmente. O si uccisero, quantomeno per aver carne con cui sfamarsi.
Qui gli infanti urlarono e dannarono il giorno in cui erano discesi nel profondo, portati via dalle madri disperate. Violentate, vinte e senza più compagni con cui condividere quell'orrore.
Cercarono le virgole, i ghirigori e le strade segnate sul cammino.

Ma il serpente sembrava muoversi.
I disegni li ritrovarono in punti in cui non ricordavano nemmeno di esser stati.
Il senso di ogni curva era cambiato e a ogni salita ritrovavano una nuova discesa. Fu così che per risalire fino al gelo, finirono per discendere ancor di più verso il calore.
E quel fuoco un tempo soltanto auspicato, divenne una vampa di fuoco ardente. Avvertirono attorno a loro, ma anche dentro di loro, il fremito incontrollabile delle fiamme, che li trasformavano nel corpo e nell'anima, fino a farli diventare creature ancor più dannate.
Votate al vuoto e che da quel vuoto gorgo gorgogliante mai sarebbero più scampati.
Per incapacità, inedia e assuefazione.
Vinti dall'eterno candore agonizzante del mondo di sotto, che tutto copre e da cui nulla sfugge.

Infine lo videro.

Occhi vuoti, con bianche pupille e capelli d'argento, lunghi fino al busto. Una sagoma traslucida che si rischiarava al buio.
Bastava un movimento per disegnare immagini. Prima un cavallo, poi una casa, infine un castello. Ma anche uno stendardo, un esercito e una città intera.
Un mondo nuovo, disegnato dalla fantasia di una creatura scomparsa, che di rimando a quella follia aveva soltanto la presunzione di una falsa realtà.
Non impazzire, impazzendo. Non morire, morendo. Non divenire nulla, creando soltanto qualcosa che non esisteva.
Ma incredibilmente simile al reale.
Solo diverso. Solo migliore.

Una città, per esempio.
Una poderosa città.

png

« Buio e acredine » singhiozzò, fissando il pavimento roccioso attraverso le sue stesse mani.
« Non vedo altro che ricordi di un mondo passato » aggiunse, secco. « Oltre al bisogno fermo di fuggire da essi. »
Si voltò di scatto, sentendo qualcuno rispondergli. Una risata maligna, lontana e quasi impercettibile. Ma non per lui.
Lui la percepì e rabbrividì. Avvertì finanche delle parole entro quelle risa. Un messaggio piuttosto chiaro.
« Ora sei potente » commentò, piangendo. « Hai la maschera; hai il potere... »
« Hai lui »
Si girò ancora, come se qualcuno l'avesse toccato. Fissando il vuoto, boccheggiò di risposta.
« Cosa vuoi da me? »

Qualcuno gli rispose, ma nessuno sentì parole.
Solo un'altra risata sommessa. Era il modo in cui la bestia gli parlava, dalle profondità del suo gorgo.
L'aveva temuta, combattuta e finanche rispettata. Ma ora poteva fare ben poco.
Da morto - e da fantasma - poteva soltanto ubbidirgli.
Perché era in totale suo controllo.

« Una città? » Chiese, con fare stupito. Gli occhi vuoti scavati nella carne a fissare il proprio ego attraverso un torace nudo. « ...in questo posto? »
Il mondo di fuori l'aveva dimenticato e condannato. Nonostante ciò, riusciva a non cogliere l'ilarità di quel paradosso singolare.
Nella gola del mondo avrebbero trovato un altro mondo. Un mondo migliore, nato dal dubbio e partorito dall'inganno. Ma tanto reale da sembrare perfetto.
L'avrebbero chiamato in modi infiniti.

Nuova Basiledra.
Grande Lithien
Taanach la vincente

O con qualunque nome altrettanto altisonante da riempire i propri ego.
Sarebbe stata trionfale e bellissima; disegnata nei loro cuori come soltanto loro se la sarebbero immaginata.
E i loro eserciti avrebbero imboccato una di tre strade, con altrettanti pericoli.
« La loro è una guerra di conquista » asserì con fare distratto, quasi qualcuno gli suggerisse le parole. « Mirano al tuo cuore, ma dici che devono guadagnarsi la tua corte. »
Perché la vita nel Baathos non è comunque facile.
Una via avrebbe visto opposto il più grande degli eserciti terrestri. Umani, nani, elfi o bestie, poco importava. Sarebbe stata una lotta di campo.
La seconda via si sarebbe districata tra i tetti dei palazzi, col pericolo che scende dall'alto. Draghi, viverne, aquile. Una di queste avrebbe fatto comunque la differenza.
La terza via avrebbe visto gli invasori strisciare nelle profondità. Fogne, cunicoli, radici, terreno o altro, tra vermi, mostri e bestie del sottosuolo.

Tutto questo per raggiungere il centro della città.
Il trono del mondo e la porta verso il loro nuovo domani.
Tutto questo per raggiungere lui, l'araldo della bestia.
Diviso tra i ricordi del passato e gli ordini del suo signore.
Quel signore che odiava. Ma di cui non poteva fare a meno.

Perché lui era il suo nuovo Re.

« Mi manca » disse, biascicando piano. « Anche se mi ricordo poco di lui. »
« Ho nostalgia di ciò che eravamo e questo mi sta distruggendo. »
O forse lo distruggeva lui e il ricordo che lo costringeva a immaginare.
« Eseguirò i tuoi ordini » concluse, secco. Si sedette sul trono, stringendo la spada sottile nella mano destra. « Ma non sarai mai il mio Re »

« Non avrò altro Re all'infuori di Rainier. »
Poi fissò nel profondo del Baathos. Oltre la città e verso i cunicoli, dove gli iniziati avevano intrapreso la loro ultima discesa.
« Adesso venite, guerrieri. »

png

« Io sono Shakan Anter Deius » asserì, serio. « E vi sto aspettando. »



CITAZIONE
QM Point
In questo post dovrete descrivere la vostra discesa nel Baathos. La prima parte è indicativa del cammino vostro e dei vostri eserciti, ovvero delle numerose sfide cui saranno / sarete sottoposti e che dovrete cercare di rendere realisticamente nei vostri post. Infine, vi troverete dinanzi a una sfida diversa. Una volta terminata la discesa nella prima parte, troverete... una città. Siete liberi di descriverla come ritenete, potrebbe essere una grande capitale del Dortan, un enorme agglomerato tipico dell'Akeran o un insediamento elfico nell'Edhel. Ognuno di voi può vederla in modo diverso; immaginatevela in ogni dettaglio e descrivetela liberamente. I vostri eserciti potranno imboccare tre strade, così come descritto nel post, con pericoli annessi. Imbastite una strategia che garantisca a voi e al vostro esercito di sopravvivere fino al centro della città. Naturalmente ciascuno di voi può imboccare solo una strada, quindi organizzatevi.
Alla fine della corsa vi troverete dinanzi Shakan. Reagite come preferite, possibilmente senza essere autoconclusivi.
Dubbi o domande in confronto (...quant'è che non lo scrivevo?)


Edited by janz - 16/2/2020, 15:15
 
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4 replies since 27/12/2019, 14:01   297 views
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