«Questo abisso
in cui mi ritrovo
sempre; questo mare
in cui affogo...»
– A.L.
Il pianista carezzò i tasti, tracciando una •melodia nella Sala Grande.
Sotto la luce di un gargantuesco lucernario di cristalli, uomini vestiti di stracci sguainarono spade nascoste tra le sozze vesti e le infilzarono a tradimento nel costato delle guardie, assiepate ai piedi della Scalinata Reale. Caddero, una dopo l'altra. I loro ultimi rantoli erano soverchiati dalla musica.
In pochi istanti i militari risposero all'agguato, menando a loro volta gli stocchi per l'aere. Amputavano – e amputavano ancora, e ancora – le braccia d'ogni uomo che gli capitasse a tiro.
La nenia soffocava il rumore della rivolta, dipingendo il sangue di rossa poesia.
In cima alle scale, di fianco al pianoforte, il Generale •Ashurei osservava lo strazio, annoiato.
“Il tuo ultimo spettacolo mi delude, Principe”.
Portò la propria sciabola al volto dell'uomo che, ridotto sulle ginocchia, gli giaceva di fronte. La lama pigiava appena dalle tempie alle guance, scostandogli i capelli bianchi. Perimetrava con dovizia da dove cominciare a sfregiarlo.
“Oh, be'. Perché non guardi tu stesso?”
Lo afferrò dalla nuca e lo strattonò avanti, per un paio di scalini.
“I tuoi sozzi mercenari combattono il muro di guardie. Non è che un tragico spreco di carne, severo”.
Il Principe ansante alzò lo sguardo, stendendolo sulla battaglia che andava devastando la Sala.
“Ultime volontà, Principe?”.
“Voglio la Luna”.
Pausa.
“...La luna”, lo assecondò il Generale. asciutto. “E per farne che?”.
“E' una cosa che non ho”.
“Ahahah, già perdi il senno? Bene! Cercherò di procurartela”.
“Come vedi, non chiedo l'impossibile”.
“Peccato che non avrai la testa per godertela”.
“Tieni presente che l'ho già avuta”.
“Ah?”.
“La luna”.
“Sì, certo”.
“Io l'ho già avuta completamente. Soltanto tre volte, è vero. Ma insomma – sì, l'ho avuta”.
“Guarda che sto cercando di parlarti!”
“L'estate scorsa. L'avevo tanto guardata e accarezzata sulle colonne del giardino che aveva finito per capire”.
“Piantala con questo gioco, Caligola. Se tu non vuoi ascoltarmi–”
“Quello sì che è un fendente! Per tornare alla Luna, era una bella notte d'agosto. Lei faceva storie, io ero a letto. All'inizio vestiva di sangue all'orizzonte, poi ha preso a salire. Diventava un lago d'acqua lattiginosa al centro della notte, animata dal fremito di stelle...”
E così avanti.
Ashurei sospirò con sufficienza, colpendolo alla tempia con l'elsa della spada. Caligola tacque, scosso fin nel cervello.
“Possibile che tu – no; che loro, non abbiano ancora capito?
Ora taci, Baudelaire”.
Il pianista toccò l'ultima nota.
Come destati da un torpore omicida i sopravvissuti smisero per incanto di combattere, levandosi dai mucchi di cadaveri per alzare lo sguardo verso quei due.
Ashurei volse al cielo la spada, che ora rifletteva la luce dei cristalli. Un caldo bagliore di mezzogiorno.
“Dove vai, Generale? A cercarmi la luna?”
“Sei storia, Caligola”.
Giù.
Un tonfo sordo, reso eco dal silenzio adamantino della Sala.
Il corpo di Caligola si afflosciò scomposto, sgraziato, mentre la testa rotolava più in basso.
Il sangue continuava a zampillare dalle arterie del collo inzuppando le scale di rigagnoli.
Nei volti di tutti si dipinse il raccapriccio. Ashurei, per contraltare, era l'espressione della gloria.
Un ghigno trionfale gli deformava il viso, le pupille ridotte a due fessure che guardavano lontano.
Soltanto i fiati spezzati dei mercenari scandivano il tempo della tragedia.
“Così muore Heine Caligola Vanhove, Principe di Cerventes”.
Si pietrificò all'istante, Ashurei. Negli occhi gli si leggeva ancora il sapore della vittoria. Tutti si volsero di scatto verso il portone, che andava schiudendosi.
Un altro Caligola, a passo lento, ne varcò la soglia.
“Ecco dove ti ha portato il tuo desiderio di Storia, Ashurei. Guardati attorno”.
Il Principe schioccò le dita.
Il Generale strabuzzò gli occhi, guardando ora la testa tranciata che giaceva a terra poco più in basso, ora l'uomo che gli si parava davanti, in tutto e per tutto identico alla vittima.
Caligola levò una mano al cielo, a vantare la maestosità di tutta quella morte.
Della sua morte.
“TU...! Tu, dovresti essere morto!”
“E lo sono”.
“Io... ti ho ucciso.”
“Così è”.
“Ma non sono pazzo e mi sei di fronte. Vivo!”
“Nulla e passato hanno lo stesso processo creativo”.
Tutti stettero, in quegli attimi. Cristallizzati al tempo.
Soltanto i due seguitavano a discutere.
“E... parli”.
“Si ha sempre qualcosa da dire. Specialmente da morti”.
Il Principe schioccò le dita.
Filamenti tremebondi d'energia fluirono dalla sua pelle. Ora bianchi, ora neri, si srotolavano per la sala come tappeti. Oltrepassarono la testa mozzata e presero a salire le scale, intrecciandosi al sangue e al cadavere.
“No– fermati. Così morirò”.
“Così tornerai”.
Le guardie e gli uomini superstiti, coi piedi già immersi in quel manto di chiaroscuro, si strinsero all'elsa delle loro spade, paralizzati.
“Questo luogo non esiste. Questi fatti non esistono”.
Ashurei indietreggiò, fino al pianoforte muto. Gettò lo sguardo alle proprie spalle.
Baudelaire era scomparso.
I filamenti gli sfiorarono i calzari. Deglutì.
“...Che cosa sei, Caligola?”
“Mi vorrai un nome migliore del mio”.
Il Principe schioccò le dita.
Tutti i fili saettarono all'unisono, correndo alle carni degli uomini.
Nere grida di dolore riempirono ogni angolo della Sala Grande. Cercavano di difendersi, di menar fendenti contro quei rovi di spine mortifere, ma questi continuavano a segargli le dita, a strappargli la faccia dal cranio, a squarciargli il busto da parte a parte, rovesciando al di fuori le interiora.
“MOSTRO, CALIGOLA, MOSTRO!”
Il Principe sollevò il collo sottile, fissando l'immagine del Generale nelle pupille.
“E' un buon inizio”.
In quell'istante il bianco e il nero precipitarono sotto i suoi piedi. Il lucernario smise di riflettere la luce del mezzogiorno; l'intera scena andrò in frantumi come cristallo. Ogni contorno della Sala Grande si fece più lontano, indistinto.
Il sipario calò di fronte ai suoi occhi, soffiandolo via da quella situazione come vento che va a dissolversi nell'oceano.
E, dolcemente, cadde.
“Dunque lascerai che ti catturino”.
•Beramode si passò la spazzola tra i capelli, specchiandosi nuda sullo sgabello.
Caligola, disteso sul letto, fissava la luce lunare sulla finestra, assente.
“Cosa ne pensi del potere?”.
“Vuoi sapere cosa penso della libertà, Caligola?”.
“Sì, in effetti – intendo questo”.
“Penso che essere morto non farà di te un santo”.
“Ma non esiste che una libertà, quella del condannato a morte. Perché tutto gli è indifferente al di fuori del colpo che farà scorrere il suo sangue. Ecco perché in tutto il Principato l'unico uomo libero è Caligola, circondato da una nazione di schiavi”.
Beramode stette a riflettere e a riflettersi. Arricciò appena l'angolo delle labbra.
“Hai male al cuore, Caligola”.
“E' così”.
“E in questo abisso mi ritrovo sempre”.
“”Sei la sola donna che non mi ha mai carezzato i capelli. Rimani.
Beramode si morse un labbro, lasciando cadere la spazzola. Pausa.
“...Resterò al tuo fianco. Forse ne verrò fuori”.
Caligola mormorò.
“Sapevo che si può arrivare alla disperazione. Ma non sapevo cosa volesse dire”.
“Non essere sciocco, Caligola”. Girò il collo verso il suo amante. La luna le baluginava in volto. “Tu sei un mostro”. Sorrise.
Il Principe schiuse le labbra, abbassando lo sguardo su di lei.
Ivi si perse.
“Mostro per aver troppo amato”.
La tela attorno a lui prese a dipingersi.
Ora un cielo macchiato di nuvole, ora i tetti rossastri delle case in lontananza. Venne il tempo di un'aria mite, rinfrancata dal sole – e di manti d'erba trapuntati di frutti e ortaggi, ben ordinati sino all'orizzonte in file di terra.
“...Umpf. E' questo il tuo gioco, Saturnalia*?”.
Il Vanhove si guardò intorno dopo aver mormorato quelle parole.
Alla sua sinistra stava un accampamento, con tende agghindate da lance e spade accatastate nei loro pressi. Il cigolio degli armamenti si scandiva col passo duro ma sordo dei calzari su tappeti d'erba.
Di fronte a lui, invece, distavano una mezza giornata le torri biancastre di un centro abitato.
Flesse il collo su una spalla, soppesando la situazione.
Quindi, senza più di qualche secondo d'esperienza in quella realtà ignota, volse a sinistra e si incamminò verso il campo militare, portandosi al confine con le prime tende.
“Ohilà, del posto”.
CITAZIONE
*Nome dato da Caligola al suo Potere.