Una dolce follia Nell'amore della scienza.
Una farfalla. Una piccola dolce farfallina che danzava allegramente nei campi fioriti. E lui, immobile, la osservava, all’ombra di un albero frondoso. Per quale diavolo di ragione si trovava in quel luogo? Non ne aveva la più pallida idea. Provò ad alzarsi ma il suo corpo non rispose, come se immobilizzato da uno spaventoso torpore. Si trattava forse di un sogno? Con fare lento l’insetto svolazzante lo raggiunse, posandosi sulle sue mani fredde. Lo fissava, o almeno l’illusionista pensava di essere fissato dalla creaturina. Gli dava fastidio. Non l’animale: si trattava pur sempre di un essere abbastanza bello, con ali color viola di varie sfumature. Ciò che lo disturbava era il non potersi muovere. Passarono diversi minuti, nella più totale immobilità dei due, dopodiché la farfalla, inaspettatamente, disse:
« Che hai da guardare? »
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Si svegliò, maledicendo l'assurdità dei sogni che faceva ormai da troppo tempo. Era andato dallo psicologo del clan, ma questo si era limitato a ignorarlo per poi iniettargli un sedativo a tradimento. Quel bastardo d’un Sewing... Aprì gli occhi ma questi si richiusero immediatamente, di scatto. Riprovo più lentamente: una fortissima luce lo circondava, non riusciva nemmeno a vedere l’ambiente in cui si trovava. Sbatté le palpebre diverse volte prima di abituarsi al bianco. Le forme erano ancora confuse ma poteva definirle almeno vagamente. Era sdraiato in un letto, fissando un soffitto sconosciuto. Dove si trovava? Gli ci volle qualche minuto perché la vista si normalizzasse. Ora che poteva vedere meglio la stanza capì che non era la luce a essere troppo forte, ma erano i suoi occhi a non essere abituati. Mosse il braccio destro, che immediatamente inviò una sensazione di dolore al cervello. Il giovane sopportò il dolore e continuò a muovere l’arto. I muscoli rattrappiti iniziarono a riattivarsi e il dolore scemò pian piano. Gli faceva male la testa ma si trattava di un disagio sopportabile. Cos’era successo? Perché si trovava in quell’ambiente che sembrava tanto un ospedale?
Si sentiva debole, molto debole, come se privato delle sue energie. Portò la mano alla testa, constatando che gran parte di essa era avvolta da una morbida benda. La mano, al contatto con il tessuto, ebbe diversi effetti su Drakar. In primis un forte dolore investì la sua mente: chiaramente era ferito alla testa. Subito seguì la sensazione di mancanza, prima un sospetto, poi una certezza: non aveva più i capelli. Non gli ci volle molto per collegare i due fatti: probabilmente era stato rasato per essere poi operato in un ospedale a lui sconosciuto. Cosa gli era capitato?
L’illusionista, beh è una persona logica, ferma. Sa valutare ogni situazione, ogni possibile azione e reazione. Deve pensare razionalmente. Eppure, in quell’ambiente a lui estraneo, ferito alla testa e praticamente immobilizzato, ciò di cui si preoccupò inizialmente furono solo i suoi capelli. I suoi bei, lunghi ciuffi non c’erano più, al loro posto nuda pelle. Una profonda tristezza lo pervase, ma dopo qualche secondo la razionalità prese il sopravvento sulla vanità. Era ora di pensare alle cose serie.
Provò a muovere gli occhi ma sentì che solo il sinistro si lasciava comandare, mentre il destro, il suo occhio rosso, rimaneva immobile, come se privato di vita. Eppure ci vedeva: solo non riusciva a muoverlo. Provò a sollevare il braccio sinistro e, oltre alla normale sensazione di dolore, sentì qualcosa che lo tratteneva: una cordicella, anzi, una flebo. Probabilmente un qualche antidolorifico o un sedativo. Spinse le mani sul materasso molle, alzando leggermente il corpo, tirandosi su, ma poco dopo ricadde sul cuscino, esausto. Da quanto tempo era addormentato? Quanti giorni erano passati?
Si guardò attorno. Non era solo nella stanza: altre tre persone lo circondavano, anch’esse sdraiate nei loro letti. Davanti a lui un uomo, apparentemente addormentato, con un braccio completamente fasciato. Sembrava che avesse qualcosa di serio ma come poteva dirlo? In fondo anche lui stesso avrebbe potuto avere chissà cosa dentro la propria testa. Accanto a lui si trovava un ragazzino. Non sembrava avere nulla di serio, al contrario degli altri. Infine, nell’altro capo della stanza si trovava una ragazza, una giovane fanciulla che aveva già visto non molto tempo prima. Si chiamava Zaide, se non ricordava male. Cosa diavolo ci faceva lì? Sembrava quella messa peggio: era attaccata a una macchina che, periodicamente, si muoveva, emettendo ossigeno, linfa vitale per il corpo della recluta.
Addosso non aveva i suoi vestiti ma una semplice veste bianca, tipica degli ambienti medici. Guardò attorno a sé, in cerca dei propri effetti personali, ma non ebbe successo. Era stanco, stanco di non conoscere né il luogo in cui si trovava né gran parte delle persone che gli facevano compagnia in quel triste ambiente. Non era spaventato, non era il tipo da lasciarsi prendere dal panico, ma in quel momento si sentiva debole sia fisicamente che psicologicamente. Un essere vulnerabile. E questo non gli andava a genio. Chi lo aveva ferito? Com’era successo? Dove si trovava? Chi lo aveva curato?
Troppe le domande, poche le idee. Era arrivato il momento di cercare delle risposte.
« Se qualcuno tra voi è vivo e cosciente, per piacere dica “ahia”, grazie. »
E come suo solito si nascose dietro all’umorismo. |