Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Valzer al Crepuscolo ~ King's Doawn

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~ D a l y s
view post Posted on 14/11/2011, 19:13





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I close my eyes
Close the door
I won't worry anymore
I've been waiting for you
Every day and every night



Sbattè le palpebre.
E continuò a ripete esattamente gli stessi gesti di poco prima. Passi sconnessi, un piede avanti all’altro, le scarpette rosse lorde di sangue e di terriccio, le braccia avvolte attorno al petto nella ricerca disperata di altro calore che non fosse il proprio. Le punte scarlatte affondavano nel terreno, sollevando terra umida. Ma non se ne curava, non le importava. Non aveva alcuna rilevanza che tutto il suo corpo fosse sporco, contuso, irriconoscibile. Gli occhi, celati da ciocche unte e arruffate di capelli, non registravano alcuna immagine, lasciavano che tutto scivolasse via, come trasportato dalla corrente.
Aveva sbattuto le palpebre, e già non ricordava più cosa fosse successo un secondo prima. Il vuoto, l’oscurità, come il buio che li aveva avvolti. Per un secondo non aveva respirato più. Per un secondo ogni sua emozione era stata totalizzata, contratta, come un pensiero nel punto a fine frase. Esitazione, sospensione. E quando tutto si era riespanso, lei aveva semplicemente continuato a vivere, un po’ come le pietre e le canne spezzate da quella carica impetuosa, un po’ come le nubi scarmigliate dal vento. Eppure tutto dentro di lei era stato scomposto, come costruzioni dalla mano ingenua di un bambino.
Dov’era la Rosa? Dov’era la Principessa? Dove si era perso il suo sorriso, il suo corpo rivestito di malizia?
Inutile annaspare in quel disastro, inutile cercare disperatamente ciò che era stato perduto. Era semplicemente tutto finito. Nulla sarebbe più stato come prima. Questo l’aveva capito subito. Non ricordava quando subito, ma la sensazione aveva radici profondi, quindi doveva essere molto prima. Quando aveva iniziato a camminare. O forse stava camminando da sempre senza saperlo.



Cut the light
Let it fade
I don't wanna be afraid
I've been waiting for you



Aveva perso tutto. Sentiva dentro di sé il vuoto. Oscillava da una parte all’altra dello stomaco, le stringeva la gola, le impediva di pensare lucidamente. Anche se non lo aveva visto morire. Anche se non le aveva sussurrato nulla all’orecchio, se i suoi occhi non l’avevano fissata. Sapeva che non c’era più. Lui che era entrato in lei con violenza e se la era portata via. Lui che l’aveva piegata sottomettendola al proprio volere. Aveva confidato in lei e lei lo aveva deluso. E ora lui non era più. Non c’era il suo sangue a terra, non c’erano le sue membra tra le altre. Eppure non era più in mezzo a loro. E lei era sola. Anche se non lo amava. Anche se non lo aveva veduto che poche volte.
Si abbracciava e ricordava la sensazione del suo tocco, del terrore che lui le ispirava, degli incubi che aveva risvegliato dentro di lei. E le sue dita erano in realtà quelle di lui, e per un attimo levava il capo, credendo le stesse davanti. Che sarebbe venuto per trascinarla ancora con sé.
Incespicò, saltellò in avanti per qualche passo, come se si trattasse di un gioco. Pareva goffa. Ma era la Danzatrice. Un frammento del mosaico, un cristallo incrinato di lei era anche quello. Si domandò se lo avrebbe ricomposto mai. Si morse un labbro già lacerato. Forse no, forse mai più.
Chiuse gli occhi. Non sapeva quando li avesse aperti per la prima volta dopo quel buio. Nel momento in cui lui li aveva lasciati tutti, in cui aveva gettato via lei dal proprio palmo come un granello di polvere, lei doveva averlo percepito. Eppure non lo ricordava. Mugolò di dolore, si strinse le tempie con le mani. Non poteva averlo rimosso per davvero. Doveva essere lì, da qualche parte, un ricordo tra tutti gli altri.
C’era un corpo a terra, c’erano molti corpi. Erano morti. I suoi occhi inconsapevoli e pietosi raccolsero l’ultima testimonianza di quella presenza. Sputò a terra. Loro non erano lui.
Aprì gli occhi. Sbattè le palpebre.
Allargò le braccia, ruotando lentamente su se stessa. Era forse l’unica creatura viva in quel campo di battaglia. Dio quanto era buffo quel pensiero. L’unica viva. E poteva danzare davanti a un pubblico di spettri. Inclinò il busto per disegnare cerchi nello spazio, le dita come pennelli. Non c’era più smalto scarlatto su quelle unghie. Non c’era più Dalys. Ma solo un bozzolo senza anima, un involucro senza cuore. Sapeva di amare, amare per obbligo. Sapeva di aver odiato. Sapeva tutto questo così come sapeva di dover respirare. Ma Ray non c’era. E non c’era più il Toryu. E non c’era più una Danzatrice del Toryu.
Game over.
Una piroetta nell’aria. Perché sapeva farlo. Perché sarebbe stato sciocco non sfruttare tutti i movimenti possibili di quel contenitore inutile. Era ferita alla coscia. Sibilò un insulto tra i denti. Una lacrima salata le scivolò lungo la guancia.
Atterrò su un ginocchio. Da quell’altezza poteva sentire l’odore dei corpi putrefatti. E al di sotto, lontano, un profumo familiare, fruttato. Era il proprio. Veramente? Era lei a profumare a quel modo, come una puttana? Si concesse un sorriso, perché non ricordava quando avesse sorriso l’ultima volta. Non ricordava nemmeno cosa fosse sorridere, e non sapeva se lo avrebbe fatto più. Era doloroso. Era il ricordo del Maniero e delle sue sale, e degli occhi su di lei che era un’altra, ma solo perché era il Sovrano a deciderlo. Solo perché lui tesseva le fila di quel gioco perverso, un gioco più grande di tutti gli altri.
Ora lo aveva vinto. Si era annoiato. Non avrebbe giocato più. E abbandonava tutti i propri burattini tagliandone i fili.
Rotolò sulla schiena e fissò il cielo, un cielo come tutti gli altri. Un cielo che non ricordava niente. I suoi occhi d’acciaio vi sprofondarono, appagati. E non c’era più nulla. C’era solo la luce sopra di lei, l’umidità rivoltante al di sotto. Ed era come morta, come tutti gli altri. Si confondeva con loro, i capelli a ventaglio attorno alle spalle. Era bello.



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Sbattè le palpebre.
E si stava facendo aria con un ventaglio che non ricordava di avere richiamato. Era straordinariamente elegante e pulito per essere tra quelle dita. Le copriva la bocca vezzoso, mentre si muoveva elegante nel nulla. Salve, buon cavaliere, vorrebbe danzare con me? Ma certo, signora, il Re permettendo. Il Re non c’è più. Risate. Silenzio. Spavento.
I suoi passi erano ancheggianti, sospingevano una gonna ideale. Sollevavano balze di pizzo inesistenti, facevano del sangue una pittura naturale sul suo volto. Era una festa. La sua festa senza invitati.
Allargò il braccio sinistro, quasi a comprendere tutti coloro che erano giunti per vederla. La Principessa si concederà al miglior offerente, fatevi avanti. Ma non ci sono offerenti. Risata. Silenzio. Terrore.
I suoi occhi cercarono il Ray. Cercarono un appiglio. Cercarono una verità. E sarebbero sprofondati di nuovo nel nulla. Nel tempo passato dal cielo al ventaglio. Un tempo che non ricordava.
Ma vennero interrotti. C’era qualcosa nel mezzo dei corpi, qualcosa di vivo. Qualcosa che si muoveva. Qualcosa di familiare. Non avrebbe dovuto ricordarlo. Non avrebbe voluto. Ma lui era alla corte, come lei. Lui era uguale a lei eppure diverso. Lui era l’uomo che sedeva ai piedi del trono, il secondo gradino della scala, la mano che mai l’aveva sfiorata.
Ed. Era. Vivo.
Lui era vivo.
Vivo.
Ed era l’ultima cosa oltre a lei che rimaneva del Sovrano. Rabbia. Dolore. Malinconia. Solamente loro portavano le spoglie di quel manto, di quello scettro. I suoi passi trovarono una direzione. E ora ricordava. E ora le sue spalle si sollevavano. Inclinò il capo e i suoi occhi ritrovarono lucidità. Il ventaglio scomparì nell’aria, mentre le sue dita si sollevavano a lisciare le ciocche di capelli ricadute sulla fronte e sulle guance. Si accorse di avere pianto. Quando? Non ricordava.
Si fermò sopra di lui. Lo guardò. Non era in buone condizioni. E nemmeno lei, anche se diversamente. Era immobile, e forse lui nemmeno l’aveva vista. Il Principe e la Principessa. Non avevano nulla da dirsi. Lo fissò e si chiese se avrebbe dovuto fare qualcosa, o semplicemente inginocchiarsi al suo fianco e lasciar trascorrere il tempo, e dimenticare tutto.
Il mento le ricadde contro il petto.
L’altro stava soffrendo.
Anche lei.
E il Toryu non aveva più un re.



Sennar…



Non sembrava nemmeno la sua voce. O forse semplicemente non la ricordava più.


 
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Andre_03
view post Posted on 15/11/2011, 09:58




Quando tutto finì, quando ogni cosa svanì per poi riapparire, loro erano là.
Cinque sagome indistinte stagliate contro un crepuscolo ormai calato nell'oscurità della notte, sotto un cielo senza stelle poiché coperto dai fumi della guerra. Chi seduto, chi sdraiato perché privo di sensi, chi in piedi a contemplare il mondo così com'era cambiato nel corso di poche apocalittiche ore. Ed erano loro, lo sentivano nel cuore - tenebroso come i momenti più bui di quella ballata catastrofica - erano loro ad aver vinto la battaglia finale. Traditori, li avrebbero chiamati. Mostri, lo erano sempre stati. Mercenari, allora e per sempre. Anche se privati di un Re da servire, seguire, seppellire; anche se qualcuna delle loro teste era stata mozzata, altre ne sarebbero cresciute. Più pericolose e potenti di prima.
Una grottesca idra che prendeva il posto di un Leviatano scomparso.
Sei - anzi no: cinque - com'eran sette.
Ed uno sarebbero stati.
Ancora.

« È ancora vivo? »

Un Hoggar visibilmente esausto sorseggiava del liquore da una fiaschetta.
Al suo fianco, accovacciato su se stesso come un gorilla ammaestrato, Rorge rosicchiava un osso da cui ancora grondava sangue. Lembi di carne annerita gli imbrattavano il muso deforme, senza che a nessuno della combriccola importasse granché. Poco oltre, il Maestro della Cittadella era chino sul corpo esanime del Quarto dei Bravi, intento a rattopparlo alla bell'e meglio.

« Se la caverà. Gli Harrenhall erano gente forte. » prima che il loro Lord li sterminasse
« Vuoi che dia un'occhiata anche a te, fratello? »

« Fottiti. »

Oberrin era tornato presto dalla sua missione.
Appena in tempo per godere dello spettacolo offerto dalla nave volante e dal suo impulsivo capitano. Poi, sul margine della fine, aveva accettato a braccia aperte la nuova realtà riscritta da Ray, senza timore alcuno. Così anche quando tutto era tornato alla normalità non sembrava né deluso, né sorpreso; aveva osservato il caos dipanarsi lungo le strade del continente e tanto gli era bastato.
Quello scambio di battute col buon tre-dita gli aveva restituito un sorriso.
Nessuno parlava degli assenti, tranne uno:

« Dov'è Shag? » Asmodeus ruppe il suo silenzio,
senza che però la voce tradisse preoccupazione, o interesse;
era sempre lì: zitto, intento ad osservare e prender nota
come uno spettatore non pagante.

[...]

Aveva camminato a piedi nudi sulla terra bagnata di sangue e budella.
Come ubriaco si era aggirato per il campo di battaglia osservando la distruzione intorno a sé, sorridendo; godendone; abbagliato da tanto caos che neppure i suoi sogni più reconditi e disturbati avrebbero potuto donargli. Tanto dolore, tanta distruzione. La sua vita era finita (di nuovo) tra gli applausi scroscianti del pubblico, le urla di giubilo della folla. Ed era tornata (di nuovo) la luce, il respiro. Tra la devastazione della terra di Asgradel e le lacrime dei vincitori.
Aveva camminato a piedi nudi, rapito.
Era come attraversare un portale e trovarsi dentro un mondo nuovo, identico a quello da cui era partito ma ciononostante suo. Mai come allora Shagwell aveva sentito di appartenere a un luogo. Erano nati insieme, nello stesso istante, lui e quella landa desolata. Essa aveva tutte le caratteristiche di un Eden distopico e sanguinoso. La amava, forse? La odiava, magari? Entrambe le cose; e ne rise, ne rise forte.

Ma adesso era lì, fermo immobile ad osservare.
Non muoveva un muscolo, nell'aria carica di tensione in cui nemmeno il vento osava filtrare. Accovacciato su una roccia li osservava sereno, ma senza sorriso sulle labbra sporche di sangue rappreso. Il trucco da battaglia era colato col sudore, con la fuliggine di una guerra non sua - non stavolta. E gli occhi purpurei erano fari scintillanti in quel miasma lercio.

« Un moribondo e una puttana. »
all'improvviso la sua voce ruppe il silenzio « Non c'è male. »
« Non c'è male davvero. »

Ridacchiò annunciando la propria presenza su un masso, accovacciato come avvoltoio in cerca di carcasse.
E sì che le aveva trovate, due carogne in decomposizione su cui saziare la sua fame di violenza. A entrambe aveva già fatto assaggiare le sue spade (in un modo o nell'altro) e poteva ben dire di conoscere il loro sapore. Eppure non mosse un passo, rimanendo là a guardarli dall'alto di una posizione volutamente sopraelevata rispetto a quella di Dalys e di Sennar. Li osservava forte di una rinnovata superiorità: ora non erano più suoi pari, no.

« Sono passato a portarvi dei saluti, miei buoni Signori. »

Lo disse prima che potessero apri bocca, prima che lo stupore lasciasse spazio alla rabbia.
Quel cambio di atteggiamento repentino, poi, era volutamente canzonatorio: lo dicevano, strillando, il suo sorriso e i suoi occhi. Si leccò le labbra per incrociare dunque lo sguardo di Dalys, la più lucida dei due.

« I Bravi non serviranno più questa corona-- »
ammiccò: « -ci congediamo. »

Solo allora si levò in piedi, con l'espressione del viso che mutava in una pericolosa minaccia.
"Siamo nemici ora;" li ammoniva "ricordatelo."
Voltando le spalle a quella gente, a quella vita, a quel Clan che molto gli aveva dato
e a cui lui altrettanto aveva tolto, aggiunse soltanto poche altre parole:

« Il Toryu ha già perso un Re, oggi. » in tono solenne, o quasi
« Se anche il suo erede morisse, sarebbe una tragedia. »
(pausa, ghigno, pausa)
« Dico bene, Lord Sennar? »

Shagwell "il Giullare" scomparve così, tra le nebbie della guerra
lasciando solo uno scomposto connubio di risate e tintinnii
a testimoniare il suo passaggio su quel palcoscenico.

 
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view post Posted on 15/11/2011, 21:59
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Esempio
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La mancina si mosse lentamente, strisciando sul petto attraverso la polvere e sangue proprio e altrui su, fino a raggiungere il collo. Le dita gelide affondarono con cautela sul sangue raggrumato, e dalla ferita pulsante ai polpastrelli serpeggiò un fulmineo e bruciante calore. A sua volta lo squarcio insanguinato si animò di un nuovo dolore: e così di nuovo e ancora, ancora per un tempo che non si preoccupava di contare, al solo scopo di confermare a sé stesso di essere ancora vivo. Sennar giaceva a terra immobile e incapace di muoversi, alla mercé di un letale freddo che stringeva le sue membra in una morsa pungente, al pari di un cadavere: solo quel caldo, pungente, vivido dolore in un punto imprecisato del collo, dove il guitto Bronnigar l'aveva ucciso con un affondo letale che letale non doveva essere stato, lo teneva in vita.
Dopo ore, forse giorni di inconscio oscillare sul filo tra la vita e la morte, era precipitato -dolorosamente- dalla parte giusta; ma ora che vecchi e nuovi mostri minacciavano di bussare alla sua porta, non voleva accettare nulla di tutto ciò, pateticamente cercando di trovare una prova che si sbagliasse. E quel dolore pulsante, che poteva essere tutto tranne che surreale, continuava a confermargli i suoi doveri di vivo. Alla fine la sua mente si abbandonò frustrata al terreno, così come il suo corpo, lasciando che una legione di pensieri rifiutati ne sfondasse le barriere e lo aggredisse da ogni lato.
Ho fallito.

Il panorama della distruzione gli scombussolò le interiora come mai avrebbe immaginato: la consapevolezza della mancanza, presente più che mai, premette sul suo cuore in tutta la sua realtà. A poca distanza si stagliavano le rovine del fu Bianco Maniero, nient'altro che un accatastarsi di mura distrutte che di bianco, ormai, avevano solo il nome. Il borgo, ricostruito magicamente, poggiava le fondamenta sul sangue e i resti di chi per lui aveva combattuto e in cambio della vittoria, che in quell'occasione assumeva i contorni di vuoto fregio privo di utilità, avevano perso tutto il resto. E così anche Sennar, a cui rimaneva soltanto la vita e una consapevolezza del finire che, a differenza della vita, non aveva modo di negare: le immagini di devastazione che i suoi occhi gli mostravano lo trafiggevano come una foresta di pugnali sul petto e bruciavano più dolorosi di ogni altra ferita. La presenza di Ray, il re che aveva servito fedelmente per anni e che tanto aveva significato era finito nell'oblio dopo aver vissuto il suo grande apice; e l'unica sua eredità era un Borgo abitato dalle anime erranti e cadaveri sepolti sotto le case.

E proprio all'udire un rumore di passi velato, quasi spettrale, le membra del principe s'empirono di inquietudine. La mancina fulminea corse verso l'elsa della spada, in un patetico atto di difesa che sapevano entrambi, lui e l'altro, inutile: così l'elsa gli scivolò via dalle dita con dolcezza, cadendo in un sordo tonfo pochi centimetri più sotto, prima della mano stessa che la reggeva. Ma la donna gli lasciò un'istante di rassegnazione alla sua fine prossima, prima di stagliarsi dinanzi a lui -più vicina- facendosi riconoscere come tale; il suo incedere sembrava comunicargli il dolore che stava provando; un dolore simile al suo; lo stesso.
Lei l'aveva notato, e lui aveva notato lei, la donna che aveva servito il Re insieme a lui, come sua pari.
L'unica che potesse capire cosa, in quel momento, stesse attraversando.
Sennar…

D-Da...lys.” ansimò il principe, raccogliendo tutto il fiato che le sue condizioni gli concedevano. Con soltanto un nome, condivise con tutto il suo dolore come lei aveva fatto; un dolore che, sebbene condiviso, sembrava anzi intensificarsi mille volte di più. La guardò in volto, solcando le gote rigate di lacrime sino agli occhi lucidi, con la patetica impotenza di chi voleva aiutare, inconsapevole che avrebbe prima dovuto essere aiutato...

emachina01015

All'improvviso una fragorosa risata sembrò squarciare in due il silenzio stesso, e poi spaccandolo in milioni di frammenti che s'abbatterono sulla terra come una pioggia di vetro. Sennar non tardò a sollevare irato lo sguardo per notare due pozzi di veleno violaceo scrutare i due più grandi servi di Ray dall'alto, incastonati in una figura esile e slanciata. Non lo riconobbe né per la voce, né per l'aspetto, ma per quell'interminabile e cadenzato tintinnio, che aveva imparato a ritenere presagio di malaugurio:
Shagwell, il Giullare, era sopravvissuto alla guerra del Crepuscolo.
« Sono passato a portarvi dei saluti, miei buoni Signori » disse, mentre una rabbia inesprimibile montava sul volto di Sennar, deformato dal dolore fisico.
« I Bravi non serviranno più questa corona: ci congediamo. »
Solo allora il guitto si erse in tutta la sua statura, voltando le spalle ai due gerarchi di Ray in segno di una nuova superiorità.
« Il Toryu ha già perso un Re, oggi. Se anche il suo erede morisse, sarebbe una tragedia. »
« Dico bene, Lord Sennar? »

E nel momento in cui mise a fuoco le spalle del Giullare, con le iridi in fiamme, questi disparve nella nebbia: ma il merito del giullare, in quella storia, non era di avere seminato un seme di rabbia, bensì quello di aver nutrito un seme di odio latente. Un seme che, fecondato, si espanse rovente all'interno delle viscere del principe come lingue di fuoco attraverso le arterie. Il seme dell'impotenza: l'impossibilità di agire, l'inerzia in cui per anni aveva vissuto, in realtà soltanto paura di agire, paura del fallimento. Ma l'impulso di cambiare le cose s'era ormai fatto troppo intenso e incontrollabile, e si scatenò al suo interno. Con l'energia ancora rimastagli cercò di sollevarsi tenendosi ad una masso vicino, e riuscì a porre la schiena contro la roccia nuda. Carico di una rinnovata luce nello sguardo, Sennar fissò la Rosa nelle iridi smeraldine.

« Aiutami, Dalys. Ci stanno aspettando. » ansimò, laconico e ambiguo.
« Il nostro Re ci ha lasciato, ma la sua eredità è qui. Siamo noi. »
Sorrise, tossì sangue, sorrise.
« Andiamo a ricostruire il Toryu. »

narutoc402012eju




 
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~ D a l y s
view post Posted on 16/11/2011, 21:23




D-Da...lys.



L'aveva chiamata per nome dopo chissà quanto. Dopo le feste a palazzo in cui lei era la Principessa. Dopo i corridoi in cui lei era solamente la Rosa. Ora lui pronunciava quel nome, solo l'ennesima maschera con cui si celava agli occhi. Ma ora quella maschera era incrinata, era come creta rimasta troppo al contatto con il calore. Lunghe crepe si aprivano in quella che era già stata una debole difesa. Rimase a guardarlo, senza saper parlare. Era debole, indifeso. Non ci sarebbe voluto niente a portarlo via con sé. Sarebbe bastato chinarsi su di lui e inflilzarlo. E dirgli addio. E pronunciare il suo nome ancora. E morire lì, con un nome finto e uno vero nelle orecchie, con una storia troncata di netto e una già terminata. Addio per sempre. I suoi occhi parevano svuotati, infossati nelle orbite, già morti.
E poi all'improvviso un nuovo attore sulla scena. Un attore vivo, riconoscibile, colorato. Un attore ancora portatore dei colori della guerra. Gli occhi di lei ebbero un guizzo, il suo cuore un tuffo. Erano simili, il giullare e l'uomo che amava, talmente da farle stringere la gola alla ricerca del pianto. Erano così simili da farle tendere una mano invano. Non avrebbe richiamato indietro né l'uno né l'altro. Né loro né la sua bambina. Si guardarono per un attimo che parve dilatarsi all'infinito, tanto che pensò tutto si sarebbe fermato di nuovo. Forse avrebbe potuto riportare il tempo indietro, trascinarlo a forza fino al momento in cui lui le aveva donato la vita. Avrebbe potuto ritrovare la loro complicità bestiale, ferina. La complicità di due bestie del Toryu, due volti senza bisogno di nome, un unico colore fuso in quelle notti ricolme di certezza. Un Re. Un vizio da portare avanti alla sua ombra. Una mano pronta a stritolarli se avessero sbagliato.
Ma ora tutto era cambiato. Ora era una nuova alba, e all'alba gli amanti si salutano per sempre. L'uno fugge dal balcone, l'altra rimane a fissarlo mestamente alla finestra. E non si rivedranno mai più, non prima della morte. Lo guardò scomparire nella nebbia e a malapena sentì le sue esortazioni. Colse soltanto il suo atteggiamento, la smorfia di disprezzo di un nemico.
Il Re dunque aveva lasciato un erede. E quell'erede stava lentamente spegnendosi ai piedi di lei. Apatia. Tornò a guardarlo, questa volta notando la gravità delle sue ferite. Questa volta più lucida. Un brivido. Lo stomaco le si contorse ancora di più, levandole il fiato e obbligandola ad inginocchiarsi. Poggiò la fronte sul petto di lui, sul petto del nuovo re, nella parodia di un inchino. Il proprio giuramento di fedeltà, fallace quanto solo lei poteva essere.
Sentiva il respiro di lui, il suo petto sollevarsi e abbassarsi. Dietro le palpebre ancora vedeva il giullare e l'uomo che tanto gli somigliava, l'uomo che la odiava, il prezzo per i sentimenti di lei. La sua bambina le tendeva la mano in un prato fiorito, il prato del Maniero. E lei l'aveva cresciuta bene, ed era una principessina, ed era bellissima. Si strinse le braccia all'addome, strizzando gli occhi. Macchie di colore si portarono via tutto il resto Pensò che sarebbe morta. Lacrime bollenti ruppero l'argine.
Prese un respiro.
Poi un'altro.



« Il nostro Re ci ha lasciato, ma la sua eredità è qui. Siamo noi. »



Alzò il capo. Lo guardò. Aveva occhi semichiusi. Occhi stanchi. La vita danzava sulle sue labbra, cercando di sfuggirgli. Loro erano l'eredità del Re. Loro erano quanto rimaneva. Forse il Re si sarebbe dispiaciuto se lo avesse saputo. O forse loro erano solo la sua ultima ironia, l'ultima battuta lasciata scivolare nel nulla. Loro erano la loro eredità. Loro dovevano ricostruire le cose. Strinse i pugni. Odoravano di sangue e di sudore, e le lacrime e i segni del pianto le colavano sulle labbra. E sembrava solamente una bambina. Desiderò disperatamente una carezza al punto da annaspare.



« Andiamo a ricostruire il Toryu. »



E poi finì. Ogni sua emozione, ogni umanità. Poi era solamente la Rosa. E c'era il Toryu. Un regno spezzato come loro, un regno da rifare da capo. Una nuova sala, un nuovo banchetto, una nuova festa. Il suo corpo profumato a colorarsi d'oro dietro gli angoli, nudo. O forse qualcosa di più sottile, di più subdolo. Ancora non ne era certa. Eppure quando lui l'aveva chiamata per nome qualcosa si era mosso dentro di lei, il desiderio di recuperare quanto le era appartenuto e riportarlo indietro, al cospetto di quel trono distrutto, nel nome di colui che li aveva abbandonati tutti. Nel nome che non avrebbero mai potuto tradire.
Poggiò la propria mano alla base del collo del principe, si sporse fino a che non gli sfiorò la ferita con le labbra. Un gesto provocatorio, un bacio malizioso. Eppure mentre lo sfiorava lo curava, per quanto lei potesse fare. Non poteva ricreare la vita, non più. Lo cinse con le braccia, sollevandolo contro di sé. Era pesante, come un corpo senza forze. Era debole. Eppure insieme avrebbero potuto farcela.
Da soli non erano niente.
Gli asciugò il sangue dalle labbra con un dito. Insieme erano il Toryu. Insieme erano l'ultimo baluardo di quelle mura.
In quel borgo sorto dal nulla, in quelle case diroccate, avrebbe trovato qualcuno disposto ad aiutarli. Avrebbero ricominciato a piccoli passi. Avrebbero rimesso al proprio posto ogni singola pietra, riunito ogni singolo uomo ancora vivo. Strinse i denti, sentendo improvvisamente che ora ricordava. Che ora non poteva dimenticare più, solamente soffrire. Non poteva più essere semplicemente la Rosa, la Danzatrice, il fiore abbandonato nel vento, il più brillante di tutto il giardino. Doveva essere qualcosa di più. Per colui che amava e non avrebbe rivisto mai. Per la sua bambina. Per il suo Re. Entrambi i suoi Re.



Alzati, mio Sovrano.
Per quanto giacere qui al mio fianco possa essere piacevole, trovo non sia il momento
”.



I suoi occhi scintillarono ferini, la lingua guizzò sulle labbra. Sorrideva, il braccio dietro la schiena di lui. Sorrideva e improvvisamente trovava quella situazione molto buffa. Un po' di contegno, mia signora.
Fissò avanti a sé, fissò il campo distrutto, ciò che restava del Borgo, la carcassa del Maniero. E la sua espressione divenne improvvisamente neutra. E lei improvvisamente era Dalys. Il suo corpo divenne caldo sotto le dita di lui. Non piangeva più.

 
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