Territori Occidentali — Gli Eredi dei Grandi Casati —
La via piegava verso nord-ovest, aggirando le sponde del fiume per ricongiungersi con i crocevia che li avrebbero condotti verso la desolazione sorta ad ovest, ed infine al loro dovere. Una figura solitaria cavalcava nella loro direzione, e intravedendola Motoko tese le redini della propria cavalcatura, fermandosi e lasciando che gli eredi dei casati Takayanagi e Mikado potessero precederla mentre attendeva che la carrozza al centro del gruppo sfilasse al suo fianco. Diverse settimane di marcia non l'avevano resa nervosa, ogni ora di viaggio sembrava un'ora di ritardo in più. Tornare in oriente per chiamare a raccolta i Casati Nobili era stata la cosa giusta, si ripeteva. Ma restare e tentare il tutto per tutto per recuperare la Sesshoseki avrebbe potuto impedire quel disastro, forse.
« Nobile Konoka, » si schiarì la voce, e si costrinse a chiamare anche l'altra figura all'interno del carro: « nobile Hekigyoku no kage... » Quella faccenda era di competenza dei Sette Grandi Casati d'Oriente, quindi non approvava la scelta della Protettrice d'Oriente di inviare il suo maestro delle spie. D'altronde, quello era un ordine diretto di Lady Dalys del casato Cavendish, quindi discutere o disapprovare non aveva alcun senso. « E' in arrivo un messo. E' uno dei vostri uomini? » Si era chiesta se il maestro degli intrighi di palazzo avesse uomini sparsi anche in quei territori. Doveva sicuramente aver comprato occhi e orecchie alla capitale, ma quei luoghi erano lontani molte leghe, e le spie solitamente molto propense a vendersi o disertare.
Secondo Motoko, inoltre, in quell'impresa sarebbero servite spade, non sussurri. Con le parole non si vincono le guerre, per quello servono eserciti. Aveva avanzato quella lamentela assieme a praticamente ogni altro erede ai Casati Nobili, ma si erano sentiti rispondere che marciare con un'armata in terra straniera avrebbe scatenato non poche perplessità presso gli ambienti reali, e di certo il tutto si sarebbe risolto in un incidente diplomatico potenzialmente rovinoso. Si costrinse a non pensarci, e si concentrò sul messaggero in arrivo, che cavalcò a ridosso della piccola colonna di orientali, facendo vagare lo sguardo sui volti di fronte a lui.
« Cerco l'uomo chiamato Ditarosse. » Chiese lo straniero, suscitando non pochi sguardi obliqui. « Lo avete trovato. » Argun Sivael, Ditarosse, si fece avanti dalla coda della carovana. « I clan degli altipiani si sono radunati in una città vicina. Potete raggiungerla in mezza giornata, se affrettate il passo. »
« I clan degli altipiani? » Motoko era la prima a non capire. Ditarosse le rivolse un sorriso affilato: « avevamo bisogno di un esercito, giusto? »
Territori Occidentali — Crocevia ad Ovest —
Cittadina di Waulsort. Un pacifico buco da un centinaio di abitanti situato da qualche parte nelle contee del Veinn, nei pressi della sponda nord del fiume Regen. Qui siamo in quella zona del continente dove elfi, nani e demoni sono a malapena vaghe leggende, dove si sente parlare molto poco di Re e signori oscuri, ma sopratutto dove i pericoli maggiori sono rappresentati dalle periodiche esondazioni del fiume che di tanto in tanto distruggono qualche campo di grano di troppo. Mercanti e viaggiatori sono rari, da queste parti, e siamo distanti dalle usuali rotte percorse dalle compagnie di mercenari. Qui hanno reagito con moderato sgomento quando è circolata la voce di una desolazione di sale sorta all'improvviso là dove un tempo c'erano pianure e foreste lussureggianti. Qualche contadino ha poggiato i suoi attrezzi per invocare il Sovrano o qualsiasi altro Dio fosse in ascolto, i guardiani di porci hanno alzato gli occhi al cielo mentre badavano al bestiame e qualche lavandaia ha speso parole di preoccupazione sull'argomento. Nulla di più: le disgrazie sono cose di poco conto quando appaiono distanti, quando accadono ad altri. Poi all'improvviso un paio di volti stranieri si erano affacciati all'unica locanda del posto. Poi altri. Ed altri ancora... Nel giro di una settimana le riserve di vino e liquori erano agli sgoccioli.
L'oste era un omone grasso, dal collo taurino e dal volto sporco, che sembrava avere le guance e la fronte calva unte di grasso. Sulle prime aveva fatto i salti di gioia nel vedere la sua locanda traboccare di persone, poi dopo i successivi giorni di assedio costante -vedendo sempre più spade, pugnali e mazze da guerra in giro per il suo locale- aveva gradualmente iniziato a cambiare idea. Non aveva aiutanti né buttafuori, né tempo e modo per reclutarne di competenti. Aveva provato a chiedere ad uno dei suoi fratelli, che puntualmente si era fatto rompere il naso e parecchi denti alla sua prima serata. Non era abituato ad avere dozzine di persone ai suoi tavoli, e tantomeno mercenari ed avventurieri bizzarri, dagli sguardi truci e dai modi volgari. Prima in taverna si sentivano al massimo canzonacce da osteria. Adesso la sera si udiva il vociare di dozzine di accenti e canti stranieri.