Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Sandstorm; cenere alla cenere

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J!mmy
view post Posted on 10/4/2013, 01:01




E ad Adamo disse: « Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero,
di cui ti avevo comandato "Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua!",
con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita.
Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai! »

(Genesi 3, 16-19)

~ ~ ~


« Craaa! » fece un corvo in lontananza.
Quella notte, il Lord Assassino aveva sognato.
Era tardi, troppo. La piazza del mercato di Fortescuro, l’immenso cortiletto in pietra puntellato per un lato dai possenti tronconi delle mura e per l’altro dalle fatiscenti strutture in legno dei banchi di armaioli, contadini, artigiani e sarti, appariva assai più ampia e desolata di quanto non rammentasse. Non una singola bancarella era occupata, non un misero respiro si percepiva, né si udivano gli abitanti dei quartieri malfamati inneggiare all’anarchia e alla ribellione che – da mesi a quella parte – pareva oramai essere l’unico vero dogma del popolo. La fontana a foggia di gigantesca mano, schiusa verso l’alto quasi a voler ghermire il cielo, era arida e incrostata di lercio; l’acqua sembrava aver smesso di zampillare dai polpastrelli da anni e il marmo aveva iniziato a cedere in diversi punti del polso.
Cos’era successo? Era davvero trascorso tutto quel tempo? Dove diamine era finito?
Fu un secondo e più vicino gracidio di uccello a rispondergli. Duevite torse il collo a manca, accarezzando con lo sguardo la decadente taverna di Jick prima, l’arena delle serpi poi e la bottega del lugubre beccaio infine; fra tutti loro, quest’ultimo era certamente quello che se la passava meglio. “Che tu sia dannato” pensò, scostando lo sguardo “Non mi avrai mai!”
« Craaa! » gracchiò di nuovo il corvo « Craa-craa! »
L’atmosfera si fece pesante. A dispetto di ogni altro edificio, la catapecchia del beccaio s’illuminò. A lato della casupola si allungava un vasto cimitero, un giardino con davvero troppe lapidi ad affiorare dal terreno sterile e farinoso. Quando Nicholas poté trafiggere la nebbia, capì subito che l’essere che aveva sentito gracchiare fino ad allora non era che un corvo appollaiato proprio su una di quelle molte lastre, il cui epitaffio era però stato letteralmente sommerso da una fitta ragnatela di rigula, il muschio rosso del deserto. Non gl’importò più di tanto, d’altronde: era solo un altro nome inciso sulla pietra... un nome come tanti altri.
I cardini dell’uscio cigolarono, animando la porta di vita propria. In un istante l’ingresso si spalancò e Varry avvertì che qualcuno – o qualcosa – da qualche parte stava chiamandolo a gran voce e invitandolo ad entrare. Benché oltre cento piedi lo separassero dall’abitazione, il Primo Cavaliere sentì di non esserle distante a sufficienza da resistere alla sua malia. Come una piaga, essa si era propagata sui suoi arti, nelle sue ossa, nella sua anima. Tentò di opporsi, tentò di fuggire, ma per quanto cercasse disperatamente intorno a sé non vedeva altro che mura, invalicabili ed eteree. Doveva entrare, doveva farlo ma paventava che qualcosa di orribile l’attendesse oltre la soglia.
Mai come in quella notte aveva desiderato avere un dio da poter supplicare.
Lento e titubante cominciò a camminare, dunque, i tacchi degli stivali che ticchettavano sonoramente sul basalto pallido, il suo respiro che pareva ingrossarsi a ogni falcata di più. D’improvviso, però, i confini del cortile svanirono, così, dal nulla, diradandosi come fumo al vento e condensandosi in forme del tutto nuove ed estranee.
Si ritrovò al chiuso, nonostante il gelo lo stringesse ora al petto ben più di quanto non avesse fatto all’esterno, esattamente nel luogo dal quale aveva tanto anelato fuggire. L’antro era avvolto dalla penombra, illuminato solo a sprazzi da moccoli di cera ormai quasi del tutto consumati e spenti. La stanza era estremamente piccola e l’arredamento era povero e privo di qualsiasi suppellettile. Vide appesi alle pareti lunghi stendardi orlati d’oro e con l’emblema in campo nero di un minaccioso teschio a fauci spalancate. Sembrava guardarlo e urlargli contro ogni suo insuccesso, vomitargli la colpa della sua completa inettitudine. Abbassò gli occhi e vide quello che pareva un feretro, una bara. Fu allora che comprese ogni cosa: non era la casa del becchino, quella, ma un mausoleo!
Pur controvoglia allungò una mano, incontrando la pietra liscia e fredda del sarcofago. Era dello stesso colore nero dei vessilli e, soprattutto, non era stata del tutto sigillata: uno spiraglio scuro lasciava solo immaginare ciò che poteva celarsi all'interno; e in quello stesso spiraglio, Duevite infilò indice, anulare e medio. Tirò, quindi, con le forze che quasi gli venivano meno dallo sconforto, e ciò che vide fu quanto di più orrido potesse aspettarsi. Il Lord Assassino, per il nome stesso che gli era stato cucito addosso, era sempre stato un uomo duro, spietato, generato per uccidere come una lama veniva forgiata per trafiggere. Ma in quel momento, ironia della sorte, lacrime calde riempirono i suoi occhi sconvolti e dilaniati dall’angoscia: bella ancor più che in vita, fredda e livida come il cadavere che era, Rekla Estgardel giaceva inerme su petali di crisantemo e seta bianco latte. Nicholas non poté trattenersi, e il suo dolore eruppe in un pianto senza conforto.
Era colpa sua, solo colpa sua. Aveva fallito. Aveva lasciato che la sua regina andasse a morire, aveva lasciato che il regno che gli era stato affidato con onore andasse perduto nell’inestricabile dedalo della povertà e della disperazione. Era stato debole; non era neppure riuscito a rivelarle i suoi reali sentimenti: l’amava, l’aveva sempre amata; e, come un fuoco senza legna, il suo cuore stava estinguendosi, trafitto dall’unica brama di sostituirsi adesso alla donna che lo aveva riempito.
Ma lei, tutto questo, non avrebbe mai più avuto modo di saperlo.

« ... lord Varry! »
Una voce irruppe dall’oscurità. Fu lieve, ovattata, sommessa, ma non abbastanza perché Nicholas potesse ignorarla.
Si volse di scatto, sconcertato, gonfio dal pianto, in parte persino furioso, ma il nulla e il silenzio furono lì ad attenderlo.
Cos... ? Cos'era era stato? Chi aveva parlato?
I suoi pensieri smisero d’inseguirsi con coerenza, e presto la sua mente cominciò a formulare concetti privi di senso, riflessioni distorte dalla sofferenza di chi aveva perduto l’unica persona per cui valesse ancora un minimo continuare a prender parte a quell’insulsa pantomima che i più chiamavano vita. Non c’era più niente, niente per cui fosse giusto andare avanti.
« Craa-Craa! »

« ...ite lord Varry?! » tornò a berciare la voce.
Questa volta, però, Duevite riuscì a ignorarla. La mietitrice turchese scivolò via dal fianco con leggerezza, ergendosi tra le sue dita come la scure di un boia. Poteva percepirlo, però; poteva percepire anche il suo, di dolore, darsi consistenza e annebbiargli il senno. Non esisteva lama più appropriata di quella a sporcarsi del suo sangue. Dopotutto, non era forse lui il carnefice della Regina dei morti? E, come tale, avrebbe solo potuto adempiere all’ultima disposizione che questa stava impartendogli con quell'atroce visione.

« Aspettami, mia signora » bisbigliò a labbra strette,
mentre il ferro penetrava la carne e le tenebre li avvolgevano entrambi.
« Aspettami. »


aWo12

S A N D S T O R M
cenere alla cenere


Un fremito lungo la schiena lo fece rabbrividire.

« Lord Varry, mi sentite? »
Spalancò le palpebre di soprassalto, abbandonandosi alla temporanea ma indelebile sensazione di vuoto. D’istinto portò il braccio oltre il confine del materasso alla ricerca dell'elsa della spada, ma quando la trovò scorse solo un giovane attendente chinarsi su di lui e osservarlo con occhi iniettati d’apprensione.

« Chi...? Cosa...? Che diavolo ci fai nella mia camera? » bofonchiò Duevite con voce ancora rauca.
Sentiva le dita dei piedi ancora intorpidite e, là dove la lama lo aveva trapassato in sogno, una strana fitta bruciare quasi verosimilmente; ma era chiaro che non fosse realtà, non poteva esserlo. Si era trattato di un incubo, solo di un terribile incubo, e si sentì immensamente sollevato dal constatarlo.

« Il c-consiglio v-vi attende. Si è r-riunito in sessione straordinaria e-e reclama l-la vostra presenza. »
Il ragazzo balbettava e sudava vistosamente. Si poteva distinguere lo scintillio delle gocce che gli imperlavano la fronte persino nella totale oscurità del suo alloggio. Varry si sollevò a fatica, arrancando per ricongiungersi al proprio vestiario e indossarlo in fretta. Quando alla fine fu pronto per andare, sospirò tediato:

« Fai strada. »

[...]

Dall’esterno del corpo principale della magione, la folla urlava e imprecava. Erano trascorse ore da quando ii sole era tramontato, ma la fame che logorava i loro stomaci era troppo opprimente da potersi concedere il lusso del riposo. La protesta andava avanti da giorni ormai: un mucchio di anime spinte dalla carestia e dalla disgrazia che non facevano che picchiare ancora, e ancora, e ancora, e ancora sui grandi portoni del bastione con la speranza che chiunque tra i membri del Consiglio apparisse per promettere loro pane e acqua in abbondanza. Una bugia, come molte altre.
... che triste circostanza.
Mentre i due avanzavano, il Lord Assassino poté udire i lamenti dei mendicanti e lo stridio dei loro miseri e fradici denti di legno come se gli ronzassero a un palmo dalle orecchie. Resistette solo a malapena ad ordinare che i soldati sopprimessero la rivolta nel sangue in quello stesso istante. Gli sarebbe bastato nient’altro che un cenno. La Nera non avrebbe neppure esitato, questo lo sapeva, ma lui aveva sempre creduto di esserle irrimediabilmente inferiore in crudeltà.
Il cunicolo che preludeva alla Sala dei Teschi era stretto, lungo e lugubre come una vecchia cantina umida, ma gli sfavillanti candelieri che ne agghindavano le pareti gli davano un’aria straordinariamente austera e invitante. Per quanto potesse impegnarsi, per quanto potesse sforzarsi, a quella fortezza non riusciva però ancora ad abituarsi; come un artiglio, l’edificio si stringeva attorno a lui attimo dopo attimo, passo dopo passo, notte dopo notte, stritolandolo in una morsa ferrea fino a fargli schizzare fuori ogni frammento di sé che più detestava e temeva.
Era una trappola per lo spirito, quel posto.
Il giovane attendente allungò il passo rapidamente, mettendo diverse falcate di distanza tra lui e il Primo Cavaliere. Varry avrebbe anche tentato di raggiungerlo o intimato lui di rallentare, se non fosse stato che l’oscurità improvvisa piovve ad ingoiarlo prim’ancora che l’uomo potesse anche solo pensare di aprire bocca per provarci.
Poi, la nebbia.
No, non era nebbia, ma cenere. Ovunque guardasse, ovunque si voltasse, ovunque posasse i polpastrelli in cerca di un qualunque punto di riferimento non sentiva altro che pulviscolo; ruvido e pungente, esso s’insinuava su per le narici irritandolo fino a fargli lacrimare gli occhi. Non sapeva dire cosa lo avesse generato, né tantomeno dove iniziasse o finisse, tanto era densa la coltre.

« Ma che...? » domandò confuso.
Si volse a destra, sfiorando con la coda dell’occhio una strana ombra nera sorta dal nulla che scivolava sinuosa alle sue spalle. La figura gli si fermò davanti come ad attenderlo e Duevite non osò certo esitare – quel dannatissimo incubo, in verità, gli aveva lasciato in corpo un’esagerata temerarietà, al punto da rischiare di far di lui persino un incosciente. Quando giunse in prossimità dell’ombra, però, questa poté rivelarsi agl'occhi per ciò che era.
« M... Mia signora...? »
I suoi contorni erano labili, evanescenti. La pelle della donna era diafana e impalpabile, tanto da sembrare che fosse fatta di sola polvere e cenere. Gli ci volle qualche secondo per riprendersi, ma alla fine cadde su un ginocchio chinando la nuca in segno di riverenza.
« T-Ti credevamo morta » confessò perplesso.
Silenzio. La donna lo fissava con asprezza mista a indifferenza. Qualcosa di agghiacciante stava raschiando sul fondo del suo ventre: il rammarico, forse, o solo vergogna. Non poteva credere che fosse proprio lei, lì, al suo cospetto; eppure riconosceva le forme, il colore delle pupille, la carnosità delle labbra, il pallore intangibile della carne. Era lei, non v’era alcun dubbio.
« Noi... »

« Basta parlare. Avremo modo di farlo a tempo debito. »
Perché? Perché il suo tono era tanto gelido? Perché sembrava che lui le fosse completamente indifferente?
Che sapesse del suo fallimento? Che sapesse dei suoi sentimenti?
“E’ stato un sogno, Nicholas” disse a se stesso, stringendo le palpebre con forza “Solo un fottuto sogno. Lei non sa niente.”
« Prendi i miei uomini, dirigiti a ovest, supera la Valle del Grhuntha » incalzò Rekla.
« Avrai mie notizie quando avrete cavalcato a sufficienza. »

« Ma... come facciamo con loro? » chiese lui, indicando un punto non bene identificato oltre la parete, alludendo certamente alla calca.
Dirlo a voce alta fu come tirarsi un pugno all’inguine da solo, dacché lui era stato l'unico responsabile di tutto.

« Ho già provveduto a occuparmene. »
Non fece neppure in tempo a concludere la frase, che l’ombra – e la nube di cenere con essa – era già svanita, dissolta d’impulso nel rinnovato tepore del corridoio; adesso, persino quell’antica fortezza non sembrava più tanto lugubre.
Infine, un ruggito lontano, un guaito stridulo rigettato dal ventre dell’abisso.
Fiamme, fiamme ovunque, nere, torride e sciabordanti nei cieli. La gente alle porte urlò, fuggì, scalpitò, mentre taluni decantavano il miracolo. Si trattava forse di un orso? Di un lupo? O di un rapace?
No, nessuno di questi e tutti al contempo: il Sirrush;
il Sirrush arrivava.

 
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