Tempo prima – Basiledra
“Non ti credevo una patriota”.
Zepyr Luxen van Rubren la guardò con un mezzo sorriso sulle labbra, in piedi davanti alla finestra dello spoglio appartamento che era stato loro destinato. I suoi occhi fuggivano verso la città al di sotto, quel regno che non riconosceva più, quelle taverne che una volta erano state la loro patria, quella cattedrale estranea quanto un tumore in un corpo una volta sano.
Lei allungo le gambe, stirandosi pigramente sotto le coperte di seta.
“Non ti credevo uno scettico”.
Si fissarono, occhi rossi in occhi d’acciaio. Tra di loro la tensione di un amore falso, che non sarebbe mai stato corrisposto. Il giovane si grattò il mento glabro, distrattamente. C’era rabbia nel suo sguardo, la rabbia di non poterla in alcun modo contestare, di non poterla fermare.
“Morirai. Quello non è il tuo posto. Tu sei la Signora d’Oriente, perché dovresti combattere?”
Lei gettò indietro la testa, scoprendo il collo candido, quel collo che lui amava, e rise. Lo schernì, lo condannò con un solo gesto. Sollevò la mano e lo attirò inevitabilmente a sé, a mescolare le proprie dita a quelle di lei. La sua voce era avvolgente, una voce irrinunciabile. Eppure lui colse il velo di ironia che era nascosto sotto ad ogni parola.
“Amor mio, non crederai che io vada con loro solo per salvare questo fazzoletto di terra che chiamano Basiledra? Questi nemici del regno sanno qualcosa, i Corvi sanno qualcosa. Solo noi non sappiamo un bel niente. Nel nostro piccolo mondo d’oro non conosciamo la verità.”
“E tu vuoi la verità? Credevo…”
Sollevò un sopracciglio, sperando lei cogliesse l’ironia.
“Io voglio sapere cosa c’è sotto. E voglio proteggere il mio potere. E il mio Clan. Ho pagato molto per difenderlo e ora in parte mi appartiene”.
“Ammirevole…”
Lei rise di nuovo, come se trovasse tutto quanto molto divertente.
“E non morirò. Tu lo sai che non morirò. Cosa potrebbe mai uccidermi?”
Le carezzò il viso dolcemente, sentendo un tremito che lo percorreva. Il tempo era tiepido, la primavera era alle porte, eppure lei pareva già calda quanto l’estate e lui era ancora freddo come l’inverno. Cosa avrebbe potuto ucciderla? Il sole le proiettava dolci disegni d’ambra sulle guance e scintillava tra le sue ciglia. Le forme del suo corpo appena si intuivano sotto il lenzuolo, eppure lui le conosceva fin troppo bene. Nulla avrebbe potuto avere la meglio su una delle più forti guerriere del Toryu eppure in quel momento, quella mattina, appariva fragile quanto la porcellana.
Scosse il capo lentamente, nascondendosi agli occhi di lei: aveva un gran brutto presentimento circa quell’affare.Si rese conto, senza osare confessarlo neppure a se stesso, che lei lo stava soltanto ingannando. Come una bestia feroce prigioniera di una gabbia tempestata di diamanti, era insodisfatta. Non era la verità che voleva: era il suo mondo di sangue, battaglia, corpi avvinghiati nella violenza della guerra. Strinse i denti fin quasi a sentire mal di testa mentre percepiva l'onda dell'euforia di lei scontrarsi con quella della propria paura.
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Avevano acceso un grande falò nella grotta e vi si erano seduti attorno. I loro movimenti erano ritmati, i secondi scanditi da rudimentali strumenti e da una musica antica, primordiale quanto il cuore della terra. Tamburi, ferro contro ferro, semplice battito delle loro enormi mani callose di guerrieri. La fiamma bruciava viva, lingue rossastre che si perdevano in un denso fumo nero nell’enorme volta silenziosa. I loro sacerdoti agitavano lunghi bastoni alla cui estremità avevano legato conchiglie e perline. Si muovevano in una danza che era stata tramandata di padre in figlio per secoli, perfezionata generazione dopo generazione.
Ma non sarebbe mai stata come quella di lei. Si lanciò in mezzo a loro con una ruota elegante, in un vorticare di sete scarlatte. Una stoffa talmente leggera da apparire più sottile della pelle, da essere del tutto inadatta a coprirla in quei suoi movimenti talmente rapidi da essere difficilmente percepibili. I capelli sciolti le frustavano le guance e i fianchi, si aprivano come ali, si intrecciavano attorno alle braccia. Figure complicate si materializzavano nei suoi movimenti sinuosi attorno al fuoco.
Ora si abbassava, la testa incassata nelle spalle, le gambe che si divaricavano provocanti, ed era la tigre pronta ad attaccare, un attimo prima del balzo mortale. Ora spingeva il petto all’indietro e si sollevava per un istante in una verticale perfetta, i capelli a sfiorare il pavimento in un’onda. Ed era la montagna silenziosa, e la sorgente di vita. Con uno scatto rapido era in piedi su una gamba sola e ruotava il collo con gli occhi chiusi, le braccia tese verso l’alto a stringere un cielo immaginario. Era l’airone in attesa di fuggire, figlio della tempesta e dei grandi laghi.
Ma quello era solamente l’inizio, qualcosa che un giorno anche loro avrebbero saputo provocare. Non era la prima sera che lo mostrava, un poco per volta, aggiungendo sempre una figura. Ma quella notte avrebbe fatto di meglio. Sorrise per un istante, inclinando il capo, prima di arretrare di qualche passo e prendere la rincorsa. Qualche passo elastico e poi un unico, elegante balzo, mentre tutto di lei pareva esplodere. Gli occhi color delle braci, la pelle bollente, i capelli a confondersi con il falò. E la sua danza diventava più conturbante, più accattivante, a far l’amore con quel mondo ardente. A piedi nudi e senza più vestiti, mentre tutto attorno a lei avvampava e bruciava. Perfino da dentro quell’inferno potevano scorgere la sua bellezza, la morbidezza delle sue labbra, la linea sottile dei suoi fianchi. Non avevano mai visto nulla del genere, anche se già prima aveva giocato con il fuoco.
I due sciamani al suo fianco e lei al centro, più splendente di una stella, più pura di una vergine in quel getto rovente, purificatore, ogni movimento carico dell’euforia di essere nel proprio elemento. Gli occhi chiusi si muoveva frenetica, libera, come se stesse correndo lungo le praterie del mondo dei morti, gloriosa. Ruotava le braccia e i suoi gesti diventavano selvaggi. Scuoteva il capo, ora chinandosi ora alzandosi di colpo, ora mostrandosi completamente agli osservatori, e di tanto in tanto mugugnava le parole di un canto antico, appreso solo approssimativamente.
“Bruid Vuur...”.
Le parole sfuggirono involontariamente a uno dei presenti, un grosso pelleverde dal volto solcato di cicatrici. Ma ben presto divennero l’inno di tutti, il canto che accompagnava quello di lei. Sposa del fuoco, donna pericolosa, sacerdotessa desiderabile. Dal primo momento in cui l’avevano vista si erano scoperti a desiderarla nonostante tutto, nonostante la sua pelle pallida e i lunghi capelli color dell’ebano che non erano peli ma lo sembravano.
E ora che usciva dal fuoco, senza neppure un graffio, erano sicuri che i loro dei in qualche modo l’avessero benedetta. Si facevano da parte, senza osare toccare quella sua nudità bollente. Bruid Vuur, dama delle fiamme, capace di sfuggire alla morte.
Capace di ridere in un momento in cui chiunque altro avrebbe gridato in preda ai tormenti.
“Il Sovrano è dalla nostra parte. La vittoria ci appartiene”.
Lo disse senza entusiasmo, pacatamente, eppure la udirono tutti. I giovani applaudirono concitatamente, dandosi sonore pacche sulle spalle e indicando sfacciati il suo corpo perfetto. I più anziani rimasero in reverenziale silenzio davanti a quella prova. Erano stati scettici, all’inizio, quando lei aveva scelto di celebrare il rito. Ora la guardavano straniti, sospettosi, desiderosi di poter essere euforici quanto gli altri. Si era insinuata tra loro come una farfalla scarlatta tra i fiori di un campo. Si era posata ora sull'uno ora sull'altro con quegli occhi gelidi e quelle parole morbide quanto la sua bocca. Aveva volato leggiadra tra le loro supposizioni, senza mai predersi sul serio, come se in realtà non le importasse.
Almeno fino a quando aveva chiesto di essere lei la sacerdotessa del fuoco per propiziare la battaglia.
“Non dovresti illuderli in questo modo”.
L’uomo era più alto di lei, un piantato guerriero del nord dai capelli color del grano e gli occhi freddi quanto il ghiaccio. La avvolse in un pesante mantello scarlatto e si strinse contro la sua schiena, poggiandole le labbra sull’orecchio. Non lo conosceva da molto, nemmeno ricordava da quando. Quei giorni parevano tutti uguali, quegli uomini parevano tutti uguali, quasi più uguali dei pelleverde. Non cambiava nulla, non cambiavano nulla in lei, non riuscivano a farla veramente rabbrividire, gioire, adirarsi. Avevano il sapore scipito dei pasti, il colorito fosco degli anfratti in quel rifugio improvvisato, il tocco sgradevole della sabbia. Sorrise, provocatoria, mentre ancora il fumo si sollevava dalla sua pelle.
“Non pensavo che a quelli come te piacesse il fuoco. Credevo gli uomini del nord gelidi come le loro montagne”.
Si girò di scatto, poggiandogli un bacio sulle labbra, lasciando la afferrasse. Credeva di essere forte, di averla presa senza scampo. Rise. Per una notte soltanto, avrebbe creduto di vincere. Per una notte avrebbe colto la Rosa. Per tutti gli altri giorni gli sarebbero rimaste le spine, le ferite aspre della guerra. Lasciò che la conducesse lontano dal fuoco, nel buio, mentre già nella sua mente ripensava alle parole della donna dai capelli rossi e a ciò che sarebbe avvenuto l’indomani. Lo guardò e vide l’altra, il suo volto che sembrava stranamente consapevole, il suo piano che pareva assurdo. Aveva ideato un suicidio.
Strinse le mani di lui, gli piantò le unghie nei palmi. Forse era stata una tattica per sacrificarla, forse non sarebbe riuscita nell'impresa. Ma quella donna aveva ugualmente pensato che lei potesse farcela. Si sentiva stranamente lusingata.
Sorrise di nuovo e lui le disse qualcosa, ma già non lo sentiva più.
Li ucciderò tutti…
Lo bisbigliò con un tono impercettibile, quasi una preghiera quanto quella cantata nel mezzo delle fiamme. Non sapeva nemmeno che volto avessero, ma sapeva che sarebbero morti tra le sue braccia.
Chiuse gli occhi, lasciandosi avvolgere dalla banale routine della notte.
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Gli Shadar-Kai non parlavano neppure, le teste chine e i cappucci calati sul volto a difendersi dalla tempesta. Comunicavano a gesti, dividendosi lo spazio dei camminamenti lungo il quale dipanare i turni di guardia. Erano in pochi, troppo perché le guardie potessero essere più di una o due per volta. Bastavano quindi pochi cenni delle mani per decidere chi dovesse andare con chi. Erano turni consolidati, ripetuti decine di volte in quei pochi giorni. E anche se non udivano le rispettive voci quel movimento del braccio, secco, tremante, tradiva tutta la tensione del momento. Tradiva quello che avrebbe dovuto essere il dialogo.
Ranocchio, piccolo e ripiegato su se stesso, se ne sarebbe andato insieme a Pertica, tanto alto da chiedersi come il vento non se lo fosse già portato via. Costellazione, con la pelle segnata da cicatrici che si diceva riproducessero il cielo, avrebbe pattugliato la zona più a nord insieme a Silenzio, che non parlava mai nemmeno quando erano al coperto, nemmeno in sogno. E infine,Vedova Nera, con quei piccoli coltelli sempre pronti a spuntar fuori dalle maniche e capaci di uccidere prima che il nemico fosse in grado di prender fiato, si sarebbe accompagnato a Rampicante, il cui mantello rosso era decorato da eleganti motivi floreali tono su tono, percepibili solo nei rari momenti in cui il vento si posava un poco. Dell’originario corpo di guardia erano rimasti solamente in cinque escluso il loro capo, e forse domani sarebbero stati uno in meno. Il giorno prima, dopo tutto, insieme a loro c’era anche Criniera, con tutti quei capelli ricci che gli cadevano sempre negli occhi.
Si avviarono in silenzio, stirando tra loro le trame viscide della paura. I cuori battevano a mille sotto le vesti, gli occhi color della pece saettavano al minimo rumore. Avveniva sempre di notte, tanto che quelli del turno di giorno pregavano di non venire destinati a coprire il posto dei morti. Avveniva in un momento indefinito, senza rumore, e ciascuno lo descriveva in maniera diversa. Ma per tutti era talmente spaventoso che i capi avevano proibito perfino di parlarne. Un altro motivo per rendere ancora più greve il silenzio tra quegli eletti delle tenebre. Capitava a chi rimaneva solo, per questo avevano deciso si sarebbero mossi a coppie.
La tempesta di sabbia imperversava ogni giorno allo stesso modo, seccando le labbra e la pelle. Stare sui camminamenti era come fare un bagno nell’acqua bollente. Era perfino difficile chiudere le palpebre, una volta ritornati al coperto, perché pareva che quella sabbia fosse capace di infilarsi ovunque, tenace al punto da non volersi staccare. Ma aveva veramente importanza quando uno a uno sarebbero probabilmente morti tutti lì dentro?
Era straniante non riuscire a percepire i confini di quel deserto, di quel mondo di sabbia dove loro parevano essere l’unico punto fermo. Forse era solamente grande quanto una tinozza, e loro piccoli quanto formiche. Ma avrebbe veramente fatto la differenza quando quel soffio bollente se li fosse portati via?
“Secondo te quando succederà?”
Non se, ma quando. Perché era certo che sarebbe successo, certo come il proseguire della tempesta e il ritmo dei tamburi incessanti. La voce si levò rauca, scossa da un tremito, per quanto Vedova Nera apparisse sempre sicuro di sé. Era un ragazzino, seppur letale, ogni suo movimento pieno dell’elasticità e della tensione dell’inesperienza. Era un assassino, non un guerriero, e quell’attesa aveva già messo a dura prova i suoi nervi.
Il suo compagno inclinò il capo, fermandosi.
“Mh?”
“Ah già, tu fino a ieri facevi il turno di giorno. Non l’hai mai visto”.
Il ragazzo iniziò a torcersi nervosamente le mani. Muovendosi a ritroso di qualche passo, continuando a tenere lo sguardo puntato sull’interlocutore. Rampicante mosse lentamente le labbra disegnando un sorriso sul proprio volto smagrito. Aveva lunghi capelli, tanto lunghi che gli sfioravano una vita, e un fisico così sottile da far pensare che non mangiasse. Il mantello gli volteggiava attorno, come una tenda gonfiata dalla brezza, come se dentro non ci fosse nulla. Vedova rabbrividì a quell’espressione che sembrava folle. Improvvisamente si chiese quando, di preciso, Rampicante si fosse unito al loro gruppo di sorveglianti. Era solo un’impressione o una settimana prima, cinque giorni prima, non c’era nessun mantello decorato a motivi floreali tra loro? Erano forse lo stordimento e la tensione a falsare i suoi ricordi? Sì sentì improvvisamente raggelare, mentre un velo di sudore gli imperlava la fronte e le mani correvano alle lame nascoste sotto il manto.
“Non sarai anche tu uno dei miscredenti? Non accadrà proprio nulla”
In un attimo davanti a lui c’era solamente Rampicante, senza più quel sorriso di scherno che gli aveva fatto venire i brividi, senza più il vento che pareva placarglisi attorno. Forse si era solo immaginato tutto. Quelle notti insonni, quei giorni passati a ripercorrere ogni attimo, lo stavano consumando. Stava accadendo a tutti loro. La voce dell’altro era sommessa, pareva quasi di conforto.
Riprese a camminare. E fu allora che lo vide. In mezzo alla sabbia, tra una duna e l’altra, come un’inquietante punto fermo nel paesaggio mutevole. Era piccolo eppure lui sapeva già di cosa si trattasse. A partire da quel fulcro il vento arretrava, la sabbia gli si posava ai piedi e per un istante su ogni cosa calava il silenzio. Sbattè le palpebre più volte, ma già sapeva che non poteva trattarsi di un sogno.
Sorgeva come ogni notte dalle sabbie. Il primo giorno avevano pensato si trattasse di un disertore che i pelleverde avessero abbandonato. Ma ora sapevano. La bambina era completamente nuda e aveva i capelli candidi come la neve. I suoi occhi erano due pozze luminose, lattiginose. Camminava sulla sabbia e i suoi passi disegnavano orme profonde, visibili da lontano. Danzava e ogni sua orma pareva emanare una leggera luce, tale da rischiarare in parte la notte. La sabbia si muoveva attorno a lei come una crisalide inquieta e lentamente assumeva la forma di corpi umani. Non li conosceva tutti, ma alcuni sì: erano quelli che erano scomparsi, che erano morti, che si erano gettati di spontanea volontà nel vuoto. Ballavano con lei, più impacciati, più lenti, cantando una nenia che giungeva fino alle loro orecchie. Un canto sottile, di filastrocche per bambini.
He had a yellow cat that just wouldn't leave him alone
He tried and he tried to give the cat away
He gave it to a little man going far away
But the cat came back the very next day ~ ♪
Si mise a tremare, afferrando due delle proprie armi. Era la stessa canzone ogni notte, tanto che ormai la sua mente pronunciava le parole un attimo prima che il suono si infrangesse sulla palizzata. Erano sempre le stesse, snervanti strofe. Era sempre lo stesso, terribile silenzio attorno. E ogni notte una nuova voce si univa alle altre.
He gave it to a little boy with a dollar note
He told the boy to take the cat up river on a boat
The boat turned over and was never found,
And now they drag the river for the little boy who drowned
But the cat came back the very next day ~ ♪
Si portò le mani alle orecchie, premendovele contro con forza. Non si era nemmeno accorto di avervi poggiato anche le lame, tanto da tagliarsi e lasciar colare il sangue lungo i polsi. La prima notte era sembrato affascinante, erano rimasti tutti a bocca aperta. Almeno fino a quando era successo. Qualcuno diceva che la bambina ti scegliesse, che puntasse il dito verso di te, obbligandoti a raggiungerla. Qualcuno che il suo canto fosse talmente struggente da obbligarti a buttarti. Qualcuno ancora che la tempesta ti ghermisse nel proprio ventre per sempre. Ogni notte. Per giorni interi.
The man around the corner said he'd shoot the cat on sight
He loaded up his shotgun full of nails and dynamite
He waited and he waited 'till the cat came walking round
And ninety-nine pieces of the man was all they found
“But the cat came back the very next day ~”.
Sobbalzò, si girò di scatto. Lui, che era tanto rapido da non lasciare al nemico nemmeno il tempo di piangere. La voce, una voce che non sentiva da quelli che parevano secoli, lo aveva carezzato. Era certo fosse una voce di donna, soave, capace di cantare tanto bene da commuoverlo. Aveva appena voltato il capo, che si trovò faccia a faccia con Rampicante. Sorrideva di nuovo in quel modo terribile, e questa volta non poteva essere un’impressione. Le sue mani gli si erano posate sulle spalle e non se ne era neppure accorto e ora che guardava nei suoi occhi gli pareva di non averne mai visti di così belli. La bambina non cantava più, la tempesta era ripresa. Non era morto nessuno, nessuno aveva dato l’allarme. Aprì la bocca per comunicarlo al compagno, quando si rese conto di cosa stesse realmente accadendo.
Non era morto nessuno. Ancora. Rampicante gli poggiò un bacio delicato sulla guancia, mentre gli spingeva nello stomaco una lama curva. Guardandola pareva fosse un ventaglio, ma forse era solo un altro miraggio. Aveva una forza che non si sarebbe aspettato. O forse lui non era in grado di difendersi, perché quegli occhi erano così belli, così profondi, e quel volto era talmente dolce che avrebbe potuto perdervisi. Continuò a guardarlo, mentre si allontanava da lui. O forse era lui ad allontanarsi. Nemmeno pianse, nemmeno gridò di paura. Non aveva più paura. La sabbia si limitò ad ingoiare il suo corpo come aveva fatto con quello di tutti gli altri.
Quando Rampicante levò il proprio grido, Vedova Nera era già sordo da molti secondi. Quando gli altri si fecero attorno a Rampicante che, tremante, affermava di aver visto il compagno buttarsi mentre bisbigliava di non riuscire più a resistere, Vedova Nera non ebbe modo di ribattere. Gli altri battevano pacche sulle spalle del novellino della notte, obbligato già da subito ad assistere a simili spettacoli. E Vedova Nera non avrebbe più potuto accusarlo.
La Rosa non udiva nemmeno le loro parole. Mentre il potere di cambiare il mondo era nascosto sotto il suo mantello, tra le pieghe della lunga treccia, e i suoi occhi erano celati dal camuffamento, il piacere di quell’ennesima caccia la pervadeva come un fuoco. Era tremante, sì, ma solo perché la tensione stava lentamente scemando. Avrebbe voluto ridere, gridare alla sensazione di avercela fatta di nuovo, di poter vivere un altro giorno. Di essere riuscita ad entrare nel turno di notte, il suo terreno di caccia, dopo giorni che li osservava mentre dormivano, che camminava lungo la palizzata sotto il sole cocente. Li aveva eliminati quando loro pensavano lei fosse immersa nei sogni, li aveva uccisi senza conoscerli. Mentre ora avrebbe potuto entrare nelle loro vite, insinuarsi come le sottili radici della rosa nel loro terreno.
Aveva dato loro dei soprannomi sin dal primo giorno, scegliendo di eliminare prima i meno interessanti e immaginandosi come potessero essere gli altri, quali fossero i loro gusti, quali le loro paure. Cercava di capire se fossero proprio come se li era raccontati, se avessero proprio quel tono di voce, proprio quel modo di muoversi. Aveva alimentato i loro racconti con il proprio potere e si era arrampicata silenziosa alle loro spalle, più infida di un serpente.
Sentiva ancora le labbra bruciare per quel bacio rubato, un bacio così speciale come non lo erano da tanto tempo. Si ritirò insieme a loro, sperando di simulare il loro terrore in modo abbastanza convincente. Dopo tutto lei aveva avuto paura per così tanto che credeva di conoscere bene quella sensazione. Represse la smorfia ferina della vittoria. Abbassò gli occhi a fissare il pavimento, calò il cappuccio ancora più in basso, fingendo contrizione. Rallentò i movimenti, altrimenti pimpanti, abbassò il tono della voce. Ogni loro parola, ogni loro discorso, pareva costruirle attorno un’aura di potere. Era il suo segreto, un po’ come da bambini. Un segreto pericoloso. Dal profumo dolciastro, come la pozione che le consentiva di assomigliare a quegli individui tanto mostruosi da non essere più umani. Qualcuno si sarebbe potuto fare delle remore a colpirli così, indifesi, impauriti, per così tanti giorni di seguito.
Si chinò sul proprio pagliericcio. Qualcuno. Finalmente, il volto premuto contro la ruvida coperta, potè soffocare la risata che tutti credettero pianto.
Qualcuno.
Per questo avevano scelto lei.