Cavalli, corpi e lance rotte si tingono di rosso lamenti di persone che muoiono da sole
Il sole continuava a battere feroce. Più del martello di un fabbro, più dei pavimenti in un bordello al culmine della serata. Il maledetto cielo pesava su una terra sterile, il bianco e l’argilla riarsa che si incontravano fino alla fine dell’orizzonte.
senza un dio che sia là
Fino alla fine. Ah, ma non ce n’era una.
Sputacchiando un liquore amaro – finito più tra i baffi che in canna – Rick tirava avanti in quel lerciume; trottava tracotante sulla terra spaccata, e non si imbrogliava mica: fine a quelle rotture non ce ne poteva essere, in ogni caso. Il farsi strada tra l’erba rinsecchita, più peli ingialliti di una prostituta sudicia, le carogne abbandonate qua là a spezzare quel piattume opprimente simili a rovi, il puzzo e le bandiere – no davvero. Si finiva nella tomba, al massimo – ad andare bene. Riponendo la fiaschetta nella bisaccia, poi questa sul grosso animale al suo fianco, ne ebbe l’ennesima, inutile conferma: i corpi sparsi ovunque, le insegne maciullate. Avanzava ormai dal mattino presto, ora consigliata per il caldo, e tutto ciò che aveva trovato si atteneva alle informazioni, fin troppo bene. Bestiame e carri a marcire al sole, donne, mocciosi e valorosi idioti: tutti a spolparsi nella calura, adesso, palle e braghe di ferro lucente o meno. Anzi, quelli arrostivano solo meglio. Gli spazzini e i poveri diavoli ne godevano, masticando e rantolando tutt’attorno; lo sguardo di Rick ogni tanto beccava un qualche innocente, carcame o moribondo che fosse. Un ragazzetto sotto un cavallo, un vecchio appeso a un asta: li guardava per qualche istante, spento, per poi tirare dritto. L’avevano avvisato alla città di confine, lì dove aveva fatto un’ultima tappa, e davvero non se ne vedeva fine: sciacalli e rapaci, tutte formiche brulicanti, le uniche a non seguire una strada dritta per la fossa – non dovevano nemmeno preoccuparsi di scavare lì, dunque in nessun senso. Al contrario di quei poveri fessi. Il cammello brontolava ancora infastidito, nonostante la buona guardia del nano; avevano provato un paio di volte ad attaccarli, randagi e falchi bluastri, e il vagabondo li aveva accolti a suon di mazza. D’altronde per il peso non poteva lamentarsi, il gobbo. Avanzando direttamente a piedi, meglio per scacciare quei pestiferi, Rick non aveva gravato neppure tanto sull’animale. Razioni per tre giorni, pure se avrebbe dovuto spicciare la cosa in giornata, fiaschi e due barilotti di liquore: gli poteva andare decisamente peggio.
Continuando la marcia verso Ig-kra-ahn, ennesima città baciata dalle baldanze dell’Estvan, Rick non aveva un granché per passare il tempo – martellate agli avvoltoi a parte – né si aspettava un lieto fine. Pur più che con occhi aperti quindi, le due fessure brulle, si ritrovava a divagare: il paesaggio era solo il solito, nella sua testa. Tempi in cui portare il calderone d’olio per l’intera banda sulla groppa, cincischiare ore a spogliare i defunti – come si coglie un frutto – per poi sborsare tutto al capitano; tempi di un’infanzia mica male, a che ne sapeva, perché da adulto al mercenario non andava molto meglio. No, non Tempi: concetti e baggianate senza senso. Istanti slabbrati a tutta una vita, un ora sempre lì di rogne da confrontare. Già, al gobbo al suo fianco non andava troppo male. Anche ora, piantando gli occhiacci in ciò che per lui era un deserto sopra al deserto, il vagabondo non riusciva a venirne a capo; non che si aspettasse di arrivare davvero in mattinata come avevano detto, per carità, o di cascarci dentro: solo, a quest’ora voleva farsi un pisolino. La gemma nella terra poteva essere fresca al punto giusto. Fra le tante città dell’Estvan, Ig-kracom’era era stata per lungo tempo una tra le più floride: minerali e ciarpami d’artigianato finissimo, cibo esotico e fanciulle bollenti. Al sentire di queste Rick aveva quasi ascoltato a dovere, sentito tutte le solite manfrine dai pezzi grossi del Sorya; solo, questa volta pareva davvero un affare di qualche valore: il capro dell’oasi di Ig-kra-ahn era giunto pure agli orecchi dell’Eden. Bazzicando tra pile di soldati arrostiti e stemmi sbatacchiati, il vagabondo non sapeva se essere soddisfatto. Insomma, da una parte gli era arrivato che anche i pezzi grossi erano dietro a roba simile, gingilli e artefatti contro i mostri: persino la famosa Regina aveva disposto per trovare una certa pietra, uno spergiuro contro le ombre. Che gli toccasse andare dall’altra parte del continente, però, e per un’oggetto certo meno decantato che la fottuta pietra, non lo faceva troppo contento: avrebbe preferito variare un po’ dai cadaveri impolverati, maledizione.
Certo, finché non toccava a lui...
Scalzò col martello l’ennesimo cagnaccio in mezzo alla strada, il vecchio solido bacio della pietra. Quello della guerra che aveva toccato quei posti poteva essere più eclatante, lo slinguazzare putrido; ma facendo una stima a naso circa la sua carriera, la mazza del nano non doveva essere decisamente da meno: di sciacalli e bestioni ne aveva spolpati con quell’arma, e per molto meno – o per molto più. In fondo la fame era un motivo principe. E i randagi non erano gli unici sbecca-cadaveri in cerca di qualcosa, in quel mortorio.
“Daah…non ci sono giganti come l’altra volta, almeno.” Tracannò degli ennesimi sorsi dalla borraccia, per poi rimetterla nelle grosse sacche del suo compagno da soma; in fondo, se comparata alla sua ultima missione a Siassi – la prima da quando uscito dal Midgard, l’inferno vero – non era poi tanto male. Quel pattume argilloso era spaccato dall’assenza di un goccio d’acqua, vero, e i suoi stivali sbriciolavano ogni istante polveri e ossume, su nel riverbero del cielo. “Oh, non finirla già di mugugnare, gobbo: non ancora”. Ma, monotonia a parte, non poteva frignare più di tanto: l’inaspettato ti fregava sempre dietro l’angolo, a che lui sapeva. Ne convenne con l’animale, offrendogli un po’ dalla borraccia, reso più alticcio dall’afa; le rotture c’erano comunque, e dove non sapevi quel che calpestavi ti andava solo peggio, in genere.
“HMMH!” Protestò ancora la bestia, il becco della boraccia davanti al muso; non sapeva proprio divertirsi, il gobbo: e dire che Rick, tanto turpe quando si trattava di affari, era una maestro nello sbracarsi in osteria. Quel grullo invece non pareva volerla finire. Fu per quello che, pur con un gogliardo ritardo alcolico, infine decise che magari non era solo per la ritrosia al liquore che sbraitava, la mammoletta. Spalancò la bocca in uno sbadiglio, e guardò meglio.
“Dai, non te ne do, gobbo. Tranquillo che la tengo per me, questa brodaglia. E se è per gli uccelli smettila, mi hai già visto che…” La fottuta polvere lo accecava per bene, l’altezza non aiutava, e in generale i profughi e le guardie disseminati ovunque che avevano tentato la fuga da Ig-kra-ahn, fu gemma nella terra, gli coprivano la vista. Pile ammassate di poveracci per uno sbadiglio dell’Akerat, erano, cincischiagle e sassolini caduti a due signori di città-stato nel baloccarsi in un altro giro di guerre. Tipo uno di boccali, una serata in osteria. Ma nelle loro zuffe anonime e massacri di rito – il normale sale del mondo, per lui – si erano persi qualcosa. Lasciati il manicaretto più importante da saccheggiare, e lì sotto gli occhi: forse non tutti erano dotti di leggende come al Sorya, ecco. Ma la città, quel manicaretto era lì. E lui andava a prenderlo.
“Oh.” Il buco nella terra si stendeva davanti ai suoi occhiacci lucidi, il telone grigiastro a coprirla fumante e dilaniato in più punti. Borbottando, lasciò il liquore su un mucchio di teste accatastate all’entrata. E scese. “Puoi piantarla, però: ora l’ho visto”
“AAH! Che diavolo vai ragliando ancora? Vediamo..non è che sei una fottuta femmina in calore?” “Ho mangiato cose simili per molto meno!”
Minacciò verso la pancia dell’animale, lo sguardo ancor più vitreo dall’alcol; nonostante la borraccia l’avesse lasciata sopra, non parevano esserci grossi miglioramenti. Il fatto che parlava – o meglio, non era muto come al solito – non lo era di certo, specie per il suo compagno. Violento anche con la bocca, ciò che era uscito al vagabondo durante tutta la discesa erano improperi e bestemmie, circondato da ruderi e fantasmi. Certo, la pochi giorni prima magnifica spirale che si avvinghiava nel profondo della terra, orgoglio degli architetti dell’Akerat, ora non era troppo comoda. Non era proprio agibile a dire il vero, calcinacci e lotte che avevano fracassato l’enorme rampa scavata nell’argilla. In ogni caso zaffava, quel buco. Circondato dalle magnificenze cadute di Ig-kra-ahn, ma anche da cumuli di carne morta assembrati qua e là, Rick cercava. Passo baldante e oscillando, il nano non riusciva a farsi capace di un simile sfacelo: dalla fontana al palazzo principale, dai mucchi di ciarpame alle armi abbandonate, lì c’era una fortuna. Una fortuna nei suoi termini, ecco, di quelli che una scorza di cacio è un bene e la sfiga è il regolare sgrovigliarsi del campare. Ma pure, alticcio e sudato, non si dava pace: cianfrusaglie e armi di bel ferro buttate lì ai topi, e lui doveva raccattare una statua da ciurmatore? “HMMH!” Si spaparanzò sul bordo di pietra della fontana, tutto quel lavoro di piedistallo e non una decorazione in cima. Era buono che ci fosse l’acqua, almeno, per quanto imbrattata da sangue e putridume di qualche poveraccio buttato lì, a fondo. La base del benessere – a che serviva poi, visto come girava la faccenda – della cittadina era proprio un’oasi, aveva sentito; acqua in abbondanza da secoli. Si sciacquò il viso, pescando il liquido con le palme zozze –quasi- indifferente ai corpi là dentro; ce n'erano una dozzina, e di tutti i tipi: soldati e non, uomini e donne, vecchi e - . Per un attimo prese un cipiglio fosco, scrutando nell'acqua scura. Il silenzio di un rudere nella terra lo attorniava, fitto e squallido. Quando fece per guardarlo un attimo, quel giovanotto che poteva avere una ventina d’anni umani, ci rimase di sasso: un luccichio dorato animava il liquido da sotto il corpo.
Pupille enormi volte al sole la polvere e la sete
Cacciar fuori il caprone dorato fu pensiero e azione insieme. “HMMMMMH!!!” Sbraitò ancora il cammello così imbaldanzito, i rigagnoli di sudore giù nell’acqua già lurida; malgrado le sue brame, il gingillo s’era rivelato più pesante del previsto. “Ancora?! BEH. Io te l’avevo detto, CARNE DA SPIE-
-AH!”
Fu allora che, puzzolente e furioso, finalmente se ne accorse: lasciò perdere la statua e cacciò il martello, liberandolo dalla sua cinghia di cuoio. Più in là, dopo il piazzale costellato da mucchi di corpi, su per le spirali di edifici e pietra, oltre il telone c'era qualcosa. Solo la luce, forse, che tagliava in stilettate dorate quello spazio vuoto e squallido; soltanto i giri dell'alcol dentro la sua testa. O magari aveva capito perchè l’animale non si decideva a piantarla. Si prese una pausa: dopo, in ogni caso, avrebbe finito di cavar fuori quell'affare dalla fontana.
l’affanno della morte lo senti sempre addosso anche se non sai ti curi del perché
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