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More selvatiche, Contest di Marzo "Innocenza"

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Ashel
view post Posted on 17/3/2014, 18:15




Narrato
Parlato
Parlato Ariel




Rotolammo sul terreno, lungo il pendio. La polvere sollevata dalla terra secca e arida mi accecò per qualche istante e quando caddi ebbi l'impressione che la mia spina dorsale si fosse spezzata con un colpo secco.
La risata di Ariel riempì lo spazio intorno, colorandolo con le sue note dolci e luminose.
Impiegai più di qualche istante per riprendermi, ma poi cominciai a ridere anche io, nonostante il dolore che faticavo ancora a trovare così buffo.
Guardai i suoi occhi di quell'azzurro quasi metallico, così diversi dai miei.
Riprese a correre senza fermarsi di ridere, presto raggiungemmo lo stagno dietro la miniera e ad entrambe parve che l'aria si facesse, mano a mano, sempre più afosa e pesante.
Ci tuffammo, sudate e accaldate.
Gustammo i giovamenti di quel bagno serale che sembrava potesse lavare via il peso di un anno di fatiche e di povertà, e la seguii mentre si immergeva con l'agilità di un pesce.
La rincorrevo nell'acqua, l'afferravo, lei continuava a scappare, più rapida e scaltra di me. Quando mi mancava il respiro tornavo in superficie, ma non ci rimanevo mai a lungo.
Sul fondo intravidi a un certo punto un oggetto luminoso, che per qualche strana ragione riusciva a riverberare i raggi solari di un tramonto imminente.
Decisi di immergermi mentre lei si allontanava, mi feci spazio con le braccia e scesi in profondità, la pressione dell'acqua che premeva sopra di me; allungai una mano e afferrai l'oggetto luminescente, incastrato tra le alghe e la fanghiglia. Lo strinsi avidamente mentre risalivo in superficie.
Quando riemersi mi sentivo come se avessi appena conquistato un tesoro inestimabile e segreto. Lo esaminai brevemente: la punta di una freccia. Il metallo era in gran parte arrugginito, non aveva nessun valore.

Che cos'è?

Alzai lo sguardo, Ariel seduta sulla riva mi sorrideva mentre sbocconcellava delle more selvatiche appena raccolte.

Niente.

Sapeva che quell'oggetto aveva guadagnato la mia simpatia e per questo mi rivolse un sorriso furbo, per molti aspetti indecifrabile.
Restammo in silenzio per un po', entrambe cercavamo di indovinare i pensieri dell'altra.

Fammi vedere!

No!

Con un movimento rapido si mosse verso di me, scattando in avanti e cercando di afferrare la punta della freccia con la mano; io mi ritrassi per proteggere il mio bottino e la feci scivolare in acqua.
Mi allontanai ridendo e mi accorsi che la situazione di prima si era ribaltata; eppure Ariel mi fu addosso quasi subito, lei era un'abile nuotatrice mentre io mi muovevo goffamente e con fatica, nonostante il mio corpo più robusto e sviluppato del suo.
Afferrò il metallo e me lo strappò dalle mani, io non opposi alcuna resistenza. La osservai a bocca aperta, instupidita, mentre si allontanava con un'espressione da vincitrice dipinta sul viso.
Mi mossi per raggiungerla e quando fummo accolte dalla riva erbosa dello stagno ci fermammo. Avevamo finito di rincorrerci.
Accarezzai il suo braccio levato per proteggere la freccia, le circondai la mano che la stringeva e appoggiai la testa alla sua spalla.
Così passavamo quelle nostre giornate, e non importava che avessimo storie diverse da raccontare, che entrambe fossimo state segnate dal marchio della schiavitù. Le nostre vite allora erano ancora, in un certo qual modo, libere e noi giacevamo sulla soglia di un'innocenza che presto sarebbe stata perduta per sempre.
Eravamo giovani, a nostro modo felici.
Come spesso capitava cercai le sue labbra fino a quando, infreddolite, non decidemmo di risalire e di avvolgerci l'una nell'altra mentre il vento, da Sud, si trascinava appresso la sabbia che raccoglieva dai deserti
.


***


Lei non era stata venduta, come me, per lavorare alla miniera di zolfo.
Il suo aspetto piacente di ragazza l’aveva contraddistinta fin da giovanissima e presto la sua famiglia comprese che per lei si sarebbero potute trovare occupazioni ben più adatte al suo fisico snello e longilineo.
Ariel non sarebbe sopravvissuta un solo giorno nella miniera. Benché fosse più vecchia di me di diversi inverni, il suo corpo era asciutto e sottile, la pelle chiara di quei popoli del Nord poco adatta alla calura del deserto piaceva così tanto che più di uno sguardo si posava, di tanto in tanto, su di lei.
Allora non capivo, ero troppo giovane. Non capivo come potesse trovarsi in quel luogo per il quale sembrava decisamente poco tagliata, tra orchi e nani dal fisico temprato da decenni di fatiche.
La trovavo sempre ad attendermi, sul finire della giornata, con le more selvatiche tra le mani. Le gustavamo all’ombra delle palme, le loro ombre che, al tramonto, si facevano sempre più lunghe e dense.
Mentre discorreva dei più svariati argomenti, io spesso mi perdevo a seguirne i moti del viso, i suoi capelli color paglia lunghi e sottili, così inusuali in quella parte del mondo.
Non ricordo quando mi innamorai di lei, forse la prima volta che le nostre labbra si incontrarono, mentre rotolavamo tra le sterpaglie e giocavamo a rubarci le more che trovavamo tra i rovi.
Per questa ragione mi risultava particolarmente penoso quando, di notte, si scioglieva dal mio abbraccio e se ne andava. A volte qualcuno veniva a chiamarla, altre si limitava ad alzarsi senza dire una parola.
Io mi perdevo tra i sogni e quando tornava non voleva essere toccata da nessuno, nemmeno da me. Si rannicchiava in un cantuccio, e lì rimaneva fino a quando non ero io, con gli altri, ad andarmene prima che il sole sorgesse.
Quando mi offriva le more voleva forse ottenere il mio perdono per quel suo isolamento, sul viso la promessa di un sorriso che non sarebbe mai mancato per me.
Allora non sapevo che, nonostante la crudeltà della vita, l’innocenza rimaneva aggrappata all’animo con la tenacia di poche altre condizioni.



***


Quando cominciai a perdere la mia, fu perché avevo deciso che era tempo di rinunciarvi.
In fondo, ero nata tra donne che si vendevano e non potevo più ingannare nemmeno gli angoli più nascosti del mio cuore, quelli che mi preservavano dal dolore facendo apparire diversamente l’evidenza delle cose.
Non le dissi nulla, semplicemente una notte mi alzai anticipandola.
Il galoppino che di solito si occupava di queste questioni dapprima sghignazzò maligno, ma non oppose alcuna resistenza alla mia persona e mi fece in seguito strada senza aggiungere altro.
Non mi voltai, né cercai lo sguardo di Ariel.
Sapevo che diversamente avrebbe provato a farmi desistere. Sapevo, come lo sapeva lei, che nessuno avrebbe sollevato obiezioni, perché per individui come loro in fondo non faceva molta differenza.
Quella notte appresi che esistevano varie forme di schiavitù, alcune delle quali non necessitavano di catene per manifestarsi. Appresi che c'erano molti modi per strappare la dignità a uno schiavo, e non sempre serviva una frusta o una punizione umiliante per farlo.
Eppure la sera seguente Ariel mi accolse ancora con le more tra le mani. Dovette scorgere sul mio viso quello stesso sorriso che io coglievo sempre sul suo, quella stessa espressione negli occhi.
Mangiammo le more tenendoci per mano.



CITAZIONE
Innanzitutto grazie a tutti coloro che hanno letto il post :)
E’ la prima volta che partecipo a un Contest su questa piattaforma e nonostante abbia letto alcuni lavori passati di altri utenti per farmi un’idea, continuo a rimanere un po’ spaesata e incerta.
Ho deciso di sfruttare l’occasione per approfondire il mio personaggio, con cui vorrei presto guadagnare maggiore familiarità.
Scelta senz’altro poco originale, ma per il momento rientra nelle mie priorità indagare la storia e la caratterizzazione di Astrid.
Spero di non avervi annoiato^^
 
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