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Winterreise ~ Rückblick, Capitolo VIII: Flashback [Contest Aprile: Tempo]

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view post Posted on 25/4/2014, 09:00
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Winterreise ~ Rückblick
Lithien, Tempio della Speranza; qualche giorno prima della battaglia


Agitava le mani sui fogli pergamenati, come in preda ad una malia.
Le dita tremavano, per la stanchezza o la fame, mentre gli occhi sbarrati scorrevano rapidamente da una riga all'altra, da un libro all'altro o da un foglio all'altro.
Intorno la stanza era immersa nella penombra, oltre che soffocata da una trascuratezza opprimente. Ovunque v'erano resti di una civiltà abbandonata, un tempo fulgida e nobile, ma - ora - rimessa ad un degrado quasi primitivo, ferale. Tavoli si stagliavano negli angoli, spaccati e rotti in più punti per l'evidente scopo di ricavare legno da ardere per il fuoco; ovunque c'erano sedie in pelle rossa, seggi regali e scranni pregiati, rotti, scuciti o sventrati, con le imbottiture riverse sul pavimento, quasi a tappezzare la deprecabile moria di quegli arredi un tempo fulgidi. Le finestre alte erano sbarrate dalle persiane; alcune erano state divelte, staccate dai cardini e - quindi - inchiodate con altre assi di legno per asservire il loro compito primario. Altre, invece, mancavano completamente di ante o protezioni alcune, per questo erano state sbarrate dall'interno o coperte con quei pochi imponenti armadi che fossero ancora sufficientemente integri da reggersi eretti sulle pareti.
Per il resto, gli arazzi ed i quadri erano lo specchio del tumulto di quella stanza; la maggior parte di essi rappresentava nobili di un tempo, scene di guerra ed epici racconti degli annali. Eppure, la polvere, il degrado e qualche furioso impulso ne aveva avvilito l'antico splendore: erano sporchi, ricoperti di polvere e marciume, oltre che rotti in più punti e finanche mangiati talvolta.
Non inscenavano più lo splendore della città, bensì la struggente rovina nella quale era stata assorbita e soffocata.
Inoltre, dalle mura si scandivano tremolii informi, accompagnati da miasmi di pianto e dolore che si levavano ritmicamente attraverso le pareti. Parevano talvolta mugolii sommessi, sinfonie amorfe e lente di una sofferenza pascente; poi, talvolta, si levavano come impetuosi, risalendo come acuti spessori di morte. Chiunque vivesse entro quelle mura poteva essersi assuefatto ai lamenti strozzati in gola, come una sinfonia di morte che riempiva lo sfondo di quelle giornate oscure: eppure, l'acutizzarsi della sofferenza, corredata dai terrorizzanti gemiti che spesso riempivano l'area della stanza, non potevano essere ignorati.
La sua mano tremula talvolta subiva scatti incontrollati. All'acutizzarsi delle urla, si portava le mani alle orecchie ed iniziava a sussurrare flebili lamenti; talvolta cantava qualche nenia, ripetendola tra se e se come per rincuorarsi e non ascoltare il resto. Era insopportabile, a tratti; per quanto la mente ed il corpo potessero esser divenuti un tutt'uno con quel panorama di raccapriccio, la decadente precarietà della sua salute non poteva reggere comunque l'acutizzarsi di certe grida, il rimbombo dello stridio delle unghie sul marmo pallido o i ghigni ricolmi di follia dei malati fuori dalle porte sbarrate.

Era insopportabile.
E lo sopportava ormai da troppo tempo, tanto che non riusciva più a reggerlo.
Era come se quella prigione ne avesse consumato l'anima, così come la lucidità; diveniva pazzo come i pazzi che lo tenevano chiuso.
Moriva nel corpo e nella mente, tanto quanto morivano le masse di persone fuori da quelle mura.

Aveva perso cognizione dei giorni, ormai; ignorava finanche se fosse giorno o notte. Ignorava finanche quanto tempo fosse passato.
« Artash, Volgos... e Borgan » ripeteva, scorrendo la mano sui fogli e parlando a mezza bocca. « Artash, Volgos... e Borgan » diceva ancora, tenendo gli occhi sbarrati.
La porta si aprì con qualche difficoltà; la stanza, di risposta, fu investita da una tenue luce giallastra, che mise in evidenza la putrida marcescenza in cui versava l'ambiente. La donna entrò, portandosi una mano alla bocca per pararsi dalla puzza: la muffa ed il tanfo di chiuso, evidentemente, avevano reso l'aria irrespirabile. Non aveva occhi per guardare, dunque prestò orecchio nel tentativo di carpire la sua presenza all'interno.
« Artash, Volgos... e Borgan » lui parlò ancora, apparentemente ignaro del fatto di non essere più solo.
Udendolo, dunque, la donna lo chiamò, sperando di riportarlo ad una parvenza di lucidità: « Irwing? »
disse, lentamente « ...da quanto tempo sei qui, Irwing? »

L'uomo fermò la mano, portandosela in grembo. Rimase fermo, voltando poco il viso verso di lei. Gli occhi tremavano appena, ma li tenne bassi - quasi spaventati. Sembrava preoccupato, come un bambino colto in fallo durante una marachella: « Cinque- » disse, piano « -forse sei ore, credo »
« Tre giorni » lo corresse lei, perentoria.
Lui fissò la candela sulla sua scrivania; la vide stopposa, quasi consumata - ma ancora accesa. Si scosse, sorpreso; poi vide altre quattro candele ormai consumate, poco lontano.
E comprese che la donna, probabilmente, non mentiva. Aveva finanche consumato un pasto velocemente, che qualcuno gli aveva trascinato sotto la porta. Eppure, preso dalle proprie ossessioni, non si era accorto di niente. Aveva memoria solo delle urla che si erano levate al di là delle pareti: quelle, invero, non le dimenticava mai.
« Hai ragione, Mior » rispose, con un sorriso stentato « hai sempre ragione tu »

« Non è la ragione che vorrei, Irwing » disse la donna, facendosi largo nella stanza « piuttosto comprendere cosa ti affligge »
commentò, ignorando l'evidenza. Era palese che la condizione di prigionieri che li teneva chiusi nel Tempio, sull'acropoli di Lithien, fosse un male esistente ed imperituro.
Eppure, la donna sperava - come tutti - di assuefarsi a quella condizione, e non considerarla più un problema per se sola, bensì un pensiero, un peso col quale convivere.
« Mi affligge la trappola in cui siamo; mi affligge che continuiamo ad ignorarla, a non parlarne - come se non esistesse » disse, tenendo le parole strette tra i denti.
« Eppure sento le ossa creparsi ogni volta che un urlo supera quella soglia; li sento grattare di notte, frantumando una parte del muro che ci divide... »
« ...li sento e non li sopporto più, Mior »

La donna rimase silente, abbassando il capo poco. Comprendeva la condizione, ma sapeva bene di non aver che parole di circostanza con cui rispondergli.
Poi, fu lui a riprendere: « E' per questo che mi struggo nel dubbio: farla finita, o no? »
Mior rimase scossa, turbata da quella frase. L'aveva visto forte, ergersi come padrone della situazione, per quanto deprecabile essa fosse.
L'aveva visto comandare quella città e districarsi nel gorgo di inferno che era divenuta. Eppure, ora lo vedeva debole; vinto. E non poteva biasimarlo.
Allungò una mano verso di lui, sperando di incrociarne il capo. Ma non lo vedeva, e dovette tastare l'aria prima di accorgersi quanto fosse troppo lontana.
« Irwing, io... » commentò lei, laconica.
« Alla fine l'ho trovato, Mior » ribatté lui, cambiando argomento.

Seguì un altro istante di silenzio. La donna rimase frapposta nei propri pensieri, riordinandoli rapidamente.
Quando comprese, gli rispose: « Lo Scettro, intendi? »
L'uomo annuì, ben sapendo che lei non poteva vederlo. Stava prono, con le gambe incrociate su di un cuscino rovinato. In grembo, però, teneva un'asta di legno; l'oggetto era rovinato e marcio in più punti, ma ancora integro nonostante gli anni. Doveva essere molto antico ed altrettanto prezioso, con finimenti dorati lungo tutto il manico di legno e lucidi diamanti incastonati sulla punta.
« Te ne avevo parlato, no? » riprese, afferrando l'asta e passandosela da una mano all'altra.
Mior annuì, attendendo un momento: « E' l'artefatto legato alla leggenda dei Tre Saggi, giusto? »
« Già » aggiunse, freddo « l'ho trovato proprio in un'antica cripta degli Alastor; come immaginavo, l'hanno sempre custodito loro, sin dall'origine del mito »
« Artash, Volgos... e Borgan, agli albori di Lithien erano i saggi dell'essere, della verità e della conoscenza... » argomentò, sfogliando i tomi che aveva letto fino a qualche istante prima « ...la leggenda dice che il loro animo umano fu corrotto dal loro potere, tanto da farli decadere nel loro esatto inverso... »
« ...e divennero i saggi della morte, della menzogna e dell'illusione »

Mior rimase attenta, annuendo a più riprese. La leggenda la conoscevano tutti; lei, per prima, aveva udito quella storia già troppe volte.
« La leggenda narra che furono cacciati dal continente, confinati in una dimensione parallela - divennero la Triade degli Obliati » disse ancora Irwing, sfogliando altri fogli di pergamena.
« Quello che non si conosce è come furono obliati »
Irwing attese un altro istante, tenendo l'asta tra le mani ancora. « Il primo Reggente, nominato dal consiglio, sacrificò la propria vita per creare questo oggetto »
« in esso è custodito il potere della Triade e grazie ad esso i saggi furono obliati dal mondo »
Sorrise ancora, amaro. Più fissava quell'asta rovinata dagli anni, più sentiva di esservi legato da un rapporto ossessivo di amore ed odio. La fissava intensamente, come si fissa un'odiosa amante; una compagna che ha tradito, ma cui si sente di non poter rinunciare. « Se l'avessi trovato prima dell'infezione, forse tutto questo non sarebbe successo »
aggiunse, amaro « non saremmo rimasti chiusi qui dentro per tanto di quel tempo, che nemmeno lo ricordo più. »
« Quattro anni, circa » lo corresse Mior, laconica.

« Eppure » aggiunse Irwing, ignorandola « potrebbe finire tutto subito »
fissò l'asta, con aria quasi rapita « potrei fare ciò che devo immediatamente, e tutto finirebbe »
« Sarebbe finita anche per noi, però » aggiunse Mior, immediatamente. « Avremmo resistito in questo inferno per nulla; questi quattro anni sarebbero stati vani. »
Un'altra esitazione, un altro attimo di silenzio. « E poi... » trattenne a stento una mezza parola, quasi incerta se pronunciarla o meno.
Irwing colse l'esitazione, leggendola nel tremore delle sue parole. « ...e poi? »
Sorrise ancora, più divertito - questa volta. « Dimmi cosa vuoi Mior; non ci siamo mai piaciuti io e te... »
aggiunse, sornione « ...quindi non credo che fossi venuta qui solo per accertarti della mia salute. »
Mior tese l'orecchio, mantenendo un profilo basso. Aveva evidentemente ragione; ma non trovava il coraggio per dirglielo.
« Ecco, è stato avvistato un esercito poco distante da Lithien » disse, mantenendosi sul vago « ...potrebbe essere che- »
« Lucian sta arrivando » la interruppe Irwing, quasi contento « sta venendo per me. »
Mior rimase ancora in silenzio, questa volta perplessa per la reazione dell'uomo. « Ora si fa chiamare Shakan » disse soltanto.

« Non importa; anzi, meglio. »
Irwing prese alla rinfusa le carte dalla scrivania, spolverandosi la tunica dalla muffa che l'aveva ricoperto. Pareva rinvigorito, resuscitato dall'idea che qualcosa stesse cambiando.
« Io andrò alla torre con lo scettro; voi rimarrete qui e cercherete di fermarlo in ogni modo » disse rapidamente, quasi parlando tra se e se. Gli occhi brillavano di felicità e le mani avevano finanche smesso di tremargli. Mior rimase confusa: non capiva. « E tu scappi proprio ora? » disse, con tono quasi accusatorio.
« Perché se voi non lo fermerete qui, allora io sarò l'ultima persona che si frapporrà tra lui e lo Scettro »
aggiunse, con tono fermo, ma visibilmente felice dell'idea.

Poi le passò oltre, cercando di guadagnare l'uscita della stanza. Nelle mani teneva fogli, libri e lo scettro.
« Perché sei così contento, Irwing? » chiese Mior, alla fine « tutto potrebbe finire molto male, evidentemente »
Irwing le sorrise, questa volta sincero: « Almeno, il nostro destino si compirà; il tempo della nostra prigione, sta per finire »
In un modo o nell'altro.

Lasciando la stanza rivide quelle pareti urlanti che lo affliggevano da sempre.
Sentiva, però, che l'arrivo dello spettro poteva devastare quella prigione e porre un nuovo spirito alla sua esistenza.
Di vita o di morte che fosse; di vittoria o sconfitta. Quantomeno, la sua sofferenza giungeva al termine.
La sua prigionia avrebbe avuto una conclusione. Ed aveva atteso tanto, troppo tempo quel suo destino di libertà.
E comunque fosse finita, sarebbe stato libero.
« Arriva presto, Lucian » sussurrò tra se e se, mentre raggiungeva la sala centrale.



La scena è ambientata a Lithien, nel Tempio sull'Acropoli; temporalmente, siamo poco prima degli eventi del capitolo VI e VII di Winterraise.
Questo, quindi, è un flashback che riprende il POV di Irwing Ravelon, trattando della sua condizione di "prigioniero" in una città di infetti, nonché della sua reazione quando scopre che Shakan "sta arrivando per lui". Con queste premesse, spero che sia più comprensibile anche per coloro che non hanno seguito direttamente gli eventi. Altrimenti, a questo link sono reperibili i riassunti di tutti i capitoli, che consentirebbero comunque di comprenderne il senso.
Ciò che non viene inteso per inciso, è volontariamente lasciato nebuloso, perché verrà chiarito nella conclusione del ciclo.
Detto questo, mi piaceva l'idea di interpretare il tema del mese alla luce di questi elementi; il tempo inteso come prigionia, come "ossessione" per uno come Irwing che non è libero di disporne come vuole. Mi scuso se non ho usato il mio personaggio, bensì l'ambientazione di Winterraise per cui - ricordo - ho il permesso di usare ancora Shakan e ciò che lo riguarda, fino alla conclusione del ciclo.
In questo senso, il contest dovrebbe essere ampiamente valido.
Spero piaccia.
 
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