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Il vento in prua si faceva sentire tutto. Anche una brezza leggera poteva diventare fastidiosa, anche le gocce leggere d'una pioggia primaverile potevano pungere le guance come fossero aghi. Soffiava gagliardo il Maestrale, quella mattina, gonfiando le vele d'una forza invisibile ma incredibilmente potente, capace - probabilmente - di spingere la nave in porto già per l'ora di pranzo. Era stata una navigazione tranquilla e senza paturnie, durata poco più di tre giorni: quella cosa sferica che riempiva il fagotto sulla sua branda aveva già cominciato a puzzare. Ritardare ancora l'approdo avrebbe significato - probabilmente - il linciaggio di quel prezioso bottino, e il conseguente venir meno d'ogni profitto. Mentre la mano sinistra assicurava la presa all'albero, il corpo si era protratto sull'Oceano, quasi ad immaginare di poter volare su quella distesa blu profondo. Le dita della mano destra, dopo aver solleticato e goduto della carezza del vento, finirono nel taschino interno del corpetto, ad assicurarsi - anche se lo avevano già fatto pochi minuti prima - della presenza di quel foglietto ripiegato, importante quanto il fagotto in stiva.
La vedetta gridò come se non ci fosse in domani: aveva stimato le distanze, e in due-tre ore il vascello sarebbe arrivato a Dorhamat. Già, la Capitale dell'Arcipelago, il margine orientale, l'avamposto più estremo del dominio del Sultano. Dorhamat, perla dell'Ocenao di Zar, rifugio di pirati, bucanieri e avventurieri, perfetto approdo per le rotte commerciali di gente onesta e contrabbandieri. Dorhamat, casa.
Quando mise piede sul molo respirò la salsedine essiccata sulle costruzioni del borgo: non è spiegabile la differenza fra la costa e il mare aperto. Quell'odore, quella brezza così familiari solo a marinai e uomini di mare. L'Oceano, con le sue insidie e i suoi sollievi, le sue tradizioni e la sua lingua. Se ne sentivano, di idiomi, a Dorhamat, ma più di tutti la lingua comune cedeva il passo alla lingua del mare, un dialetto che variava da costa a costa ma sempre ben comprensibile per chi era avvezzo alla navigazione e ai viaggi.
I Nani governavano l'arcipelago - e Dorhamat in particolare - solo nominalmente: di fatto il controllo dei vicoli e della popolazione era riservato a criminali e pirati, coloro che con il timore che incutevano nel prossimo riuscivano a imporre la propria parola e il proprio volere. L’estrema lontananza dal governo centrale dell'Akeran e un ribrezzo diffuso per la legalità hanno reso l'arcipelago una regione praticamente fuori controllo. Concessioni mercantili rilasciate a feccia della peggior specie, traffichi nelle mani di contrabbandieri e pirati di dubbia provenienza, briganti che in nome della propria ingordigia eleggono la capitale delle isole a propria residenza. Era questa la popolazione di Dorhamat, e crescere in un mondo portava i ragazzi - ovviamente - a sopportare e tollerare, considerandola quasi normale, quella assurda condizione. Solo i duri e i forti possono legittimamente sperare di far di Dorhamat la propria casa, solo i duri. O gli scaltri. Certo non chi non sia pronto a dormire sempre con un occhio aperto, a guardarsi le spalle di continuo, o che non possegga un potere così incommensurabile da allontanare gli altri semplicemente esistendo. Per un derelitto nato senza particolari talenti, Dorhamat può essere un inferno. Per Martin Saez è andata esattamente così.
Spinse con la mano l'anta destra dell'uscio della casa di giustizia. Chiamarla casa è forse un'esagerazione, perché quella baracca, che fungeva anche da casa del funzionario del governo, non forniva un rifugio migliore di qualche asse inchiodata alla meno peggio.
« Hai ammazzato qualche altro bastardo, Saez? »
I coraggiosi che sceglievano di collaborare con la giustizia si contavano sulle dita di una mano, ma i Nani non facevano nulla per rendersi simpatici. Non molto più che offrire delle taglie in cambio della testa o della mano di qualcuno di quei topi di fogna. Non rispose, Martìn: quel nano non gli era mai stato simpatico, ma scherzare col fuoco avrebbe significato non potersi pagare del buon rhum nella locanda affianco. Lanciò il fagotto sul banco del nano, e una testa rotolò fuori dalla stoffa, ormai rigida e cremisi per il sangue secco. « Che cazz-- ». Non finì la frase. Quelli erano i capelli, gli occhi e gli orecchini di Daario Sette-Sei Ziggah, un contrabbandiere che aveva messo su un bel racket del perudo, il gioco dei dadi a cui giocavano i pirati e gli uomini di mare. « E questo è quanto mi spetta, ser ». Non era un cavaliere. Non poteva esserlo, quel nano, ma il cacciatore gli doveva quantomeno esternare un minimo di rispetto, quale funzionario del Sultanato. Schiantò con la mano sinistra la taglia - rivolta a faccia in su - sul bancone, lasciando che la destra piantasse un coltello fra gli occhi della figura riportata sul volantino.
Contò i pezzi d'oro uscendo dalla baracca, sotto gli occhi di persone che - un giorno - probabilmente sarebbero diventate sue prede. Sapeva benissimo che i tre quarti degli occhi aveva su di sé appartenevano alla feccia dell'arcipelago, ma non ci fece caso, dirigendosi al mercato per comprare qualcosa da mettere sotto i denti.
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Il suono del morso a quella rossa e succulenta mela risuonò nell'aere, ma probabilmente nessuno - a parte le sue orecchie - se ne accorse: il mercato era un'alchimia di voci e sapori, odori ed etnie, un caos ordinato di affari e contratti, imbrogli e truffe. Idee e opportunità. Sorrise ad una bambina prima di accorgersi che fosse una puttana: aveva pagato donne, anche molto in qualche occasione, ma la perversione dello scoparsi una ragazzina non l'aveva mai nemmeno sfiorato. Evidentemente in quel posto c'era anche gente del genere: feccia e spazzatura. Come d'altronde la quasi totalità degli abitanti di Dorhamat. Fu quando distolse lo sguardo dalla piccola, che lo vide. Si era scordato fosse lì: affari lo avevano portato lontano dalla sua città per settimane, e aveva completamente rimosso del muro dei ricercati, dove - almeno in teoria - chiunque poteva affiggere taglie in cambio di quel che poteva offrire. Una vera e propria occasione per gente come lui. La prassiperò voleva che nessuno - escluso quel che rimaneva del braccio del governo del Sultano - prometteva alcunché: la paura delle ritorsioni superava la realtà dei problemi, questo era un deterrente sufficiente ad allontanare qualsiasi pretesa.
Quel giorno, però, c'era qualcosa di diverso. Tra i tanti fogli, tutti uguali, affissi su quel muro, ne risaltava uno.
Nessuna immagine, nessun recapito, nessuna specificazione sul vivo o morto. Nulla di nulla, come se lo avesse affisso un fantasma, un ingenuo, un vigliacco. Uno senza fede. Campeggiava solo un nome, oltre al ritratto d'una balestra.
Sidor.
« Vecchio, sai chi ha affisso questo volantino? » gridò al barbone che da anni elemosinava davanti a quel muro.
Vide i suoi occhi riempirsi di terrore. « N-No, figliolo » « Rischi la sorte, vecchio, a dirmi stronzate del genere »
Doveva fare da solo, senza destare sospetti. Lanciò uno sguardo carico di disprezzo all'uomo, prima di lasciarselo alle spalle. Si diresse ancora fra i banchi del commercio, cercando di capire chi potesse essere l'interlocutore più informato, e più sincero. D'improvviso sorrise, speranzoso d'aver risolto l'arcano. Stringeva ancora in mano la taglia, che non aveva esistato a strappare dal muro, quando tornò sui suoi passi, accarezzando il viso della bambina, pronta a vendergli il suo corpo.
« Sei graziosa, piccola, ma a me piacciono - come dire - le donne mature. Puoi chiamare quella puttana di tua madre? »
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Yo! Eccomi, finalmente ce l'ho fatta.
In ogni caso, tutto regolare, bel post d'introduzione secondo me.
Dal prossimo turno piazzo lo schemino riassuntivo tanto comodo per tutti, tranne per chi lo compila. Tanto non ho passive rilevanti