Quando l'elfa gli si sedette accanto, Mellow dovette sforzarsi perché le guance non gli diventassero del colore delle ciliege mature. Aveva la spalla di lei, rosea e morbida, a pochi centimetri dalla gamba. Se fosse rimasto seduto dove era stato fino a pochi istanti prima, non avrebbe nemmeno dovuto allungare un braccio per carezzarle i lunghi capelli dorati. Quel pensiero lo fece sentire a disagio. Ebbe quasi la tentazione di portarsi una mano al colletto per allargarselo, ma si prese una mano nell'altra per impedirselo. Dannazione, non era un ragazzino imbranato di fronte alla sua prima cotta, aveva avuto molte donne, anche se meno di quelle di cui usava vantarsi. Non era lui che raccontava di come nessuna fanciulla fosse in grado di resistere al suo fascino misterioso e ai canti che intonava? Che cosa avrebbero detto se lo avessero potuto vedere in quell'istante, a fissare come un idiota una ragazza con cui aveva appena scambiato due parole? Probabilmente lo avrebbero ignorato per fare commenti a bassa voce su ciò che lei aveva sotto la camicetta. Quel pensiero lo fece quasi sorridere.
«Maestro e messer sono titoli decisamente altisonanti per me... e ne sono lusingatissimo, ma puoi chiamarmi semplicemente Mellow se mi concederai di chiamarti solo Evelyne.»
Sorrise discretamente nell'afferrare la piccola cetra appesa alla cintura per accontentare la richiesta dell'elfa. Per un bel canto avrebbe rimandato volentieri a dopo le questioni più spinose. Quando ne prese il manico fra le dita esperte il cuore gli batté forte, ma non era paura di esibirsi, no. Da che ricordasse, non aveva mai avuto panico da palcoscenico. Era troppo dannatamente bravo per averlo. Era solo che un musicista, più di ogni altra donna, ama le corde con cui produce musica. Anche quelle dannatamente dure e difficili da pizzicare. Dopotutto amori senza conflitto esistono solo nelle favole. Guardò in viso un'altra volta l'elfa, questa volta senza attrazione ma con la distaccata attenzione con cui un orefice scruta i gioielli per determinare se l'oro fosse vero o finto, se le perle fossero nate dal ventre delle ostriche o da quello di un alambicco di qualche falsario. E una voce, l'Arte, come la chiamava fra sé e sé, gli disse che i lineamenti di quel viso erano morbidi e gentili, ma che quelle guance sarebbero state più belle se, lucide di lacrime, avessero riflesso il sole che filtrava dagli alberi. Pizzicò i tendini per valutarne l'accordatura, poi iniziò a suonare e cantare, così, con la schiena poggiata contro il tronco e i rilievi sulla corteccia che premevano attraverso il mantello.
«Flow, my tears, fall from your springs! Exiled for ever, let me mourn; Where night's black bird her sad infamy sings, There let me live forlorn.
Down vain lights, shine you no more! No nights are dark enough for those That in despair their lost fortunes deplore. Light doth but shame disclose.
Never may my woes be relieved, Since pity is fled; And tears and sighs and groans my weary days Of all joys have deprived.
From the highest spire of contentment My fortune is thrown; And fear and grief and pain for my deserts Are my hopes, since hope is gone.
Hark! you shadows that in darkness dwell, Learn to contemn light Happy, happy they that in hell Feel not the world's despite.»
Lasciò che l'accordo finale risuonasse per qualche istante fra i rami degli abeti e le pietre ricoperte di licheni, e quando alla fine calò il silenzio fu quiete assoluta, senza più frusciare dei rami, senza lo scricchiolare degli aghi secchi al muoversi degli animali fra gli alberi. Poi anche la tranquillità morì come la pallida nuvoletta di condensa uscita dalle labbra al cantore, e solo a quel punto lui abbassò lo sguardo nuovamente verso Evelyne.
«Sarebbe stata molto più bella se avessi avuto un liuto, ma sfortuna vuole che non riesca mai a risparmiare abbastanza denaro per comprarne uno.»
Sorrise, un riso un po' forzato, gli unici di cui fosse capace dopo aver cantato qualcosa del genere. Scostò un poco il mantello e tornò a far dondolare il dolce peso dello strumento alla cintura.
«E anche questa cetra non è il massimo, se proprio devo dire la verità.»
Sfregò il pollice sui polpastrelli delle dita indolenzite dal pizzicare senza esternare quanto gli bruciassero in quel momento. Aveva l'impressione che l'indice e il medio gli fossero stati tagliati a metà per lungo, ma tentò di non riflettere troppo su quell'immagine sanguinosa. Si fregò le mani intirizzite dal freddo e, senza aspettare applausi o complimenti, tornò alle questioni importanti.
«Riguardo al fatto di trovarci in territorio Arshaid, ecco, io semplicemente di tanto in tanto amo la tranquillità. Certo, adoro i villaggi, i focolari accesi in piazza, le ombre lunghe sui muri colorati di rosso dalla luce, i fiumi di vino e birra versate in bicchieri grossi come otri, le ragazze che fanno svolazzare le gonne ballando...»
Serrò le labbra per un istante a quelle parole, quasi dimentico di trovarsi di fronte a un esponente del gentilsesso – e che esponente - . Tuttavia in meno di un secondo si riprese dall'inciampo.
«E poi la musica, sì, quella musica allegra e grezza come il grano usato per fare il pane che mangiano. Io amo ballare, amo suonare e, sì, lo ammetto, a volte mi piace anche sventolare la gonna.»
Si afferrò ridendo le estremità del mantello scuro e lo fece svolazzare come per richiamare alla mente quelle danze frenetiche. Era piuttosto che chiaro che non stesse parlando ma recitando.
«Ci sono però momenti che preferisco trascorrere da solo. Per comporre qualcosa di nuovo, esercitarmi un poco ma anche solo per pensare. E in questo bosco c'è un silenzio... sacro. Forse più sacro del sacro stesso. È difficile esprimerlo a parole. Ad ogni modo credo che sia per questo che gli Arshaid lo hanno preso come propria dimora.»
Accarezzò la corteccia dell'albero delicatamente, tastandone con i polpastrelli le venature come se queste nascondessero qualche messaggio nascosto. Se degli elfi non riusciva a comprendere la diffidenza e l'odio che rivolgevano verso qualsiasi essere che non fosse della loro razza, non faticava invece a capire l'amore che provavano per la natura incontaminata. Se avessero provato a trasmetterlo piuttosto che a possederlo egoisticamente, forse il mondo sarebbe stato un luogo migliore.
«Non ho più paura di loro di quella che ho per i tavernieri a cui non ho ancora pagato il conto: basta che rimangano distanti e non c'è alcun problema.»
Ridacchiò sommessamente. Si staccò dal tronco e scosse il mantello per pulirlo dalle schegge. Aveva la schiena intirizzita, e muoversi gli diede alcune fitte spiacevoli alla colonna vertebrale, ma si limitò ad accennare una smorfia.
«Se vuoi davvero avere una risposta dagli Arshaid di questa parte del bosco, ti conviene prepararti a essere delusa. Gli elfi che vivono qui a sud sono sospettosi persino nei confronti degli altri villaggi. Arshaid o no, se ti trovassero a girovagare all'interno dei loro territori senza un permesso o un messaggio, il minimo che farebbero sarebbe sguainare le armi e chiederti di sparire.»
“Hanno spade lunghe blu, bellissime” avrebbe voluto aggiungere “brillano come fuoco freddo e quando ti fanno anche solo un taglietto ti senti ardere il ventre, i muscoli e le ossa, il sangue bolle nelle vene e mentre credi di essere bruciato vivo dall'interno loro ti staccano la testa con un secondo colpo”. L'eccessiva dovizia di particolari lo convinse a omettere quelle descrizioni. Lo lasciò sott'inteso in un'occhiata cupa.
«Vorrei tanto poterti dire che metterò la mia buona parola con loro, ma credo che questo peggiorerebbe le cose.»
Ridacchiò, ma non era una risata felice. Non sapeva quello che facevano quelle spade perché qualcuno glielo avesse raccontato. Se il buon Mellow si fosse tolto la pesante giacca e la maglia di lana che portava sotto, avrebbe potuto mostrare, fra le altre, una cicatrice lunga una buona spanna poco sotto il capezzolo sinistro. L'unico motivo per cui non la faceva pesare agli Arshaid è perché gli piaceva pensare che gliel'avessero arrecata per sbaglio.
«Io... ti consiglierei di ritornare sui tuoi passi. O rimanere con me ancora per un po'. Canterò I saw my lady weepe e se vorrai ti farò sentire qualcuna delle canzoni che ho composto per le feste di paese. Sono un po' sboccate ma tutte molto divertenti. E poi...»
S'interruppe improvvisamente, come d'incanto. Il suo sguardo era cambiato e se qualcuno avesse fatto attenzione avrebbe potuto vedere un alone dorato brillare al centro dell'iride. Fu questione di un attimo, ma quando la luce svanì anche l'espressione del cantore era cambiata. Ora era seria, quasi triste, come se stesse pensando a qualcosa di poco allegro, ancor meno del fuoco delle spade degli elfi.
«Un... modo forse ci sarebbe.»
Mosse qualche passo fra i rami secchi e gli aghi facendoli scricchiolare sotto la suola degli stivali. Aveva rivolto il proprio sguardo verso ovest, pensoso.
«Evelyne, quanto sei disposta a rischiare per avere la tua risposta? Non serve che tu mi dica in cosa consiste. Dimmi solamente quanto è importante per te.»
Il vento smosse i rami, qualche uccello cantò triste. Era come se la natura potesse leggere nella mente del cantore. Perché quello che avrebbe proposto non sarebbe stata una passeggiata nel bosco, e in cuor suo non sapeva se valesse la pena rischiare di perdere il bel viso dell'elfa, i suoi capelli, il sorriso grazioso che le increspava le labbra quando era divertita.
«Ma dimmi la verità, perché non voglio metterti in pericolo per un capriccio.»
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