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Rasentando l'oblio, Contest Agosto 2014 - Akeran

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Caccia92
view post Posted on 23/8/2014, 18:05








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Yamoto fissava l'alba. La luce incandescente si irradiava sul suo corpo, illuminando la pelle bianca come il latte. Nei suoi occhi traslucidi si rifletteva la perfezione della palla di fuoco nel cielo limpido. Un respiro, i pugni ora stretti, ora aperti. Non voleva voltarsi. Anche se non poteva vederla, anche se non poteva contemplarla, quell'alba aveva qualcosa di diverso da tutte le altre. Era tiepida, rasserenante. Imprimeva nel suo spirito una pace profonda e indissolubile. Non voleva tornare alla normalità e abbandonare quell'attimo di purezza. La brezza delicata portava il profumo di colori dolci come il rosa e il lilla.
Dietro la sua figura stagliata sulla cima della collina, giaceva l'armatura. L'aveva pulita, l'aveva lucidata, si era dedicato ad essa per tutta la notte. Eppure sentiva che l'oscurità sotto l'elmo - l'oscurità che doveva esserci - lo osservava con disappunto alle spalle, come un padre deluso dal figlio. E lui conosceva il motivo di tanta delusione.
« Non essere ingiusta con me. Sto solo aspettando il momento opportuno. »
Il momento opportuno sembrava non arrivare mai. Lui aveva paura di quel giorno.
Parlava spesso con Amnesia, anche se non gli rispondeva quasi mai. Il ferro inanimato era la migliore compagna di sempre e l'unica che abbia mai avuto. Se aveva chiamato "amici" altri individui, non lo ricordava più. I volti non avevano significato, gli odori e i suoni erano mischiati con qualcosa di denso e malevolo. In realtà non ricordava più nulla del suo passato. La sola cosa che gli donava un senso di calore e serenità era l'armatura di placche, con i suoi colori un po' bui e un po' chiari che si alternavano come due genitori. A volte, mentre scorreva il panno sulle scanalatura viola delle spalliere, rievocava l'aspra voce di uno Yuga dai toni duri; altre volte, invece, quando le dita si posavano sulle curve azzurre dei pettorali, riusciva a sentire il timbro dolce e profumato della madre. Era una cosa stupida e lo sapeva. Niente avrebbe potuto sostituire il calore di una famiglia o il tenero abbraccio di una ragazza. Eppure non riusciva quasi ad immaginare quelle sensazione, come se l'emozione portata dal tocco delicato di una mano degna di fiducia fosse estranea alla sua mente.
Yamoto abbassò il capo per far finta di osservare Taanach. La città era lì, sotto la collina. Alle sue orecchie giungeva il frastuono dei mercati e della gente accalcata, il rumore sordo e grigio di un fiume che scorreva e la puzza indefinibile di quotidianità. Inspirò a lungo quella strana mescolanza di venti sconosciuti. Infine, senza dire una parola, si voltò e si inginocchiò ad Amnesia. L'armatura lo fissava, imperiosa nella sua compostezza. Yamoto recitò a bassa voce una preghiera, ringraziando il metallo di averlo protetto per tutti quegli anni. Cominciò lentamente ad indossare gli spallacci, poi la placca centrale, i gambali e per ultimo, come si consegue ad un buon rituale, l'elmo. Il suo fiato rimbombò nella scatola di acciaio levigato, rievocando antiche battaglie per la sopravvivenza. Si sentiva bene all'interno di Amnesia, era un ambiente caldo e familiare. La fronte e le braccia erano già appiccicosi e sottili rivoli di sudore disegnavano ghirigori lungo la spina dorsale, ma a lui non importava di patire l'afa e l'umidità.
Dopo alcuni vani tentativi, recuperò le spade da terra. Allacciò i foderi sul fianco sinistro, con la curva delle lame rivolte verso il basso. Era un corretto posizionamento: se un nemico si fosse avvicinato, la semplice estrazione dell'arma sarebbe stata una minaccia immediata.
« Quante volte in marcia verso l'ignoto. Quante volte ancora? »
Era la sua frase preferita, quella che lo faceva vergognare di più. Perché c'era un posto ignoto che ancora non aveva il coraggio di esaminare.

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Una interminabile fila di individui delle razze più disparate bloccava l'ingresso cittadino. Un enorme cancello si apriva come le fauci di un mostro tra le mura ristrutturate di Taanach, una delle tante entrate dispiegate lungo il perimetro. Il posto era piantonato da guardie vestite con armature scarlatte, probabilmente un gruppetto messo a disposizione da una delle numerose famiglie nobiliari. Era praticamente impossibile evitare un controllo. Alcuni, forse, avevano provato a scavalcare o a passare da qualche cunicolo segreto, ma spesso il gioco non valeva la candela. Era decisamente più comodo corrompere i soldati o farsi raccomandare.
Yamoto attese pazientemente il suo turno, fingendo di spostare la testa per sembrare normale. Dietro l'elmo a forma di demone nessuno poteva studiare il suo sguardo, nessuno poteva notare gli occhi vacui e spenti. Non sapeva rispondere alla domanda che ronzava nella sua mente: perché desiderava essere come tutti gli altri? Non c'era nulla di sbagliato nella cecità. Era un problema, certo, ma non un problema insormontabile. Negli anni aveva appreso diversi metodi per sopperire alla sua mancanza, come l'udito raffinato, l'analisi dei cambiamenti nell'etere, l'olfatto e addirittura una capacità - se poteva definirla tale - extrasensoriale. Già...non riusciva ancora a darle un nome. Capitava solamente quando combatteva o quando era in pericolo di vita: ogni cosa materiale, dal più piccolo oggetto alla più grande struttura, compariva nel suo raggio visivo dipinta di rosso. Era magnifico e terrificante allo stesso tempo, un caleidoscopio di tinte macabre e raggelanti. In mezzo a tutto quel "sangue" riusciva a vedere i nemici e le loro armi con chiarezza. Per brevi tratti di mistico furore poteva vedere com'era il mondo, com'era davvero la realtà in cui viveva. Anche se quella realtà era fatta di morte e cremisi.
« Il prossimo! » abbaiò una voce stridula e bluastra.
Yamoto non percepiva più la puzza di rancido dell'uomo che gli stava davanti, così realizzò che era giunto il suo turno. Avanzò con passo deciso e tintinnante, cercando di captare il respiro della guardia. Quando la brezza inquinata dall'alcol risultò udibile al suo orecchio, si bloccò. Il soldato - dal tono doveva essere un tipo smilzo e ancora giovane - impiegò alcuni secondi a dettare le sue richieste. Quasi sicuramente stava squadrando la gigantesca Amnesia. Doveva essere uno spettacolo piuttosto terrificante: Yamoto era molto più alto e possente di un umano normale.
« Nome e scopo della visita. » chiese infine la guardia.
Ci pensò su un attimo. Taanach era rinomata per molte cose: l'omicidio, i sotterfugi, la ricchezza e una insana propensione ad accettare stranieri di qualunque tipo. Purché avessero denaro. Ma Yamoto ben sapeva che in tasca aveva solamente il necessario per pagarsi una locanda. E a Taanach i poveri erano considerai disperati, i disperati erano considerati ladri e i ladri erano considerati peggio dei ratti.
« Shinotaro. Sono qui per affari. » rispose velocemente. L'aveva detto così bene da sorprendere addirittura se stesso. Poteva assomigliare ad un grande spadaccino dell'oriente, ma il suo accento Akeraniano era troppo marcato per ingannare un attento ascoltatore.
La guardia emise uno strano verso, l'incrocio tra un sospiro e un'esclamazione.
« Un orientale? Bene, togliti l'elmo. Mi serve un volto da descrivere. »
Yamoto rimase immobile. Per diversi secondi calò il silenzio. Sembrava che tutti - dalla sentinella più vicina al vagabondo nell'ultimo posto della fila - si fossero bloccati per seguire la vicenda. C'era una sorta di trepidazione nell'aria, decina di occhi scalfivano e grattavano la superficie di Amnesia nella speranza di osservare il suo ripieno. Il vento trasportava l'odore intenso di mercato, spezie e fogna.
« Non lo farò. »
Lo disse con eccessiva durezza. Inconsapevolmente aveva portato una mano sul fianco sinistro, toccando leggermente il fodero della spada. Cambiò posizione all'istante, tuttavia la guardia doveva essersene accorta. Ci fu Un'altra pausa carica di tensione, una pausa in cui Yamoto trattenne il respiro. Se doveva combattere, l'avrebbe fatto. Era sempre uguale, dovunque andasse, dovunque si trovasse. Non importava quale regione, popolo o religione, la sua figura era sempre considerata ostile e pericolosa. Quando viaggiava senza armatura, il suo volto faceva allontanare la gente. Avevano una paura spropositata dell'assenza di vita nel suo sguardo, il bianco che rappresentava il nulla. Anche se non poteva vederli, sapeva quale espressione ostentavano: diffidenza, preoccupazione, timore. Alla fine si presentava il più temerario o il più nobile per chiedergli cosa diamine ci facesse un mostro come lui in quella zona. E doveva lottare per sopravvivere.
Ma il tentennamento della guardia era diverso dal solito. Percepiva la sua attenzione concentrata sulle spade. Valutava la situazione.
« D'accordo, samurai. Vedi di non combinare guai. »
Yamoto fu ingiustamente soddisfatto della paura percepita nella voce dell'uomo. Non era attraverso la minaccia che si otteneva la gloria necessaria per vivere serenamente. Passò lo stesso attraverso i cancelli, maledicendo i suoi fallimenti.

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L'interno di Taanach non era come se lo aspettava. Le città che aveva visitato possedevano un senso di unità, di coalizione, le piazze e gli edifici erano disposte in modo da proteggere il fulcro del paese. Ogni abitante seguiva una sorta di rituale quotidiano, lavorando o impiegando il proprio tempo in attività che comunque andavano a beneficio del popolo. Taanach era il caos. La gente urlava e si spingeva, i mercati parevano delle vere risse dettate dal caso e i sentieri più bui erano impregnati di una puzza dolciastra molto simile a quella prodotta dai cadaveri.
Yamoto vagava in quella calca, disorientato e in guardia. Ogni piccolo movimento era per lui una fonte di pericolo, ogni respiro pesante catturava la sua attenzione. Mai come allora si era sentito così solo e abbandonato a sé stesso. Gli angoli delle strade e le arterie principali promettevano di fagocitare luoghi sconosciuti o vicoli bloccati da bande di criminali. I sensi costantemente allerta, Yamoto capì facilmente il significato di Taanach: un flusso costante di uomini disperati, pronti a sorprenderti con azioni impensabili.
L'ignoto era lì, nascosto dietro il muro o alle tue spalle. Era la sensazione più brutta di sempre.
Non sapere nulla su ciò che ti stava intorno.






Storia semplice e dalla facile comprensione. Tutte le sensazioni e le emozioni si raccontano da sole e danno uno sfondo alle vicende che hanno portato Yamoto a giungere nella città della vita e della morte. Abbandonato al suo destino, senza più una casa e con l'handicap della cecità, lo Yuga è costretto a vagare senza meta, cercando - privo di speranza - di ricordare qualcosa del suo passato. La frase emblematica in cui dice che sta attendendo il "momento opportuno" si riferisce proprio all'istante in cui si sentirà pronto per tornare al suo luogo d'origine.
La scena narra i problemi di Yamoto nel relazionare con altra gente, la sua diffidenza, la paura per il mistero. Si ritroverà all'interno di un ambiente sconosciuto, preso da un senso di debolezza e vergogna per ciò che non è capace di fare: sfidare l'ignoto a viso aperto. Il suo arrivo a Taanach è descritto come una sorta di travaglio.
Piccola nota per il lettore: Yamoto spesso identifica voci, suoni e materiali con dei colori immaginari. Si tratta di una peculiarità sviluppata per sopperire alla sua cecità.
 
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