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Il mio ultimo assedio, Contest Dicembre 2014 ~ Passato

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view post Posted on 31/12/2014, 06:56
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Վերջինը ~ Il mio ultimo assedio ~ Պաշարում


(Tigran, Elenie.)

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Scorreva il vento sul deserto di Çöl Buçuk, sotto il cielo limpido del pomeriggio. Sottili granelli di sabbia si lasciavano trasportare a banchi lambendo la sterminata piana ondulata di rena rossa e pietrosa. Rossa di minerale ferroso, ma rossa di morte per chi in quelle lande vi aveva messo piede, e marciato... tra le linee dei cento e cento eserciti che decenni addietro avevano portato la guerra in quel limbo desolato.
Il piccolo carro sferragliava, trainato da una coppia di grossi bizzarri equini dal lungo pelo sauro – tosato quanto bastava non far soffrire troppo la calura del deserto a quegli esotici animali provenienti dalle alture fredde – e protetto da una tenda a casetta coperta da variopinti tappeti decorati con disegni geometrici. Un puntino colorato in mezzo a quel nulla curcuma sferzato dai venti del nord. Lo guidava in cassetta un uomo dalla pelle ambrata, il mento incorniciato da una corta barba setolosa e i capelli mori lunghi fin sotto alla nuca, aveva occhi castani troppi vispi per un adulto maturo, ma troppo induriti dal tempo per un ragazzo, le braccia nude e muscolose tatuate a fuoco e segnate da rozze cicatrici. Un giovane guerriero, non nuovo ai campi di battaglia. Indossava un abito da viaggio dalle tinte vivaci, molto simili alle decorazioni sui tappeti che ornavano il biroccio. Il suo sguardo si perdeva assorto all’orizzonte, lontano dalla strada sterrata ormai negletta, individuabile quasi unicamente grazie alla fila di pietre miliari che ne segnalavano il percorso, spuntando a stento dalla sabbia; con occhi rapiti e malinconici guardava le rovine di un forte abbandonato appollaiato ai piedi di un’alta formazione rocciosa, come se stesse aspettando da giorni di scorgerlo all’orizzonte. Si trattava di una struttura comune, apparentemente non tanto diversa da molti altri forti che costellavano quel deserto, costruita con pietra arenaria endemica che lo confondeva straordinariamente bene con l’ambiente circostante facendolo sembrare un elemento naturale. Quel viandante però sembrava scorgervi ben più di un semplice ammasso di macerie.
«Tigrotto? Sto per fare il tè, ne vuoi un po’?» Un’allegra voce di fanciulla provenne dall’interno del carro. Un braccio candido scostò i lembi della tenda di lana, andando a cingere teneramente in un abbraccio le robuste spalle dell’uomo. Fece capolino una ragazza dai capelli castani leggermente spettinati raccolti in una lunga treccia, grandi e vivaci occhi verdi di una tonalità più unica che rara e labbra di rosa; un viso da bambina impreziosito da un angelico sorriso sbarazzino. Un paio di orecchie dalla forma leggermente affusolata tradivano il fatto che non fosse del tutto umana. Il guerriero sorrise dolcemente e alzò una mano per accarezzare la pelle setosa, quasi eterea della mezz’elfa.
«Preferisco berlo più tardi, Elenie. Adesso no...» Rispose dolcemente Tigran, per poi chetarsi nuovamente, lo sguardo perso nei suoi pensieri.
La fanciulla non disse altro, si limitò a osservarlo preoccupata con aria interrogativa. Uscì dalla tenda e si sedette davanti insieme a lui, sotto il velo parasole sorretto da due asticelle che dal carro si allargava coprendo interamente la cassetta. Finse di guardare il panorama, squadrando in realtà sottecchi il suo compagno di viaggio e di vita. Si domandò cosa stesse pensando. Era da quella mattina che non parlava, come se un’ombra stesse incupendo i suoi pensieri. Si erano allontanati dalla rotta settentrionale per Çekerek che tutte le carovane seguivano prendendo invece quella interminabile strada immersa nella più completa desolazione.
«Ci fermiamo un attimo laggiù.» L’uomo indicò il fortino in lontananza, serio. Alzò gli occhi, ma li riabbassò subito non appena incontrò lo sguardo perplesso e inquisitore di Elenie. «Scusami.» Borbottò imbarazzato. «È-È solo che volevo passare di qua.»
«Ah, volevi solo passare di qua.» La fanciulla si proferì in un plateale cenno di assenso e incrociò le braccia, mettendo il broncio. «Ora si spiega.» Mugugnò ironica, trovandoci invero ben poco da capire in quelle parole.

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«Oh oh, Phyre, Raffi, facciamo una pausa.» Non servì nemmeno tirare le redini; l’intelligenza dei cavalli degli altopiani, gli Yomud, era superiore a quella di gran parte degli equini comuni: compresero perfettamente l’ordine all’istante. Il carro si arrestò a un centinaio di piedi dalle mura del fortilizio diroccato. Il guerriero balzò giù, raggiunse il baule agganciato sul retro del pianale che fungeva da dispensa e vi tirò fuori due scodelle di legno e il sacco dell’avena; riempì i due contenitori e li portò ai cavalli. «Lav’e, lav’è. Bravi, ragazzi.» Sfregò la mano sulla loro groppa mentre li guardava mangiare. Sorrideva. Elenie aveva imparato a riconoscere quel sorriso, lo aveva visto fin troppe volte a Portalorica: solo gli Aramani sapevano sorridere in quel modo ai cavalli.
L’uomo sciolse i finimenti, in modo che i due animali potessero sgranchirsi le spalle e muoversi liberamente; sapeva bene che non sarebbero fuggiti. Si guardò intorno con un certo interesse, poi iniziò a setacciare la sabbia intorno al carro.
La mezz’elfa restò a osservarlo dalla cassetta, non molto incline a uscire sotto il sole cocente. Unì le mani sul grembo, stropicciando nervosamente la leggera veste azzurrina da viaggio.
«Tigran, si può sapere che cosa stai cercando?» Sbottò infine, stufa di aspettare, non nascondendo una certa apprensione. «Che ci facciamo qui? Prima, al bivio, la strada per la città del Canale non era quella sinistra? Perché siamo andati a destra?»
«Non preoccuparti, te l’ho già detto: questa è la vecchia strada.» Rispose pacatamente l’aramano, senza smettere di cercare. «Dovrebbe esserci un’oasi ben frequentata a una decina di miglia da qui. Riusciremo ad arrivarci senza problemi prima del calare del sole.»
«Va bene, ma... siamo qui da soli in mezzo al nulla. E se arrivano i predoni?» Insistette Elenie.
Tigran sospirò. «Tranquilla, queste zone sono battute spesso dalle guarnigioni.» Alzò lo sguardo, incrociando quello imbronciato della ragazza, ansiosa di ripartire, o perlomeno di ricevere una spiegazione per quello strano cambio di programma. Scrollò la testa: c’era un motivo se si era spinto fino a quel posto dimenticato dagli dei e dagli uomini, ma non amava parlare di certe cose, soprattutto con la sua consorte.
Improvvisamente lo stivale a punta urtò qualcosa di duro nascosto sotto la sabbia. Il guerriero si accovacciò, scavando delicatamente con le mani per estrarre il reperto.
«Ehi! Guarda cosa ho trovato!»
«Cos’è?» Esclamò Elenie, curiosa. Si sporse dal carro alzando una mano per proteggere gli occhi dal sole, aguzzando il suo fine sguardo da mezz’elfa per vedere ciò che Tigran stava tirando fuori dalla buca. Il guerriero si volse verso di lei con un sorriso vuoto, mostrandogli ciò che aveva trovato.

«È-È un mio fratello.»
La sua voce era trepidante, i suoi occhi sgranati come quelli di un bambino che aveva appena scovato un grande tesoro.


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La ragazza non comprese subito. Riconobbe tra le mani del compagno un elmo a punta arrugginito di forma circolare, orlato di pelliccia – quel poco che ne rimaneva – e adornato sulla sommità da un pennacchio ormai scolorito e spelacchiato; conosceva quel tipo di elmo: durante la sua permanenza presso la sede del Cartello Mamūluk di Portalorica lo aveva visto spesso. Faceva parte dell’armatura d’ordinanza degli schiavi guerrieri aramani. Trasalì non appena Tigran sistemò anche ciò che ancora conteneva. Le due orbite vuote del cranio privo di mandibola la guardarono di rimando. Era bianco e pulito, mancante di alcuni denti, ma apparentemente in buono stato. Elenie si portò una mano alla bocca per la sorpresa, ma non mostrò ribrezzo: da schiava aveva vissuto anch’ella la sua buona parte di orrori, quanto bastava per non lasciarsi impressionare da certe cose; al contrario di talune marmocchie coetanee libere di buona famiglia.
«C-Cosa? Come sarebbe a dire?» Balbettò sbigottita, non riuscì a dire altro.
Tigran parve ravvedersi, ebbe un attimo di esitazione, come avesse fatto un torto alla sua amata. «Scusa. Mi dispiace...» Abbassò lo sguardo. «Siccome era sulla strada, ehm... volevo vederlo un’ultima volta.» Si voltò, guardando malinconicamente il fortino arroccato sulla roccia. «Ma ti... ti capisco. Questo non è esattamente un posto romantico... hahaha...» Rise mestamente, come per sdrammatizzare un tremendo errore appena commesso. «Sì...» Sospirò. «Forse è meglio rimetterci in viaggio.» Fece per gettare il teschio per terra, quando Elenie lo fermò.
«Ah! Aspetta.» Tese una mano verso di lui. «Guarda che non mi sono mica offesa. Sì, ehm... nel senso... non è che questo posto sia il massimo della bellezza, ma...» Farfugliò, nel tentativo di dirimere il malinteso. «Insomma, io mi sto solo preoccupando per te.» Lo squadrò torva per qualche istante. «Ci eravamo sistemati così bene a Qashra, poi un giorno ti salta il grillo e di punto in bianco decidi di tentare la traversata del deserto del See e raggiungere il Dortan. E ora allunghi di due giorni la strada per Çekerek per raggiungere... questo.» Indicò con il braccio teso e il palmo aperto il fortilizio. «Posso almeno sapere cosa diamine ti sta passando per la testa?» Sbuffò. «È da quando Vahram è stato esiliato che non ti dai pace...»
A nessuno dei due serviva rammentare quanto il loro amico avesse fatto per loro in passato. Fu capitano di Tigran quando era ancora un mamūluk, e, insieme al nano Ydins Rou, salvò Elenie e diversi altri schiavi dalla prigionia del Conte Fernand Kuhbach di Parisia.
Il guerriero si guardò intorno, sospirò ancora. «Lo so, lo so, mi dispiace.» Con gli occhi bassi andò ad appoggiarsi con la schiena sul fianco del carro. «Ma te l’ho detto, non ce la facevo più a restare laggiù.» La sua voce si fece triste. «Una volta giurammo che dinanzi a qualsiasi tempesta saremmo rimasti sempre tutti uniti, ma ora...» Scosse la testa. «Con l’avvento di questa nuova prosperità ogni schiavo guerriero ha cominciato a pensare solo a se stesso. Mastro Zuben si è dato alla politica, io e i vecchi membri della mia squadra ci vediamo a malapena... e il mio capitano non c’è più.» Iniziò a giocherellare con la testa del morto, non trovando altre parole per spiegare. «È... complicato.»
«Complicato, eh?» Elenie si accomodò a lato della cassetta, in modo da stare al fianco del suo compagno. «Be’...» Sorrise ironicamente. «Non saprei. Potresti iniziare, per esempio, a raccontarmi cosa è accaduto in questo forte. Se mi hai portato fin qui solo per tenermi sulle spine, allora sì che mi offendo.» Lo punzecchiò, ridendo sbarazzina.
«Però... ehm... in tutta franchezza...» Tigran deglutì. «...non sono sicuro che tu voglia sentire certe storia. Io ho visto l’inferno, ti giuro... ho visto l’inferno.»
L’espressione della ragazza per un momento s’adombrò, come intimorita. Abbassò gli occhi e trasse un lungo respiro. Ci mise alcuni interminabili secondi a riacquistare il sorriso, come se si stesse sforzando di scacciare le paure che la attanagliavano. Guardò dritto negli occhi l’uomo che aveva scelto per suo consorte con rinnovata decisione: non avrebbe più esitato.
«Ehi, razza di porco criminale.» Lo chiamò, facendo scherzosamente la voce grossa. «Dimmi un po’, che avete combinato qui? Avete tagliato le palle a tutti i soldati di questa topaia di merda? Avete legato e violato le loro donne fino a sfondargli le budella? Oppure avete catturato il generale nemico e a turno lo avete inculato a sangue per tutta la notte?»
Tigran gelò sul posto con gli occhi strabuzzati nell’udire tutte quelle turpitudini uscire dalla bocca del suo angelo in una volta sola.
«Hahaha!! Ma guardati!» Elenie rise di gusto osservando la sua reazione. «Be’?» Restò con le dita incrociate sotto il mento, in attesa di un giudizio per la sua prestazione.
Esterrefatto, l’aramano annuì impressionato. «Oh, dei... che cazzo ho sentito...» Biascicò, piegandosi in due trattenendo a stento le risa. «Ero uno schiavo guerriero, mica un pervertito! Pfff...hahahHAHA...!!» Esplosero.
Quel tetro angolo sperduto di deserto improvvisamente echeggiò delle risate a crepapelle di quei due bizzarri viandanti. Non ricordavano quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che avevano riso così tanto, Tigran abbarbicato alla fiancata del carro, quasi sul punto di ruzzolare a terra; Elenie letteralmente abbracciata alla cassapanca che faceva da cassetta. Gridavano e si dimenavano come babbuini davanti agli occhi straniati dei loro cavalli. Probabilmente se qualcuno fosse passato nei paraggi e li avesse scorti in quello stato – due dementi su un carro in mezzo a un campo di battaglia senza nome a ridere come dei deficienti – li avrebbe scambianti sicuramente per folli. Non seppero dire per quanto tempo continuarono, riuscirono a smettere solamente quando sentirono la milza dolergli e le lacrime inondargli le guance.
«Muoio!» Tigran arrancò barcollando verso la cassetta. «Oh, cavolo... Cominci a farmi paura. Passare due anni dentro a un tugurio stipato di guerrieri puzzolenti non ti ha fatto certo bene.»
Le mani vellutate di Elenie gli accarezzarono il volto, avvolgendolo come fra petali di giglio in un abbraccio di immenso affetto e premura.
«Di quale inferno parli, fustacchione?» Lo incalzò intonando ancora quella buffa voce grossa, ma presto il suo tono mutò, divenendo estremamente calmo e amorevole, quasi materno. «Non ero forse anch’io con te quando l’Abisso camminò sulla terra? A Portalorica, a Qashra.

Lo abbiamo visto insieme l’inferno.
Lo abbiamo combattuto insieme.
»


Lo guardava intensamente con sguardo penetrante, come per supplicarlo dal profondo del cuore. «Tigran... è da quasi un anno che siamo uniti, io non ho paura. Io voglio sapere. Ho vissuto due anni insieme a te e alla tua gente, ormai credo di aver compreso a sufficienza cosa significasse essere un mamūluk. Non è colpa vostra se eravate obbligati a fare quelle... quelle cose.» Gli terse delicatamente la guancia con il pollice. «Non m’importa di ciò che tu hai commesso in passato, qualunque cosa sia.» Gli rivolse un amorevole sorriso. «Il Tigran che conosco in mezzo al deserto mi passava tutto il suo pranzo quando non riusciva a procacciarne per entrambi, mi a protetto quando i demoni dilagavano per Qashra e... e sa essere una persona meravigliosamente gentile quando vuole.» Saltellò allegra fino al carro e risalì nuovamente in cassetta, scoccandogli un’ultima occhiata, come per ribadire il concetto. «È questo il Tigran di cui mi sono innamorata.» Assunse un atteggiamento accigliato, guardando storto l’uomo pur continuando a sorridere. «E anche di quello che non vuole raccontarmi nulla del suo passato per paura di traumatizzarmi.» Aggrottò le ciglia, imbastendo un brioso tono di ostinata provocazione. «Su, avanti. Ti sfido a farlo.» E si arroccò sul carro in attesa, piegata in avanti reggendosi il mento con le mani.
Tigran si dondolò sul posto, cercando un punto da cui cominciare a spiegare.
«No, be’... in verità...» Abbozzò un mezzo nervoso sorriso, tornando a rigirarsi il teschio tra le mani. «Non è che qui sia accaduto un massacro degno di nota. Insomma, non come pensi tu.» Tentennò di nuovo. «Vedi... qui è dove ho avuto la mia prima volta.»
Elenie drizzò il capo e strabuzzò gli occhi. «Vaaa bene, la faccenda comincia già a farsi ambigua.» Proferì con una voce per nulla facile da distinguere se fosse scioccata o alterata.
«Ah! No, no!» D’istinto Tigran tese le mani avanti verso la ragazza con i palmi aperti, come per esortarla a dimenticare ciò che aveva appena detto. «Intendevo dire... la mia prima battaglia.»
D’improvviso Elenie s’incupì. «Ah, capisco...» Si spostò lasciando un posto per lui sulla cassetta e lo invitò a salire e mettersi all’ombra. «Su, vieni qui. Raccontami.»

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Quindici anni fa questi luoghi erano completamente diversi. A sud-ovest, nella direzioni da cui siamo appena giunti si estendeva il grande Impero Sulimano; a nord invece vi era il califfato dei Turkemanni, i suoi confini passavano proprio nei pressi di questo forte.
I Sulimani erano un popolo giovane, fino a cinquant’anni prima si chiamavano Assamidi e il loro territorio era solo un piccolo regno, uno dei tanti che prosperavano lungo il fiume Ğalaw. Poi un bel giorno salì al trono Aznud Sulimano, un uomo ambizioso, spietato. Lo chiamarono il Grande, altri il Terribile. La sua lunga vita fu una sola e unica interminabile campagna militare. Lui e i suoi figli mossero guerra a mezzo Bekâr-şehir, inglobando tutti i popoli lungo il fiume Ğalaw e sulle catene montuose ad est: Canaiti, Mariidi, Sumidi, Kanush, Buri, pirati del Golfo Settentrionale... Aramani. Non passò molto tempo prima che la loro capitale, El Kahir, si trasformasse da un tugurio cinto da mura di fango a una vera e propria metropoli, pullulante di meravigliose statue, palazzi, fontane... laboratori d’artigianato, attività mercantili... e tanti, ma tanti schiavi. Fu da essi che nacquero i mamūluk, gli schiavi guerrieri, e da un’audace progetto dell’Imperatore Sulimano insieme ai suoi intellettuali e ai suoi generali: reclutarono quella massa immensa di sottomessi, la armò, la addestrò come mai si era fatto sinora, inculcando in quelle menti labili che i loro popoli erano deboli, che al servizio del Sulimanato sarebbero stati invincibili... e ci riuscirono. Da mandria di schiavi sconfitti, divennero il gioiello dell’Impero, una delle armate più temibili del Bekâr-şehir.
Solo un altro grande regno si ostinava ad opporsi al potere Sulimani: il califfato di Turkmenia. Era una nazione dotata di tecnologie avanzate, alcuni tra i migliori strateghi militari del mondo moderno e una delle cavallerie pesanti tra le più abili e disciplinate del continente. Furono la nemesi dell’Imperatore, un muro che sembrava invalicabile. I Sulimani combatterono cinque guerre contro di loro, prima di riuscire definitivamente a schiacciarli.
La quarta guerra Turkemanna fu la mia prima guerra. Me lo ricordo ancora perfettamente: IV divisione Mamūluk, XII Cavalleria Leggera Aramana. All’epoca avevo solo tredici anni... e un altro cavallo.

«Cosa? Eri così giovane?»

Sì...hahaha... uno scricciolo in sella a un bestione peloso. A dire il vero gli allenamenti che avevamo passato prima che ci inserissero nei ranghi regolari degli schiavi guerrieri erano a dir poco brutali: non erano poche le reclute che ci rimanevano secche. Quelli che riuscivano a mettere piede fuori dai campi d’addestramento avevano muscoli d’acciaio e la tempra di un rinoceronte; diciamo che nonostante fossi solamente un ragazzino, sembravo molto più vecchio. E poi combattevamo in velocità dalla distanza, a cavallo, armati di arco e frecce; non serviva essere dei colossi per ottemperare alle nostre funzioni in battaglia, di rado ci ritrovavamo a corpo a corpo col nemico.
Be’, insomma, ricordi l’oasi di Al-Qasid? Quella in cui ci siamo fermati cinque giorni fa? Quella con l’enorme cittadella fortificata in cima alla collina?

«Sì, ricordo.»

Fu lì che si radunò l’esercito Sulimano; per la Quarta Guerra Turkemanna avevano preparato un assalto in grande stile. Immagina: un mare di tende bianche come le nuvole e una foresta di vessilli rossi svolazzanti. 120.000 uomini accampati sulla piana davanti all’oasi.

«Eww, praticamente è come se fosse un’intera metropoli sorta una notte sola. Mi risulta difficile solo figurarmelo.»

In una settimana, per la precisione; e non è uno scherzo radunare tante armate provenienti dai quattro angoli dell’Impero in così poco tempo. C’era l’esercito ordinario del Sulimanato, e poi una marea di schiavi guerrieri di ogni sorta e specializzazione: fanti leggeri Sumidi e Kanush, Buri dalla pelle nera a cavallo di giganteschi rettili, c’erano persino un gran numero di schiavi Turkemanni, soprattutto artiglieri e cavalieri catafratti. C’eravamo noi Aramani in sella ai nostri rupicavalli Yomud degli altopiani settentrionali... e poi c’ero io, hahaha! E indovina chi era in mio capitano.

«Ehrrm... Vahram?»

Eh, già. C’era anche lui, insieme a suo fratello.

«Vahram ha un fratello? Non lo sapevo.»

Be’, aveva un fratello. Si chiamava Nenad. Morì in battaglia qualche anno dopo, ma non so esattamente come siano andate le cose. Era... accidenti... era un armadio a tre ante! Dico sul serio, all’inizio mi faceva davvero paura: avrei giurato che e avrebbe potuto facilmente sfracellarmi la testa con un pungo se lo avessi fatto incazzare. Ma al di là delle apparenze in realtà era una persona magnifica, uno che ti prendeva per mano e si fermava a spiegarti se avevi dubbi su qualcosa. Lui sì che ci considerava come fratelli. Già... lui sì che era un vero capo.
Tornando alla nostra campagna, noi eravamo assegnati alla divisione settentrionale. Ci mettemmo in marcia per poi dividerci ancora: il grosso della divisione andò ad assediare la città di Akeshra, circa a un centinaio di miglia da qui, mentre il reggimento di 5.000 uomini a cui appartenevo, al pari di altri contingenti minori, fu inviato a conquistare obiettivi di secondaria importanza. A noi toccò questo forte.
Kale Korna lo chiamavano, Forte Corno. Le carovane oggigiorno seguono la via più a Sud, ma una volta la strada che abbiamo percorso era un’importante rotta commerciale, e questa rocca era un elemento tattico di grande importanza, nonché la chiave per la parte meridionale del deserto do Çöl Buçuk. Nulla di straordinario, insomma. Ora che gli antichi confini non esistono più, questa piccola fortezza ha perso tutto il suo valore strategico; per questo motivo ora è abbandonata.
Insomma, appena arrivammo ci trovammo davanti un nutrito reggimento turkemanno pronto a fermarci. Vincemmo noi. Col senno di poi direi che fu pure uno scontro facile, ma allora... hehe... non nego che ho rischiato di cagarmi addosso in sella.

«Fu qui che uccidesti per la prima volta?»

Sì... Sono passati tanti anni, ma rammento bene quei momenti come se fosse ieri. Uccisi tre fanti...
Devo anche dire che durante quella battaglia ero agitato come un macaco idrofobo, e avevo una mira da far schifo – e colpire qualcuno con l’arco in mezzo a quella calca non era nemmeno una grande impresa. La prima persona che ho ammazzato però mi è rimasta impressa quì dentro, in testa: non ricordo bene i suoi lineamenti, ero troppo lontano, ma vedo ancora quella freccia trapassare da parte a parte il collo di quel disgraziato e il fiotto di sangue schizzare fuori dalla ferita, prima che quel soldato sparisse sotto i piedi dei suoi compagni, fulminato. Ma ancor più ricordo la risata del cavaliere dietro di me – Naaji si chiamava, all’epoca era il mio migliore amico – e le precise parole che mi disse: “Finalmente, Tigre! Cazzo, quel ciccione era tre volte te!”

«Ehm... posso chiederti... che cosa hai provato?»

Uhmm... Be’, molti guerrieri dicono che la prima volta che si uccide un uomo si sta da schifo, ma sarò franco con te.
Non ho provato nulla.
Sarà stato l’apprezzamento del mio compagno, l’addestramento che stava dando i suoi frutti o semplicemente il fatto che trovarsi tanta gente incazzata di fronte a te, mossa dall’unico intento di trucidarti non lascia molto spazio ai sentimenti. In caserma ci istigavano, ci insegnavano che nessuno merita pietà sul campo di battaglia, e io non ne ebbi. Mai.

Ehm, scusa... cambiamo argomento.

«No... non preoccuparti. Uhm... a proposito di Vahram. Che tipo era? Non saprei immaginarmelo.»

Dunque... dimentica completamente il Vahram che conosci. Bene, ora immaginatelo... più giovane – ovvio –, coi capelli corti, senza la barba e con una faccia che prenderesti a schiaffi ogni volta che ti si para davanti.

«Eh? Lo odiavate davvero così tanto?»

Be’, oggi lo considero come un fratello, lo seguirei ovunque, ma allora... lasciamelo dire, ma era un pessimo capitano. Aveva vent’anni la prima volta che lo incontrai. Non sorrideva mai, non ci parlava mai, tantomeno veniva a divertirsi insieme a noi; continuava a sparare cazzate e a fare come gli pareva. Era sempre in punizione, più di una volta rischiò di essere pure degradato: puntualmente in battaglia lasciava il comando al suo sottoufficiale e se ne andava per conto proprio, talvolta uscendo persino dalla formazione. Era abile, e molto anche, ma pazzo, pazzo da legare. Sembrava quasi che facesse di tutto per cercare di morire. Te lo giuro: io e la mia squadra ad un certo punto abbiamo cominciato a scommettere su quanti giorni sarebbero passati prima che finisse ammazzato. Era l’esatto opposto di suo fratello.

«Accipicchia...»

Già, persino io mi chiedo come faccia ad essere ancora vivo dopo tutte le bravate che ha fatto...
Comunque sia, l’esercito nemico andò in rotta e ripiegò all’interno del forte. Dunque, appena dopo la mia prima battaglia, sperimentai anche il primo assedio. E ti confesso che non fu assolutamente un’esperienza migliore.
Inizialmente tutti pensavamo che sarebbe stata una passeggiata, dopo quella prima facile vittoria, ma neanche a dirlo ci sbagliavamo di grosso. Anzi... fu da quel momento che iniziò il vero martirio.
Accerchiammo il forte e, senza lasciare il tempo al nemico di consolidare le difese, già dall’alba successiva iniziammo gli assalti. Giornalmente, senza tregua né per noi, né per gli altri.
I nostri generali non ci avevano spedito in quella missione impreparati; sapevano che le forze del nemico erano esigue, che avremmo trovato poca resistenza, che l’obiettivo da assediare era un fortilizio di dimensioni irrisorie; avevamo un gran numero di scale, una batteria di sette catapulte e diversi genieri esperti. Non avevano dimenticato nulla, a parte una cosa: tutto il resto.
Nonostante la rocca fosse relativamente piccola, la sua posizione era – a detta dei genieri – una tra le più rognose che potessero capitarci. Incastonata in una conca rocciosa, con le alte mura affondate saldamente nelle radici della montagna; non importa quanto fosse grande il nostro esercito, solo un numero limitato di soldati poteva portare un assalto. Le cortine erano di architettura nanica, alte e robuste, facilmente controllabili da ogni lato, quasi insensibili ai massi delle catapulte, ma soprattutto loro avevano i cannoni. E noi no.
Con i materiali a nostra disposizione costruimmo degli arieti; gli artieri riuscirono persino a utilizzare i lunghi tronchi di legno che ci portavamo dietro per costruire un rudimentale trabucco. Fu tutto inutile. In mezzo al deserto era impossibile trovare legname decente, e questo ci precludeva la possibilità di implementare gran parte delle opere di assedio più complesse, come tunnel o torri semoventi.
Non ricordo come si chiamava il nostro comandate, mi pare fosse un sulimano, me lo ricordo solamente perché era perennemente incazzato. Continuava a sbraitare. Sbraitava perché scavavamo troppo lentamente, quando ci trovava in pausa – anche quando non era il nostro turno di ronda –, sbraitava contro i messaggeri perché gli portavano sempre notizie che non gradiva. Sbraitava perfino quando era da solo dentro la sua tenda. Spediva ogni giorno messi al quartier generale richiedendo in continuazione l’artiglieria pesante a polvere nera; era l’unica soluzione possibile per riuscire a sfondare quelle dannate mura, si diceva. Ma quei cannoni non arrivarono mai, nemmeno una misera colubrina. Girava voce che si rifiutassero di spedirgliele per dispetto, a causa del tono inviperito delle lettere che inviava ai generali, e che gli rispondessero ogni volta che tutti i cannoni a disposizione dovessero essere spediti urgentemente a nord per dar manforte al grosso dell’esercito, che nel frattempo stava assediando la ben più importante città di Akeshra.
Provammo di tutto. Scavammo trincee per avvicinarci il più possibile, a portare gli zappatori sotto le mura per scavarle, ma ogni stratagemma che ci inventavamo veniva puntualmente sventato. I pochi che riuscivano a raggiungere la cime delle mura duravano ben poco. Ogni giorno si trasformava in un massacro. Io finì lì in mezzo a quell’ecatombe diverse volte, e ti assicuro che è una delle esperienze più orribili che si possano provare in guerra. Peggio della mischia. Immaginati di ritrovarti pressata in mezzo a una calca imbestialita, incapace di muoverti, obbligata a lasciarti trasportare da quella fiumana verso traballanti scale a pioli affollate di soldati urlanti che spintonano e sgomitano, avanzando lentamente. Fatto? Bene. Ora immagina la medesima situazione, ma sotto una grandinata incessante di frecce, bolzoni, massi grossi quanto la tua testa, olio bollente e scariche tonanti di armi da fuoco di grosso calibro. Ah, e pezzi dei tuoi compagni sfracellati dalle armi da fuoco di grosso calibro. Non importa quanto tu sia abile o esperto; ci si sente indifesi. Si avanza come un branco di bestie, pregando e bestemmiando, consapevoli del fatto che l’unico usbergo a proteggerci sono gli dei e la fortuna.
Andammo avanti così per una settimana, i cadaveri dei nostri si accumulavano ogni giorno di più ai piedi delle muraglie annerite, scheggiate, ma ancora inviolate.
Decidemmo dunque di prenderli per fame. Puntellammo il forte per sette settimane, ma gli assediati non davano ancora segni di cedimento. Scoprimmo solo in seguito, per puro caso, durante una ronda di esplorazione, che il forte era collegato all’esterno da un lungo tunnel ben celato che portava all’altro lato della montagna. A nostra insaputa, quei bastardi continuavano a ricevere rifornimenti da quella via. A notte fonda, dunque, il nostro comandante radunò un cospicuo contingente di truppe mamūluk e tentò di raggiungere il forte dalla galleria. I Turkemanni non si lasciarono trovare impreparati; combattemmo come dei diavoli per altri cinque giorni, conquistando cunicoli e depositi scavati nella montagna, metro per metro, giorno per giorno. Era un inferno lì dentro, ma perlomeno la situazione si era sbloccata, il nemico iniziava a cedere. Assaporavamo già il momento in cui avremmo messo piede all’interno delle mura e issato la bandiera dei Sulimani sul torrione più alto.

Dopo due mesi di terribile assedio era fatta. Te lo assicuro: ci mancava tanto così.
La nostra armata aveva perso oltre un terzo dei suoi uomini. Molti miei amici erano morti,
ma ci convinsero che tutti quei sacrifici ne erano valsi la pena, per un obiettivo più grande.

Peccato che il destino talvolta si faccia beffe degli immensi sforzi degli esseri umani...

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Tigran ad un tratto si ammutolì. Restò a testa bassa a fissare la sabbia accarezzata dal vento pomeridiano, seduto sulla cassapanca al fianco di Elenie.
«E...?» La ragazza lo invitò a proseguire. «Allora, lo avete preso questo forte oppure no?»
Tigran strinse le labbra. «Guadagnavamo terreno ogni giorno di più. Cresceva nell’aria la sensazione che i nemici pian piano stessero finalmente cedendo. Il comandante e i suoi subalterni stimavano che entro una settimana saremmo riusciti a mettere piede nella cinta. Temevamo solamente che i Turkemanni decidessero di punto in bianco di fare qualche pazzia, tipo far saltare le gallerie e intrappolarsi dentro il forte come topi dentro a un secchio senza buchi, ma dubitavamo che accadesse una cosa del genere: si era ormai aperto qualche accenno di trattativa. Già si parlava di resa.»
A quel punto il tono del guerriero cambiò: divenne fosco, amaro.
«Fu proprio l’indomani che giunse un messaggero da nord. Annunciò che l’assedio di Akeshra era stato spezzato, che le nostre legioni si stavano ritirando una ad una, che l’intero fronte settentrionale era crollato... e che un’armata turkemanna di 40.000 uomini stava in marciando verso di noi.»
«Oh...» Elenie abbassò la testa, avvilita. «E quindi... cosa avete fatto?»
Tigran scosse la testa e rimase in silenzio per un po’, prima di rispondere.

«Levammo le tende e tornammo dritti dritti da dove eravamo venuti.»
Dichiarò tutto d’un fiato.


«Oh, accidenti... Mi dispiace.» Esclamò la fanciulla, spalancando gli occhi. Allungò una mano e gli strofinò la coscia, nel tentativo di consolarlo.
Il guerriero raccolse tra i palmi la manina candida della fanciulla, sogghignando divertito. «Ah... non fa niente, menr sireli, è acqua passata.» Portò le labbra alla sua bocca e la baciò dolcemente. «Sono riuscito a conquistare te.» Disse, accarezzandole la guancia setosa. «E questo per me conta più di qualsiasi forte o città che abbia mai espugnato.»
La ragazza scoppiò a ridere, lo spinse via premendogli la manina sul muso. «Ahaha...ma fammi il piacere! Mi metti in imbarazzo quando ti metti a dire certe smancerie!»
«Ehi! Ahaha... ma è vero!» Tigran si finse offeso, ritrovando in un attimo il buonumore. «Be’, rimettiamoci in marcia, altrimenti si fa tardi. Dove sono quei due mascalzoni? Phyre, Raffi! Ehi, eccoli là. Ma guardali!» Borbottò scherzoso, indicando i due cavalli che nel frattempo si erano accoccolati l’uno vicino all’altro all’ombra delle mura. Fece per saltare giù dal carro per andarli ad acciuffarli, quando una mano lo trattenne. Appena si voltò si trovò davanti la faccia di Elenie: la bocca semiaperta, contratta in un sorriso largo fino agli orecchi, i suoi occhi brillavano di infantile eccitazione, come se le fosse appena frullata in testa qualche balzana illuminazione.

«Prendi l’ascia!»
«Eh?!»
«Ho detto prendi l’ascia!»
La sua voce era trepidante.

«Andiamo a conquistare il forte!»


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Fu uno dei momenti più stranianti che Tigran avesse mai vissuto. Andarono davvero a conquistare quel dannato forte. A passo di carica raggiunsero l’ingresso, ascia in pugno si aprirono un passaggio attraverso le tavole sgangherate di legno marcio del portone e infine... irruppero all’interno. Il guerriero si aspettava già cosa avrebbe trovato, non era certo la prima volta che entrava in un forte abbandonato: niente di niente, solo nude rovine, vuote e diroccate. Probabilmente gli sciacalli avevano già violentato tutti i fortilizi della zona diversi anni addietro. Eppure insieme a Elenie andò a esplorarne ogni centimetro, espugnando il maschio dove alloggiava il comandante nemico, i magazzini dove un tempo erano stipate le armi, le dispense dove venivano conservate le provviste, e l’entrata alle gallerie, ormai ostruita da una frana. Quando si stufarono di esplorare, iniziarono a rincorrersi per gioco, dentro e fuori dalle anguste sale vuote, su e giù dalle mura. Si divertivano come bambini, due creature in pace col mondo, incuranti delle innumerevoli ossa che la sabbia sotto i loro piedi nascondeva. Andarono avanti così finché ad un certo punto, stanchi morti, riuscirono finalmente ad acchiapparsi in cima al torrione più alto, e rimasero lì, cheti, abbracciati... a godersi l’ampia, straordinaria e ininterrotta vista sul deserto bagnato dal sole ponente che quella torre d’osservazione offriva.

«Elenie.» Tigran ruppe il silenzio. «Ehm... grazie.» Disse, leggermente imbarazzato.
«Per cosa?»
«Be’... è grazie a te se sono riuscito a conquistare questo forte.»
«Prego. Chiamami la prossima volta che ti capita un assedio.» Si lasciò sfuggire un risolino. Si volse verso il suo consorte, riflettendo i propri occhi smeraldo nei suoi. «Te lo sarai anche meritato, spero. Dopo tutti questi anni.»
Tigran sorrise, godendosi finalmente quel tramonto per cui aveva tanto combattuto. Rimpianse solo di non avere con sé alcun vessillo da issare sul torrione, fosse stato anche il canovaccio sporco che Elenie usava per pulire le stoviglie. Però...
«Forse... c’è qualcuno che lo merita più di me.»
«Eh? M-Ma che... Ehi! Credevo l’avessi gettato via!»
La ragazza si ritrasse sorpresa non appena Tigran estrasse un fagotto dalla bisaccia, svelando il teschio cinto dall’elmo che aveva raccolto poco prima. Senza badare alla reazione della ragazza, il guerriero cercò un posto riparato tra i merli di pietra e vi sistemò la testa del fratello defunto rivolta verso il deserto infinito, sistemandogli con rispettosa cura il cimiero.

«Goditi la tua gloria, yeghbayr. Te la sei guadagnata.»

«Meglio tardi che mai.»
Aggiunse Elenie, sorridendo soddisfatta.
«E poi la vista è a dir poco meravigliosa.»

Il guerriero mamūluk si mise sull’attenti e si batté un pugno sul petto, porgendo gli onori a quell’ignoto cavaliere, ignoto come lo erano tutti i soldati che combatterono e perirono per quel forte.
Fatto questo, tornò ad abbracciare la sua consorte, e insieme tornarono sulla loro strada, la lunga strada che dovevano ancora percorrere...

...lasciando quel malinconico abitante del passato a godersi il proprio trionfo.



Anche i pomodori sanno che non si sfugge al passato. :8D:

Occhei, dopo questa uscita da Ortolani (doppio :8D::8D: ), vado a infossarmi. Chiunque abbia già letto qualche mio vecchio post, forse riconoscerà i vari camei che ho inserto in questo contest. Perdonate la - solita - lunghezza, ma ci ho messo l'anima per scrivere questo testo. Si tratta un po' di un preludio a un nuovo capitolo della storia di Vahram che vorrei inserire presto.
 
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0 replies since 31/12/2014, 06:56   81 views
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