Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Passaggio a Nord Ovest, Arrivo di Conor O'Gwion

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The Grim
view post Posted on 8/1/2015, 09:31





Medda Wickefor scrutava l'orizzonte impaziente, alla ricerca di una figura esile in quel mare di bianco e marrone, poi l'elfo Maeve Gwyp Caranthir fece capolino nel suo campo visivo. Era facile capire che fosse lui perché nonostante i pesanti indumenti in pelle che l'avvolgevano, quello non sprofondava nelle neve come gli altri della spedizione ma galleggiava leggiadro su di essa donandogli un ché di ultraterreno. Nonostante le settimane di viaggio l'omaccione non riusciva ancora a tenere il suo sguardo su quel viso angelico deturpato da mano umana - o forse elfica - perché era difficile credere alla sua storia di un incidente in montagna: il naso e le orecchie erano stati amputati parzialmente, tagli netti e geometrici che solo uno strumento poteva garantire; ma quelli non erano affari del mercante che si teneva alla larga dall'indagare. L'intero bastimento strampalato che l'accompagnava nella traversata non era certo composto da persone normali, tutti avevano i loro motivi oscuri e scheletri nell'armadio, altrimenti non avrebbero accettato una proposta così insensata come scalare la catena degli Erydlyss; quelli di Medda avevano il colore dell'oro e il profumo degli affari. Mentre l'altro s'avvicinava cercò una postura autoritaria, ma dal suo metro e quaranta d'altezza era difficile; odiava il suo handicap più del soprannome di Mezzuomo.

" Mastro Wickefor, il passo di Moffetta è bloccato, dobbiamo trovare un'altra strada. Ho dei brutti sospetti sul fatto che sia stata una slavina o un incidente, ma sono solo congetture. "
" Porco mondo! Ne sei sicuro?
A me sembra piuttosto probabile visto il clima. In ogni caso, che alternative ci rimangono?
"
" Così su due piedi, non ci rimangono che due possibilità: possiamo tentare di aggirare il Cornocupo, questo ci lascerà esposti per parecchie settimane sulla dorsale più aspra del monte. Sarà dura ma ho paura che se perdiamo troppo tempo possiamo incappare in grandinate se non peggio, la stagione è quella che è. "
" Avrei voluto partire prima ma non è certo colpa mia se nei regni degli uomini è scoppiata una guerra civile. Bene, che altro ci rimane? "
" Oppure potremmo sfruttare il corridoio di Pietralia, presidiato dagli Anahmid. Quegli uomini però hanno la testa di ghiaccio e il cuore di pietra, il pedaggio sarà caro. "
" Aguzzini della malora, sciacalli infami! "
" Ecco e poi, ho visto traccie di animali, un branco numeroso di fiere di dimensioni spropositate. Sembrerebbero lupi, ma di così grandi non ne ho memoria.
Sarebbe meglio tenere più di una vedetta questa sera.
"


CITAZIONE
Ciao e benvenuto nell'Edhel!
Sarò io a gestire il tuo arrivo che si strutturerà come una mini-quest in cui cercherò di testare le tue capacità. Non badare alla qualità dei miei post, che saranno esigui e poco curati nella forma per non farti attendere troppo, ma tu cerca sempre di dare il meglio di te! Dalle dimostrazioni in questa giocata dipenderà il tuo grado energetico finale, e potrai essere promosso alla fascia energetica Gialla od addirittura Verde.

Come avrai intuito stai accompagnando un mercante - Medda Wickefor il mezzuomo - nella traversata dell'Erydlyss. Lascio a te la scelta se essere una scorta armata o un semplice portatore, a seconda dell'indole del tuo personaggio. Il gruppo è formato da una dozzina di persone oltre a te, il mercante, e Maeve Gwyp Caranthir, una guida elfica che fino ad ora si è mostrata capace nel suo ruolo. Cinque degli altri membri - sei se tu decidi di essere un semplice portatore - fungono da guardie, tutti uomini, per curiosità ti informo che sono per scelta o vicissitudini disertori dell'esercito dei Quattro regni o della Guardia insonne che si stanno tenendo alla larga dal conflitto. Fammi sapere nel thread della richiesta d'arrivo quale dei due ruoli farai occupare al tuo personaggio, rimanendo libero di proporre altre interazioni secondo la modalità " diconfronto ". Dovrai perciò rispondermi nel topic di servizio del tuo arrivo - questo - proprio come fossimo a tu per tu ad un tavolo da gioco. Non ti si chiedono post elaborati ma semplicemente le reazioni o le risposte del tuo personaggio, in maniera molto immediata, finché non ti darò lo STOP. A quel punto dovrai stendere un post con le informazioni e le direttive raccolte fino a quel momento, stavolta dedicandogli la cura necessaria. (Se hai dubbi su questa modalità di gioco non preoccuparti a chiedermeli sempre nel topic dell'arrivo che ti ho linkato qualche riga più in su, o magari studia altri arrivi come questo per avere un'idea di come proseguire). Buon gioco!

 
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Ontos
view post Posted on 15/1/2015, 18:43





Inizio.

Se nei prati di Ashiria mi fossi ricordato di cogliere un filo d’erba, come un tempo solevo fare, le cose potrebbero essere diverse, adesso.
Se il fischio del carro ed il nitrito delle bestie non ci avessero tratto a loro, in piedi per la strada come pertiche, saremmo ancora stesi sui colli grigi che si facevano verdi. Staremmo cantando, dopo mangiato, dei viaggi da fare e dei luoghi in cui andare. Prima che svaniscano, disse il folletto, dobbiamo tornare alle vette dell’Erydlyss, dai gufi, e dobbiamo correre giù dai fianchi del monte come facemmo quella volta, sino al torrente.
Se non fossimo stati così impegnati, nel momento, e se poi non fossimo stati ancora così stanchi come eravamo, forse, adesso o domani, staremmo facendo il bagno nel torrente assieme ai pulcini e alle volpi rosse. Assieme ai gatti randagi delle strade in terra battuta, in quel villaggio che visitammo, ci staremmo rincorrendo. Chiedo al folletto se abbia rimpianti. Non sono rimpianti, mi dice, perché quelle cose le abbiamo fatte, sebbene una volta sola.
Siamo rimasti una volta sola stesi sui prati dorati dell’autunno di Ashiria in lutto, prima che calasse il sole, e con i fili d’erba mezza secca abbiamo fischiato una canzone, una canzone di casa mia.
Ricordo fosse estate.
Non importa, tutto sommato. Avremmo potuto fare molte altre cose finché camminavamo assieme. Non qualsiasi cosa, certo, ma non ci è mai interessato fare tutto. Solo qualcosa, solo le cose migliori, i posti più belli, in silenzio se mancava la musica, o altrimenti danzando coi piedi leggeri, come topolini.

Se sui sentieri del lupo, prima del corridoio di pietra, si fosse ricordato come si dormiva bene fra le radici dei salici di Kelt, il folletto avrebbe forse camminato più piano di quanto non fece. Ma non lo ricordava, non ricordava promesse mantenute, nemmeno una, né da parte sua né da parte mia. E poi c’era quel gufo, Cerridwen, che si sforzava di mantenerlo sveglio e pronto.
Ci riusciva molto meglio di me, questo bisogna ammetterlo.
Se, marciando accanto al somaro che portava il vino, il piccolo Conor – che io ho sempre conosciuto come Glenn – non si fosse trattenuto dall’allungare una mano e prendere una bottiglia, al tramonto di quel giorno sarebbe stato ubriaco.

Era quasi sempre ubriaco, lui, quando viaggiavamo assieme.
Ricordo che, in una sera tarda di un’estate secca, quando ancora amici non eravamo, noi due, ma già ci conoscevamo da qualche giorno, io lo portai in un’osteria poco fuori Basiledra e là bevemmo un poco, mangiando del tacchino con patate cotte nella cenere. Riuscì a convincermi che i folletti, quale lui era, non erano in grado di ammalarsi o risentire del troppo cibo o del troppo vino; specificò con insolita precisione ciò che avrebbe fatto da lì a poco: quando il suo piccolo corpo avrebbe ingerito molto liquore, lui si sarebbe alzato con un sorriso e rimbalzando da una panca all’altra avrebbe raggiunto la finestra, che l’oste teneva aperta per far smuovere un poco l’aria rovente.
E lo fece. Mi assicurò, tuttavia, che lo spettacolo sarebbe stato unico – io non avevo mai conosciuto un folletto, e mai altri ne conobbi al di fuori di Glenn – e che non l’avrei dimenticato presto. Avrebbe purificato il suo spirito in un’onda di luce, come fosse un dio dei boschi, e sarebbe rimbalzato indietro da noialtri, sereno e pronto a continuare la festa. Non ricordo il motivo dei festeggiamenti, ma sono sicuro che ciò che il folletto vomitò quella sera non fosse un arcobaleno.
Rimase in bilico sulla pancia su quel davanzale per tutta la notte, e da allora cercai di tenerlo lontano dal vino e dal liquore. Quando me ne andai, lasciandolo solo, lui continuò a far conto che io fossi comunque lì ogni volta che aveva voglia di un boccale di birra o di un bicchiere di vino, e si tratteneva. Non sempre, ma lo faceva.

Da ubriaco le sue menzogne erano meno credibili.

Guardava oltre il bordo del sentiero, proteso verso il dirupo innevato, trattenendosi dallo svuotare la fiaschetta metallica che portava nel taschino interno della sua giacchetta grigia, ma questo accadeva molti anni dopo la nostra separazione. Indossava, sopra quel giacchetto, una maglia di lana sottile ed una spessa pelliccia di tasso che si era fabbricato un paio di mesi prima della partenza, non appena aveva avuto la conferma da parte di Medda Wickefor, il capocarovana, della propria presenza nel gruppo. Non lo ricordavo un amante della compagnia, ma negli anni la gente cambia, dicono, e così sarà cambiato anche lui.
Se non avesse saputo da principio di cosa si trattava, e non vi fosse abituato, l’omino vestito da tasso sarebbe rimasto terrorizzato dallo sbatter d’ali nere ed enormi sopra la sua testa, ed avrebbe pensato ad un grifone, ad un drago o a chissà quale mostruosità dei tempi remoti, vista o non vista da occhi umani, che volteggiava silenziosa nel cielo cristallino. Col tempo, invero, lo sbatter d’ali del gufo gigante aveva insegnato alle orecchie ed al cuore di Conor a placare la paura, invece che lasciarla correre. Io non c’ero più, ma un altro amico vegliava sull’incauto folletto, e di questo sono grato allo Spirito.
Quando la carovana si fermò per accamparsi, allo sboccare del sentiero di montagna in una radura scoscesa, i quattro muli vennero alleggeriti delle some ma non ancora legati. Aspettavano tutti il ritorno di Caranthir, Maeve Gwyp Caranthir, che non tardò a far rapporto a Medda su quanto aveva visto e sentito percorrendo quel sentiero che, al mattino, l’intero gruppo avrebbe imboccato, dirigendosi verso il passo di Moffetta e poi giù, verso i boschi dell’Erynbaran e, per Conor O’Gwion – in arte Grimble Gromble – probabilmente anche oltre, nel cuore dell’Edhel, alla ricerca delle rovine della perduta Asshur, dove io, e di ciò lui era convinto, lo stavo probabilmente aspettando. Dopo molti anni ci saremmo rivisti, e questo pensiero, almeno quanto i ricordi della sua casa nel bosco di Kelt, gli riscaldava il cuore quel tanto che bastava a proseguire nella marcia.

L’elfo Caranthir non portava buone notizie.
Grimble ascoltò senza parlare, come sua abitudine, ed inosservato s’allontanò dai due prima di poter sentire la fine del dialogo. S’allontanò, per la precisione, al suono che fanno le lettere, quando pronunciate, nella parola “lupi”. Lù-pi. Un brivido.
Il piccolo uomo aveva intenzione, sino ad allora, di fabbricarsi un bel nido fra le conifere ed addormentarsi al suono del suo piccolo violino, senza toccare liquore. Poi venne Lù-pi, e la schiena gli si irrigidì.
Se non fosse stato così impegnato, nel momento, e se poi non fosse stato ancora così stanco come era, forse, adesso o domani, starebbe facendo il bagno nel torrente assieme ai pulcini e alle volpi rosse e ai gatti randagi dei villaggi con le strade in terra battuta, al caldo, dove nei sagrati c’è mercato ogni terzo mercoledì del mese e si gioca a palla ogni venerdì, salvo che d’inverno. Dove non c’erano lupi, leoni, falchi, soldati o briganti, ed il cielo alla sera era rosso scuro.
Lù-pi.
Quasi viola, come al tramonto.
Si destò dal brivido ed era accanto ad una roccia, le sue orecchie appuntite erano tese, ed il suo cuore sin’allora velocissimo rallentò di colpo, mentre i suoi occhi iniziavano a vederci rosso e sembrava sorridere, quel folle folletto. Non se n’era accorto, ma dalla borsa aveva preso i due spiedini di ratto che contava di mangiare per cena, quella sera, e già aveva portato alla bocca quella fiaschetta metallica di cui dicevo, piena d’acquavite d’uva per tre quarti.
Saranno passati due minuti, dal ritorno di Caranthir. Il piccolo uomo-tasso non smise di borbottare una volta sola, in quel lasso di tempo, ed incedendo con il suo badile – intenzionato com’era a scavarsi una tana – aveva piazzato uno degli spiedini sulla sommità di un masso a bordosentiero; ma se ne rese conto solo quando sentì il familiare fruscìo delle penne ed il vento che quelle generavano, privo d’odore, scompigliando la barba rossiccia di una persona bassa e nel panico.
Conor O’Gwion, detto fra noi, non è mai stato un uomo coraggioso.

Cerridwen gradisce il regalo, divorandolo con eleganza. Grimble guarda quegli specchi planetari che sono i di lei occhi, ed ha un’espressione inafferrabile.
Dalle guglie verdi e bianche dei pini e dei cedri sorge la prima stella della sera, mentre la montagna, ad ovest, fa sua l’ultima luce del giorno. I suoi fianchi, acuti come lame, sono rossi.

Ci sarebbe da raccontare tutta un’altra cosa, ora, ma dovremo rimandare.

«Buono» fa il gufo, pulendosi il becco con un fazzoletto portole dal compagno di viaggio. Da qui segue una frase sottovoce, che costringe il rapace a piegarsi per arrivare all’altezza di Conor ed ascoltarlo propriamente. Lù-pi. «Va bene» risponde lei, strega della sapienza.
Una volta il folletto le disse che “Minerva” sarebbe stato un gran bel nome, per lei, ma l’idea non le piacque neanche un poco.

Cerridwen decollò nuovamente, e per passare il tempo e calmare i suoi nervi il lesto leprecauno imbracciò nuovamente la pala, contò i cubiti rimasti della corda, scalò uno dei cedri di montagna e riflesse, seduto su un ramo sottile, su quanto più conveniente fosse dormire in alto, rispetto al terreno, e a chi fra Snorri ed Esiodo avesse scritto meglio, tenendo conto delle epoche che passano e della precessione degli equinozi, costante nel tempo, su stelle vecchie e mappe nuove.
Faceva più freddo, sui rami.

Se avessimo avuto meno tempo, io credo, l’avremmo speso meglio.

Uno spirito dei boschi, anche se perduto sulle montagne, ha invece una vita molto lunga, rispetto a quella di un uomo. Tanto lunga da non ricordare i volti e le strade, i nomi di chi gli è stato caro, il profumo delle crostate, quello delle mimose in fiore, che non sente da anni, ma insufficiente a fargli scordare la posizione delle stelle, i loro nomi, le storie che il suo popolo narrava su di loro.
Se avessimo avuto più tempo, invece, avremmo dimenticato tutto quello che c’era da dimenticare. E ci sarebbero da raccontare molte altre cose, anche qui, ma non adesso.
Il tempo c’è.

«Giungono, elfo!» escalama Grimble Gromble in direzione di Caranthir, «Sono a due ore da noi» gli dice più mesto, pensando a come avrebbero reagito gli altri alla notizia.
«Dov’è Medda?»
Cerridwen era tornata dalla sua esplorazione, ed il poco tempo rimasto non doveva andare perduto.
Il mercante raggiunse il piccolo gruppo, lasciandosi alle spalle una tenda ancora da erigere, e lasciò che il grosso gufo raccontasse ciò che aveva visto sui monti: lupi giganti, bianchi come lenzuoli e veloci come fantasmi, in un branco stranamente numeroso. Come già detto, erano a due ore dalla radura, e si stavano avvicinando. Il folletto si stropiccia le mani, preparando il suo spirito pavido alla decisione che la sua mente aveva ormai già preso.

La scelta, a quel punto, era fra la fuga e lo scontro. Poco c’è da sorprendersi che Conor, quando interrogato in merito, abbia preferito la prima opzione. L’elfo non sembrava contento.
«Io dico di muoverci, di affrettare il passo verso il villaggio ed evitare rischi» esclama l’omino, continuando: «potremmo dare alle bestie una falsa traccia. Attirarle altrove per dare il tempo agli altri di abbandonare la loro zona di caccia. »
Sarà stata la sua statura, oppure quella maschera di risolutezza che cercava di tenere sù con tutte le sue forze, oppure quella testa di tasso che portava come cappuccio e che dava di lui un’idea come di un esperto di boschi e foreste, o magari una combinazione di queste cose, ma la voce di O’Gwion, in quel momento, era ferma e non tradiva incertezza o timore.
Dopotutto, le ginocchia potevano anche tremare per il freddo. Non aveva mica paura, lui.
Mica stava ricordando, in quel preciso istante, di quando fu scambiato per una volpe, giù nei quattro regni, e rincorso per un giorno e mezzo da un branco di cani da caccia esaltati come baccanti nei riti di festa. No di certo.

“Lù-pi-lùu-pii” sbiascicava a denti chiusi, congedatosi dal mercante e dallo storpio.
Ci si appresta a levare il campo appena montato, in tutta fretta, davvero, perché bisogna muoversi presto. Bisogna andarsene adesso.
«Se Cerridwen ha detto il vero, avrai da combattere, elfo» sussurra Grimble come uno spettro, alle spalle di Caranthir mentre questi spegneva il fuoco, quasi contrariato. «Ma non nella foresta» continuò «non dove possono accerchiarci. Ascolta le mie parole: loro ci troveranno con il fiuto, ma noi ci vediamo meglio con gli occhi. Dì ai portatori di tenere accese le torce.»
Pausa. Sospiro.
«Io mi dovrò allontanare per un po’, in volo» era questo, allora, che aveva in mente; «tu portali a Petralia più veloce che possono. Lì potremmo difenderci meglio.»
Intanto il folletto sistema qualcosa in un voluminoso fagotto, imprecando fra i denti di tanto in tanto mentre, liberandosi una mano, sorseggia da una bottiglia che, evidentemente, faceva parte del carico.
«Poi la ripago, questa» dice, per poi rovesciarne quasi metà nel fagotto umido. «Io vado a lasciare un po’ di false tracce. Hai abiti sporchi?» conclude.
Non lo dice, ma gli abiti servono a dare al preparato un odore simile a quello delle vere prede. I lupi queste cose le sentono, hanno un ottimo naso, loro.
Un odore molto forte si sprigiona dal marciume trasportato da Gromble che, a ben guardare, ha una grossa molletta da bucato a chiudergli il naso. Ce l’ha da un bel po’, ormai.
Odore di zolfo misto a carne marcia misto a letame misto ad angoscia. Vecchia ricetta per fuggire ai cani da caccia. Vecchia storia.

E poi io penso: se lo avessi lasciato fare? Se fossi stato io, cento inverni addietro, ad abbandonare la mia strada per seguire lui, l’omino del bosco?
Magari staremmo vendendo quadrifogli fasulli in una fiera di paese, sul sagrato in terra battuta dove ogni venerdì si gioca a palla ed il terzo mercoledì del mese si fa mercato, ed è comunque una festa, una festa piccola, tranne che d’inverno.
Queste cose non fanno per me, ma per Glenn si. Quello gnomo contapalle è nato per queste cose, secondo me, e probabilmente proprio per queste cose prima o poi morirà, in un modo o nell’altro.

Ma torniamo sulle foreste, nell’Erydlyss, accanto alla montagna. Oh, com’era bella la montagna, vestita tutta di bianco come pizzo, morbida nell’eleganza di quei ghiacciai lontani, altissimi, che alla luce delle stelle quasi rilucevano come cristalli sul viso di lei, della Montagna, della signora di queste terre e di quelle confinanti.
Era forse ciò che Conor temeva di più al mondo, lui che sotto alla pelle di tasso era un poeta, eppure, eppure …
No, nulla. Non importa.
Dopotutto stona un po’ quella bella immagine della dama di roccia, se poi bisogna parlare del fagotto olfattivo fra le zampe del gufo gigante, sotto schock, mentre solcava vorticante fra le punte di lancia delle foreste di conifere ed il cielo freddo e terso, chiaro persino di notte, per abbandonare qua e là una manciata di poltiglia puzzolente.
Grimble non poteva fare a meno di ridere sotto la sciarpa, nella tronfiezza del proprio genio boschivo. Luu-pii! Luuu-piii!
Eccomi, lupi, ed ecco l’odore che hanno i diavoli quando crepano!

Ho saltato qualcosa, nel racconto. Se a voi non da fastidio, comunque, procederei nella storia.

Poteva vedere, dall’alto, le schiene chiare delle bestie che correvano in ogni direzione. Era quasi in tachicardia. Cherry – come in intimità chiamava Cerridwen – sfrecciava in larghe curve orizzontali, in attesa che le ultime manciate di pastura odorosa venissero sganciate come bombe sulla foresta sottostante. Era veloce.
« Lùu-pii » grida il prode Conor Lucorpàn O’Gwion, in arte Grimble Gromble, altrimenti detto Glenn. « Luuu-piii » conclude stridente, euforico, mentre alla sua stridula esultanza viene risposto con veri ululati, sempre più insistenti, più prolungati.
Glenn si ricordò di essere un vile, a quel punto, ma ormai era in ballo.

E la Luna – Oh, Luna, ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste calli? – forse per beffa oppure per giustizia, ben decise di ignorare le leopardiane odi di quel ridicolo aviatore e di farlo cadere, giù, con tutto il destriero volante. Lo fece, io credo, con un vento molto forte.
Lo fece con gorgoglianti nuvoloni scuri, proprio sopra l’orizzonte, e raffiche come di tempesta. Proprio nel momento peggiore.
Sarebbero stati sbalzati indietro, perdendo il controllo.
Sarebbero stati cibo per le bestie ululanti. Un brivido.
Sarebbe stato tutto diverso, in effetti, se avessero scelto di andare a sud.
La dama di roccia, padrona d’ogni terra da che possasi vedere della di lei vetta la sagoma, non nutre affetto né prova pietà per le creature fragili e deboli.

« Non sono tanto fragile, sai, vecchia baldracca? »
Un sorriso alla neve. Il cuore pompa in un minuto tutto il sangue che aveva pronto per quel mese. Il cappuccio di tasso scivola via, a mostrare ai venti la fronte di quel piccolo omuncolo pavido e vizioso che ormai, almeno un poco, avete conosciuto.
Quello sorride, ulula.
Non regge bene l’alcool.
Apre le mani con le braccine tese di fronte a sé, divorato dall’emicrania, mentre il badile pieno di olezzità cade verso il terreno e due o tre parole anctiche si fanno strada attraverso i denti dello spiritello. Poi singhiozza, socchiudendo gli occhi per un istante, inviluppato dalla spinta superna del vento espirato via dalla sua carne, a contrastare quell'altro vento, per restare in volo. Per non morire, ancora.

È stanco.
Lo Spirito, l’Unico Spirito, checché ne dicano i cultisti ed i chierichetti, ha sorriso per un istante in direzione di un grosso gufo marrone con un fagotto fra le zampe ed un piccolo omino delle terre di Kelt sulla schiena, con una corda a tracolla e qualche carta nascosta nella manica, nel caso in cui si debba barare.
Grimble Gromble ha barato, davvero, ma non ulula più. Deve prendere fiato.

Si dice che i folletti siano creature rarissime. Raccontano, inoltre, che se una fanciulla o un cacciatore hanno la fortuna di vederne uno, quello non può fuggire finché lo si guarda diritto negli occhi, senza battere palpebra, ma che poi fuggirà lesto come una lepre non appena la fanciulla o il cacciatore o chicchesia abbia distolto lo sguardo.
Beh, si dice anche che abbiano pentole magiche piene d’oro alla base degli arcobaleni, ma ciò non vuol dire che sia vero.

È il vento a portare a spasso i folletti.
È il vento che li protegge, facendoli volare sicuri e rubicondi.
Ed è come il vento la loro anima, che fruscia immemore fra le fronde del tempo.
Chissà come andrà a finire.

_ __ __________ __ _



Energie: 100-10-10=80%
Danni: nessuno

Non penso ci sia la necessità di riassumere gli eventi, come si usava fare. Anche perchè succedono un certo numero di cose, quà dentro, e non credo d'essere stato particolarmente criptico. Riguardo all'ultima parte, in base a quanto specificato nel topic dell'arrivo, il folletto usa entrambi gli slot disponibili per castare "Barriera" (pergamena iniziale del mago), quivi riportata:
Barriera
La tecnica ha natura Magica. Il caster genera una barriera magica grande al massimo quanto lui, in grado di difenderlo efficacemente da una offensiva dello stesso livello o inferiore. A seconda della personalizzazione è possibile dare qualsiasi forma, aspetto e colore alla barriera (selezionato: spostamento d'aria). La tecnica ha una potenza difensiva pari a Media, può essere utilizzata a 360° (attorno al caster) con un potenziale difensivo pari a medio, e ad area con un potenziale difensivo pari a basso. Dura un turno.
Consumo Medio.

è castata due volte nello stesso momento per rinforzarne gli effetti, ed è castata ad area per difendere, oltre che il caster, anche il gufo Cerridwen. Il potenziale difensivo globale è medio (basso+basso), mentre il consumo è pari a due volte medio (10+10)%, sufficiente a contrastare, annullandola, la folata di vento che minacciava di abbattere il volatile.

Al termine del narrato i due si dirigono in volo verso il corridoio di Petralia, cercando il resto del gruppo.
Trallallà!


Edit: corretto solamente un errore sintattico. Vederlo là mi infastidiva parecchio.




Edited by Ontos - 15/1/2015, 20:18
 
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The Grim
view post Posted on 19/1/2015, 16:10





Ululati e latrati si rincorrevano nella sera, sempre più frustrati e lontani, carichi di odio e rancore; promesse di vendetta gridate al cielo e alla luna. Il villaggio non era poi così tanto lontano, anche se scorgerlo dalla distanza era una vera e propria impresa, e non per qualche interdizione mistica o incanto prodigioso. Il fatto è che Petralia fu scavata nel fianco della montagna, e si sviluppa interamente nel suo ventre scuro e inquieto. Una fenditura si apriva nella montagna, sprangata da un alto portone in legna robusta, con uno stretto camminamento largo appena per farci stare una persona, da dove le guardie sorvegliavano chi si avvicinava per aprigli la porta o iniziare una fitta sassaiola a seconda se si era benvoluti o meno. Medda e i suoi stavano di fronte a quel cancello, come mendicanti che supplicano per un pasto caldo, o un disperato che si umilia di fronte a un usuraio, ma quello non sembrava aprirsi. A nulla parevano valere le merci offerto o l'oro fatto risuonare, chi stava dall'altra parte continuava a dir di no, no e ancora no; come un infante capriccioso. E si poteva dire che il paragone calzasse più del dovuto, perché quelli che tenevano il fortilizio erano due adolescenti, senza nemmeno un pelo in faccia, che reggevano lance lunghe due volte la loro altezza. I due ragazzini, dai capelli di un biondo cenere, erano così terrorizzati che si muovevano più della fiamma delle torce in quella serata ventosa. La sfortuna pareva aver preso di mira quella spedizione così carica di speranza e promesse.


CITAZIONE
Innanzitutto, scusa del ritardo. Avrei voluto rispondere nel fine settimana, ma un affollarsi di eventi mi ha impedito di mettermi al pc se non per brevi momenti.

Connor arriva alle porte del villaggio, che è scavato nella montagna, e al quale si giunge attraverso una gola, il cui accesso è bloccato da una fortificazione; niente più che un portone di legna sormontato da degli spalti e illuminato da due torce. Su di esso ci sono due ragazzini, armati di lancia e sassi, che si ostinano ad impedire l'accesso. Come per la scorsa volta, organizziamoci in confronto. :sisi:

 
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