Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Inciso nella carne, Contest di Febbraio: Ricordo

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The Grim
view post Posted on 28/2/2015, 21:26




Fu il fastidio a trascinarlo nella terra dei desti, strappandolo al tenero abbraccio del sonno. Oddio, quella era un'affermazione forte.
In realtà Jace stava ancora raggomitolato, le palpebre e i pensieri traballanti, del tutto immerso nel dormiveglia; e così voleva stare.
Di aprirne gli occhi, nemmeno a parlare, era presto, anzi prestissimo!
Ne era certo, anche se non aveva la più minima cognizione di che ora fosse, voleva starsene lì nel suo lettone e basta. Effettivamente avrebbe preferito avere una coperta su di lui, o anche un lembo di lenzuolo ma il loro soffice velo non lambiva la sua pelle,chiazzata da macchie di freddo. Gelidi barbari che insidiavano la periferia di un impero di carne, conquistandone lentamente gli anfratti più esterni.
Ma non era stato quello a disturbarlo, nossignore, altrimenti non avrebbe dormito svestito, ma infagottato in qualche pesante camicia da notte di lana ruvida.
Cos'era dunque a tediarlo?
Nient'altro che un qualche insettaccio, che con le sue zampette ballava attorno alla sua coscia, facendo avanti e indietro sui bordi di una vecchia cicatrice. Probabilmente la mosca - sempre non fosse una schifezza ben peggiore! - si era poggiata più volte sul suo fianco ma soltanto quando si era messa a trafficare attorno alla ferita l'aveva risvegliato. Il suo zampettare era leggero, delicato, e un po' giocoso, insomma nulla che disturbasse affatto; aveva solo scelto il posto peggiore per farlo.
Il cartaio bofonchiò qualcosa a mezza bocca, un groviglio di parole che univa al disappunto la richiesta di poter dormire un altro poco che suonava all'incirca
Mpfmvunpc

Un piccolo squittio seguì quella lamentela,
un verso di sorpresa, di una bambina che veniva sorpresa mentre provava le scarpe buone di mamma o qualche altro suo sfizioso accessorio, vergogna innocente e un po' sciocca.
L'insetto svanì, volò lontano dalla carne, ma il problema era che non si era trattato di un animale, ma di qualcosa molto diverso: un lungo indice candido e sottile,
quello di Afrah.
A sentire quel suono umano, per quanto inarticolato e involontario, in qualche maniera spezzò l'incantesimo che legava la mente dell'uomo al reame dei sogni, riportandolo bruscamente alla concretezza della realtà. Le palpebre sue si spalancarono di colpo come le ante di un negozio o una porta sbattuta dal vento, le labbra si contorsero in una smorfia amara, che subito si sciolse in un più rilassato ed affabile sorrisetto; tutto il corpo suo si sciolse da ogni preoccupazione, incubo, fastidio, o pensiero anche vagamente negativo. Con voce ancora impastata, balbettò qualche parola all'indirizzo della sua Nurì.

" Un altro po...
io volevo dormire ancora.
"
" Ma è mezzogiorno! "
" Cosa? "

Il letto tremò e sobbalzò leggermente, due piccoli piedini scalzi si appoggiarono sul terreno, poi passetti leggeri perccorsero in largo la stanza, formichine all'assalto delle ultime briciole. Al cartaio ormai, anche la vaga impressione del sonno era passata, perciò si tirò su con la schiena, restando sul letto in posizione seduta, le gambe a seguire la linea del materasso. Nel buio riusciva appena a distinguere le forme della stanza, ancor meno dove fosse Afrah e cosa stesse per fare. Un suono terribile accompagnò la fine, non lo squillo di trombe che accompagnava l'apocalisse ma qualcosa di simile ad un tessuto cadente: tende che venivano spalancate. Il sole, allo splendente zenit, brillava intensamente di luce gialla, e invase la stanza senza alcuna pietà. Allora l'uomo cacciò un urlo e si gettò a testa bassa verso il copriletto accanto a lui, nella vana speranza di scampare a quel chiarore; lo stordimento notturno e la voglia di dormire erano stati completamente annientati.

" Eccolo il tenebroso stregone di Taanach! "

Volò sul letto e distrusse il suo rifugio, buttando a terra ogni lembo di coperta rimasto. Rideva di gusto mentre lui bofonchiava qualcosa con gli occhi ancora gonfi e vuoti per il sonno. Le dita della mano massaggiavano il taglio sulla coscia, quello con cui la donna giocava fino a un minuto prima.

" Ma quella lì, quella che stai toccando, è nuova? "

Già prima di guardarli, Jace sapeva che negli occhi di lei avrebbe notato un velo di preoccupazione - non poteva che essere così - ma non si aspettava di trovarci tutta quella vorace curiosità, infantile e al contempo affettuosa. Perciò, invece di lasciar perder con qualche scusa – normalmente l'avrebbe fatto visto l'evento che ci stava dietro - lui scandì la voce come per darsi un tono, e poi distese le mani proprio come faceva quando trafficava coi suoi tarocchi. Creò l'atmosfera adatta, e poi si lasciò andare.

" No, no, anzi credo sia la mia prima ferita, è successo tanto tempo fa...."



Nevica,
eppure lo sguardo del ragazzino non è attirato da quei fiocchi bianchi che volteggiano nell'aria. Li ha già visti e se le prime volte gl'erano parsi candide fatine danzanti, ora sapeva li considera come pioggia e niente più. Adesso è attratto da quei cumuli marroni e luridi che si accumulano agli angoli delle strade, calpestati e schifati da tutti. Quello è il destino della neve prima di scomparire, per diventare acqua torbida e imbevibile. Prende a giocare con quella che è poco più che fango, ad impastarla e darle una forma come aveva visto fare i giorni precedenti a dei ragazzi più grandi. Quelli avevano costruito degli omini dal sorriso ebete e la pancia larga da riccastro, che fin da subito gli avevano suscitato odio, così appena quelli se n'erano andati, il ragazzino si ci era fiondato addosso e li aveva spaccati a pugni e calci, ridendo della loro insulsaggine. Ora anche lui vuole fare il suo uomo di neve, ma non uno imbecille, no lui vuole qualcosa che metta spavento a chi si avvicina troppo, qualcosa che nessuno vorrebbe toccare; solo così il pupazzo potrà spaventare il sole e sopravvivere più di qualche giorno. Jace prende a compattare quella fanghiglia, e ci butta dentro ghiaia, sassi e qualche mattone rotto, perché anche al suo soldatino servono ossa come quelle che tutte le persone c'hanno dentro; e niente è più resistente della pietra. S'impegna così tanto nella sua fabbricazione che si scorda di mangiare, si scorda di tutto pure del tempo che scorre, troppo rapito ed eccitato per farci caso. Non sta solo a costruire, corre tra i vicoli e si infila sotto le bancarelle pur di trovareciò che renderà il suo ometto un vero guerriero: un sacco per tenere uniti sassi e ghiaia, bastoni per rendere solide le braccia, chiodi e aghi per fissare queste ultime al corpo, ossa di animali per renderlo più cattivo. Alla fine ha l'idea che lo renderà il più cattivo di tutti: un coltello, un'arma capace di mettere paura ad aniamli e persone. Se le prime cose erano state facili da trovare, per l'ultima invece riesce a venirne a capo perché nessuno lascia un oggetto simile alla portata di un bambino. Alla fine lo trova: lungo e affilato, la lama imbruttita da schizzi di sangue non puliti, conficcato in un pezzo di carne nel retrobottega di un macellaio. Il bottegaio sta discutendo con un cliente, in mano ha una creaturina tozza, forse un gatto o magari un coniglio, ma il ragazzino non ne sa tantissimo; non ne ha mangiata che in un paio d'occasioni. Uno scatto ed è alla portata del suo tesoro, la mano s'allunga e le dita si stringono sul manico ruvido e poroso; quando lo fa si sente un po' più grande e forte. Lo stacca dal trancio e un fiotto rosso gli schizza sui pantaloni, facendo per un attimo paura al bimbo; gli adulti sono ancora distratti e non si sono nemmeno accorti della sua esistenza. Un brivido gli passa per la schiena, può fare più di così e allora stacca qualche pezzo di filetto dal blocco, e si ci riempe le tasche dei calzoni e quelli della giubba perché un po' di fame prima o poi glie viene e quella potrebbe essere utile. La mamma potrà cucinerla o magari può venderla ed essere fiera di lui; per una volta forse non lo farà dormire su una sedia. Il negoziante tira un vocione che sembra più il grugnito di un porco, deve essersi accorto di lui, così Jace scappa a rotto di collo, conosce quelle stradine meglio degli abiti che indossa, sa i cortili dove infilarsi e i vicoli ciechi da non imboccare; in men che non si dica si è lasciato dietro l'inseguitore e scappa con la refurtiva. Passano cinque minuti e nessuno si è infilato in quel cortile, così il bimbo può sghignazzare di gusto, felice del suo trionfo, quando un latrato basso e feroce gli gela il sangue. La bestia sbuca fuori da un recinto, e il bambino non perde tempo a guardare il cagnaccio molesto: si dà immediatamente ad una nuova fuga. Il mastino è grosso e dal pelo fulvo, ma non in salute come dimsotrano le chiazze spelacchiate un po' ovunque; la pancia è magra e non sono poche le ferite ancora non rimarginate. Jace non pensa a buttare via la carne o agitare la lama che stringe in mano, sente solo il cuore battergli all'impazzata e l'abbaiare del molosso dietro di lui, cerca di sopravvivere e tanto basta. Il cane però è più veloce o solo più disperato, e gli è addosso dopo poco: lo butta a terra di peso e con un morso gli azzanna la gamba. Il dolore è immenso, cento volte peggio dei pugni di papà o delle sculacciate di mamma; peggio di quanto è stato pestato dai ragazzani del pozzo. Sente i denti che affondano dentro di lui, che tagliano il muscolo e il calore del sangue che scivola lungo la gamba, mentre lui sta con la faccia schiacciata nel fango. Urla, piange e strepita, poi un vociare di persone si fa sempre più vicino, il tonfo di cose metalliche o no che si scontrano vicino a lui e il guaito del cane che batte in ritirata dopo essere stato colpito. Dopo quello più nulla, solo un lungo scenario nero: è svenuto, e si risveglia molto tempo dopo; ma quella è un'altra storia.




Le mani di Jace tremavano un pochino, le immagini ancora vivide nella memoria. Non ripensava a quella storia da troppo tempo forse, di come si possa esser fragili da bambini e di quanto si possa essere audaci. Da grande aveva perso quell'iniziativa, trascinato dal vortice della paranoia, ingabbiato dalla possibilità del pericolo; ed invece la morte avrebbe potuto coglierlo quando voleva. Avere paura era ridicolo, eppure lui ci ricascava continuamente. La risatina di Afrah risuonò fuori posto alle orecchie del cartomante, così come la sua voce spensierata e allegra, mentre ancora lui sudava di paura ripensando all'orribile cagnaccio, spauracchio di un'intera infanzia.

" Sei davvero bravo a raccontare storie, Nurì. Ci ho quasi creduto! Hai preso la vittima sbagliata però, come se non mi avessi ripetuto cento volte che da piccolo vivevi in campagna! "

" Ma no, ti giuro che è andata così, non ti stavo prendendo in giro! "

" E allora della storia di Cancro che ti portava in quella piccola cittadina dell'Alcrisia e tu credevi fosse la capitale del mondo? È quella ad essere falsa? "

Si sentì come sull'orlo di un precipizio, costretto a fissare un baratro scuro e senza fine, in procinto di essere inghiottito da quella voragine. Nella sua mente era cresciuto in una piccola fattoria, un pezzo di terreno vicino a Villanova, un villaggio come ce n'erano mille identici sparsi ovunque nel Dortan. Il grano dorato e i meli in fiore, il chicchirichì del gallo e i grilli estivi, queste e tante altre immagini uguali pullulavano nella sua testa, distanti ma reali. Eppure quel momento cittadino era cento volte più reale del resto della sua infanzia, e non per la qualità o quantità di dettagli, ma per la vividezza delle sensazioni. Poteva sentire l'odio per i più fortunati correre sotto la sua pelle, l'appetito insaziabile di chi era sempre tormentato dalla fame, la paura non strisciante ma sanguigna, potente e cieca; ed una sete di giustizia come mai ne aveva avuta prima. In quel momento era un bambino a cui la vita aveva negato ogni cosa, e che prometteva anche meno. No, non poteva essere un falso, e ciò non lasciava che una soluzione: era stato manipolato. Era stato fra assassini capaci di rendere reali le paure più recondite di un uomo, di trasformare il saggio più stoico in un bebé frignante, di portare una bimba innoccente al suicidio o sulla soglia della follia, non poteva escludere che i Mastigos potessero alterare i ricordi dei propri allievi. Perciò quanto di ciò che aveva creduto sulla sua vita era vero?
Forse non era stato un assassino addestrato da quegli stregoni, forse non era un umano, forse era un mostro che vestiva la pelle di un uomo. Un arguto esperimento magico o vai a sapere cosa, un prigioniero della Purgatory a cui era stato giocato uno scherzo mancino; innumerevoli scenari si dipingevano nelle sue fantasie.

La mano della beduina carezzò il suo viso, solleticò la sua guancia, risalì sul dorso del naso e prese a seguire la forma dell'occhio, ricalcando i tatuaggi che segnavano il suo volto.

" E di queste che mi dici? "

Jace non aveva dovuto dar voce ai suoi dissidi, la sua metà li aveva intuiti in un solo secondo, e già gli proponeva una soluzione; gli suggeriva un punto di vista. Le lacrime argentate stilizzate erano il sigillo di Cancro, il marchio che contraddistingueva i suoi allievi come un mandriano farebbe con i suoi bovini. Le crudeltà erano state reali, o forse peggiori. Ma c'era anche un'altra cosa che il tatuaggio gli raccontava, una storia priva di parole innestate sulla sua stessa carne. Il suo corpo cantava la storia di Jace, gli acciacchi e le ferite che ne costellavano il fisico, erano tracce del suo passato, indeleboli e certe a differenza della sua memoria; anche si fosse scordato del morso del cane, il segno delle sue zanne sarebbe rimasto lì per sempre. Che ne conservasse o meno il ricordo fra i suoi pensieri, era ininfluente, poiché le conseguenze sarebbero rimaste comunque.

" Questo è il mio dolore distillato, fattomi provare dal mio mentore Cancro la prima notte nella Torre dei Mastigos. Significa che sono e sarò sempre una sua proprietà, che gli altri Maestri mi avrebbero dovuto lasciar stare o sarebbero incorsi nelle sue ire; protezione che non si estendeva a risse e tranelli fra allievi. Da quelli dovevamo imparare a difenderci da soli, altrimenti saremmo cresciuti deboli e inutili. Dovevano anche essere un monito per me stesso, che se fossi scappato lui mi avrebbe trovato prima o poi, o qualcuno dei suoi tirapiedi m'avrebbe fatto fuori. Con questo in viso è difficile passare inosservato. Ha fatto male i suoi calcoli, visto che ancora non mi ha fermato. "

L'uomo tese la mano alla sua compagna, indicando la spirale nera che deturpava il suo palmo, raccontandogli degli esperimenti subiti per mano del Goryo, di cui però aveva solo memorie confuse. Quel simbolo lì, non voluto, l'aveva spinto a seguire il Beccaio nella caduta della Purgatory, a scegliere il male peggiore soltanto per ottenere una misera rivalsa contro i carcerieri. E così passò in rassegna ogni ferita, e ogni cicatrice del suo corpo, e gli aneddoti a cui erano legati; la storia di Jace il cartomante. Per ultima lasciò la macchia nera che si divideva fra collo e nuca, un tatuaggio che secondo dopo secondo cambiava di forma e sfumature. L'aveva ottenuto facendo crollare Velta, la più epica delle sue imprese, l'unica realmente disinteressata.

" E questo infine è Vergilius,
che ci spia sempre mentre siamo sotto le lenzuola.
Non so cosa quale sia il suo vero significato, perciò gliene avevo inventato uno speciale:
che tutto cambia e può cambiare.
Ora però ho una definizione migliore per lui,
che le cose non sono mai le stesse, che se ti volti un'ombra può diventare qualcosa di minaccioso, o di rassicurante.
"

Con queste parole si tuffò su Afrah, completando le sue labbra con le proprie. Come molti aveva creduto che ciò che aveva fatto in passato era un'ancora a cui legarsi, la barra che lo indirizzava in mari sconosciuti, ed ora si trovava senza quella certezza, tuttavia ne possedeva altre, forse più preziose, sicuramente meno illusorie.

 
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