Tamburellava nervosamente.
Sulla sfarzosa poltrona imbottita di piume d'oca, il Priore si poggiava con cura. Aveva provato a dar fondo a tutta l'ampiezza del morbido cuscino, ma senza successo; per qualche motivo la comodità di quel seggio era soltanto apparente. Sprofondava in più punti, creando una seduta instabile e precaria. Era costretto ad adattarsi ogni istante a una nuova posizione, in un equilibrio instabile che doveva bilanciare ogni istante di più.
In fondo, sembrava un po' una metafora di quella sfarzosa vita. Apparentemente bellissima, ma costantemente precaria.
Scomoda.
« Ha un sapore salato » disse Viluca, poco distante « --caldo... »
Caino la squadrò, portandosi per l'ennesima volta più vicino al bordo della poltrona. « Smettila, davvero » asserì, secco, « questo posto ci preoccupa già abbastanza. »
Viluca trattenne un leggero sorriso, piegando le labbra in un sottile bacio. Si toccò nuovamente la mano destra, dandosi l'ennesima leccata. Caldo e salato pensò, ma non lo disse più.
Poi si guardò in giro, giocherellando con un bicchiere di cristallo trovato sul tavolino poco distante. La villa era maestosa e ricca al tempo stesso; gli arazzi sulle pareti ribattezzavano il passato più antico con l'epicità di un romanzo storico, impiegando colori accesi e pennellate color oro e porpora per dispiegare la forza del messaggio insito. Per lo più erano eredità della storia della città, con rappresentazioni di vittoriose guerre, mirabolanti imprese e ritratti di potenti nobili.
Nulla che lasciasse trapelare un lignaggio fiorente o qualsivoglia blasone del padrone della villa. Soltanto occasioni, dipinte sulle mura come trionfi di altrettanti affari.
Occasioni di virtù o di opulenza. Occasioni nelle quali si ergeva sempre un vincitore; un virgulto che si levava tronfio della propria potenza, ma si reggeva precario sui debiti contratti con qualcuno. Qualcuno molto più discreto, che alla pubblica vetrina preferiva il tintinnio delle monete, cadenzato entro il buio del proprio remoto dileggio.
Una mano che si muoveva nell'ombra e beveva al calice della vittoria senza bagnarsi mai le labbra.
Viluca rimase affascinata da quell'allegoria ipocrita e prese a scorrere ogni singolo quadro, circondando la sala in un tenue balletto.
« Siediti, Viluca » sussurrò Caino, nuovamente. « Non te lo diciamo più. »
« Oh maestro » sbottò la donna, infine. « Che vi prende? »
Inarcò il busto, puntando il corsetto violaceo verso di lui; gli occhi poi si fecero fintamente tristi, mentre la bocca la trasformava in una smorfia di disappunto. Si fingeva una bambina offesa, richiamata all'ordine proprio nel mezzo del suo spensierato trastullarsi. « Questo posto è così... affascinante » aggiunse, guardandosi nuovamente in giro, « dovrebbe piacervi. »
Dovrebbe.
Caino sbuffò ancora, tamburellando con le dita sottili sul bracciolo della poltrona.
A lui non sfuggiva il doppio senso di quel posto. Non sfuggiva la linea sottile che congiungeva ciascuno di quei trionfi, di quei personaggi e di quei lussi. Non sfuggivano i fili sottili e le trame sottese a quella rete di pregiudizio e opulenza, sommessi sotto un soffuso livore offuscato e traslucido, ma visibile a chiunque avesse l'accortezza di leggere al di là del velo di falsità che vi era giustapposto.
« Invece non ci piace » asserì, laconico. « Non ci piace essere presi in giro; non ci piace aspettare. »
« E non ci piace che qualcuno si prenda gioco di noi » disse ancora, freddo, « sopratutto dopo il benvenuto che ci è stato riservato. »
E la mente scivolò rapida agli eventi di qualche ora prima; sbuffò nervoso, stringendo il pugno in un gesto di stizza.
« Ah, quello? » Rispose Viluca, portando gli occhi al cielo. « Ma cosa vi aspettavate maestro? »
« Qui siamo al Sud » ribatté, lasciva, « che ne sanno questi indigeni senza cervello della vostra arte politica? »
« Non conoscono la vostra grandezza e rispettano soltanto chi si dimostra all'altezza dei loro coltelli. »
Poi fece un passo indietro, ripendendo a fissare gli arazzi attorno a se. « Noi siamo di tutt'altro spessore; noi coviamo il seme del potere... »
« ...e rispettiamo soltanto chi si dimostra all'altezza del nostro prezzo. »
Taanach
Qualche ora prima.
La carrozza si fermò nel centro della piazza.
Attorno a se si era trascinata occhi e sguardi indiscreti, nonché un sommesso vociare stimolo di altrettanto pettegolezzo.
D'altronde Taanach non poteva dirsi una città riservata. Le vie del commercio brulicavano di voci e persone; masse che si smuovevano in lungo e largo, accostate a schiamazzi e vociare indistinto, proprio dei bardi in cerca di monete e dei mercanti in cerca di affari. Invero, tutto poteva sembrare normale e ovvio, meno che una preziosa carrozza che si faceva largo attraverso la via altrimenti frequentata soltanto dai carretti dei mercanti.
L'uomo che li accolse fece finta di non vedere null'altro che loro. Aveva una barbetta grigia adagiata sul mento come una lingua sottile, mentre nascondeva occhi piccoli dietro ampi occhiali scuri. Una tunica rossiccia ne nascondeva il corpo e parte del viso, mentre le rughe sulle guance si contorcevano in uno stentato sorrisetto.
« Benvenuti a Taanach eccellenza » li accolse l'uomo, « spero abbiate fatto buon viaggio. »
« Oh il mio culetto lo avrebbe gradito » rispose di getto Viluca, che per prima saltò giù dal carro, sollevando gonna, vento e ulteriori sguardi indiscreti.
Dietro di lei, la seguiva Caino. Pochi passi lenti, appena accennati.
« Il viaggio è stato lungo » disse soltanto il Priore, guardandosi in giro, « il viaggio fino all'Akeran è sempre troppo lungo. »
Poi si fermò, insistendo sul fare suadente e accomodante del loro interlocutore. Lo studiò un attimo, abbastanza da trovarlo già troppo fastidioso e ruffiano.
« Voi... sareste? » Chiese Caino, seguitando a fissarlo negli occhi.
« Virius, per servirvi » ribatté l'uomo di risposta, « ...niente più che qualcuno che avrà l'onore di accompagnarvi, se me lo consentirete. »
Abbozzò un tenue inchino, senza perderli di vista; poi, indicò una via laterale, ai margini della piazza.
« Vogliate seguirmi, prego. »
La massa informe di persone asserragliate intorno al carro si dileguò come un lamento lontano.
Ben presto, infatti, alla chiassosa piazza sostituirono uno scuro vicolo, soffocato sotto i palazzi di pietra tozza e scura, nonché sorvolato dalla poderosa ombra di un grosso pinnacolo di pietra.
« La gente è affascinata dalla vostra venuta » riprese Virius, serenamente, « non capita di frequente di vedere uno come voi, da queste parti. »
Poi si arrestò, sciogliendo il sorrisetto fastidioso in una espressione di perplesso stupore. « Eppure, consentitemi un interrogativo, eccellenza. »
« Cosa mai potrà volere il potente Caino da noi? »
Caino si arrestò, quasi avesse udito una bestemmia. D'altronde, la gracile ingenuità della domanda lo preoccupava molto più del suo significato.
« Sapevate del nostro arrivo e ci indicate il passo verso l'obiettivo » rifletté, lucidamente.
« Non vi sarà già abbastanza ovvio? »
Virius sorrise piano. L'accenno di barba grigiastra vibrò, scostandosi in armonia con le labbra violacee. Attraverso di esse, Caino mirò i denti nerastri che si divertivano attraverso di esse e un brivido risalì lungo la schiena. « Va bene » asserì l'uomo, sornione, « allora riformulerò la domanda. »
« Qual è il prezzo del vostro regno, Caino? »
« Il prezzo? » Ribatté il Priore, innervosito. « Cosa vorreste dire? »
« Vorrei dire che il vostro tempo non vale molto più del mio » disse ancora, facendo pochi passi verso di lui « quindi vorrei sapere cosa vi da la presunzione di credere il contrario. »
Silenziosamente, una lama oscura scintillò sotto la sua manica sinistra, scivolando nel palmo sorretta dalle dita sottili. Virius l'accarezzò piano, tenendola ben nascosta dalla vista del suo interlocutore.
Nel mentre, si portò a pochi passi da lui. Il suo naso adunco poteva quasi toccare quello del Priore e il suo respiro rancido lo raggiungeva con ribrezzo.
« Ditemi Priore » ribatté, divertito, « eğer gücün bedelini ödemeye hazırız? »
Siete in grado di pagare il prezzo del potere?
E mosse il braccio rapidamente, divincolando la lama in direzione degli occhi del suo nemico.
Eppure, non fece in tempo a scagliare nemmeno un colpo. Sbarrò gli occhi, fermando il braccio prima di raggiungere il suo avversario.
La lama cadde in terra e Virius si piegò, fino a stendersi al suolo, morente. Viluca, alle sue spalle, si leccava la mano sporca ancora del suo sangue.
« Caldo e salato » disse, scorrendo la lingua rossa sulle dita affusolate. « Dobbiamo andare via, maestro? » Chiese poi, interdetta.
« No, dobbiamo restare » rispose Caino, visibilmente nervoso « è evidente che siamo nel posto giusto. »
Concluse e i due si incamminarono verso la sontuosa villa alla fine del vicolo.