Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Inseguendo un'ombra, Arcana Imperii

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view post Posted on 4/4/2015, 00:03




2.
« inseguendo un'ombra »

prosegue da qui

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Il sole non si era ancora nascosto dietro le vette dell'Erydlyss ma nuvole scure, cariche di pioggia, lo coprivano, prevenendo i raggi dall'incontrare la bianca terra dell'Ystfalda, una distesa di rocce e neve. Una nebbia fitta sbarrava la strada allo sguardo di quegli impavidi che osavano avventurarsi attraverso il Passo di Gülfen, unica via d'accesso per giungere a Caystone in quel momento. Con lo sciogliersi delle nevi, altre due vie sarebbero state possibili ma con quelle temperature era semplicemente folle pensare di poter salire lungo gli altri passi, troppo in alto lungo la catena montuosa.
Caystone considerato un castello dai suoi abitanti ma per la verità si trattava di un insieme di costruzioni disparate, una via di mezzo fra un grosso villaggio e una cittadella fortificata. Non c'erano delle vere e proprie mura a difenderla, più che altro piccoli avamposti di legno costruiti intorno al perimetro cittadino e una doppia fila di palizzate, sempre di legno. Per il resto, il grosso delle costruzioni occupava il cuore del villaggio, accanto alla caserma che per imponenza sarebbe anche potuta passare per la residenza di un signorotto delle montagne. Ma a Caystone non c'erano nobili, né puri né campagnoli. In realtà era un luogo di nessun interesse, non fosse che la sua posizione lo poneva come la via più vicina e sicura per chi da Braford volesse penetrare
nell'Ystfalda e raggiungere l'Erydlyss.
In quella sera di fine inverno un uomo stava avanzando nella nebbia, sfidando la sorte e la benevolenza degli déi. Avvolto in pesanti indumenti di pelliccia, un cappello della stessa foggia calcato sulla fronte e con spessi stivali di cuoio fasciati da garze di stoffa, questo temerario camminava stringendo al petto una borsa da viaggio piuttosto leggera e guardandosi continuamente alle spalle e intorno. Fu proprio in uno di questi momenti che vide balenare delle scie rossastre dietro di lui. Si fermò per un istante, in ascolto, ma il vento e la nebbia gli impedivano di capire i richiami che quei cacciatori si stavano lanciando. Cacciatori, sì, e lui era la preda. Sollevò lo sguardo verso il passo che si inerpicava ancora per qualche centinaio di metri, poi ancora una mezza giornata di cammino e sarebbe giunto a Caystone. Gli serviva un riparo per la notte, doveva solo trovare un modo per seminare i suoi mastini. Volto lo sguardo alla sua destra: non c'era alcun sentiero ma a una distanza ragionevole una piccola macchia boscosa avrebbe potuto servirgli da riparo.
Seppure a malincuore, ché vedeva la sua meta estremamente vicina, si infilò nella vegetazione, litigando con la vegetazione che sembrava volersi opporre a quella violazione.
Camminò per diversi minuti finché non si sentì abbastanza al sicuro da fermarsi.
Si guardò intorno, cercando di mandare a mente un qualche punto di riferimento: l'ultima cosa che gli serviva era perdersi in quel bosco. Si sedette sotto un pioppo e si strinse addosso la pelliccia, tremando per il freddo. Ebbe appena il tempo di pensare a cosa avrebbe dovuto fare il mattino seguente che un rumore di rami spezzati lo fece sobbalzare. La nebbia era meno fitta nella boscaglia ma i sempreverde coprivano tutto con la loro ombra e non si vedeva quasi nulla. Sollevò lo sguardo, raccomandandosi al solo dio a cui avesse mai creduto, ma le sue preghiere rimasero inascoltate. Prima delle voci, distanti, poi il ringhio sommesso di un segugio e due paia d'occhi che lo scrutavano dall'ombra. Lentamente, i due mastini si fecero avanti. Erano cani di una certa taglia, i muscoli guizzavano sotto il manto lucido. La fuga era un'alternativa improbabile e lui era esausto, così l'uomo si rannicchiò contro l'albero e cominciò a sudare. Adesso sentiva caldo, ma tremava ugualmente. Le voci umane si fecero sentire ancora, al di sopra del vento e del ringhiare delle bestie, segno che erano vicini. Infatti di lì a poco tre uomini apparvero dalle fronde di un arbusto, imprecando.
«Eccolo qui, il sorcio» lo apostrofò il più piccolo dei tre che, a dispetto delle proporzioni, sembrava essere il capo.
«A me sembra più un coniglio» osservò il più alto, un tipo allampanato dai capelli rossi.
Il terzo, un omaccione alto quanto largo si limitò a grugnire qualcosa.
«Sorcio o coniglio poco importa, purché finisca in pentola» concluse il piccolo.
L'uomo, rattrappito contro l'albero, non seppe cosa dire. I suoi occhi vagavano dai cani, che ancora gli ringhiavano contro, ai volti dei tre uomini. Si gettò in ginocchio, tremante, iniziando a piagnucolare.
«Pietà... pietà miei signori. S-sono solo un profugo della guerra. Io... voglio solo andarmene da qui...»
Il tizio allampanato si mise a ridere e il piccoletto sfoggiò un ghigno poco rassicurante.
«Pietà? Ne avremmo avuta di più se non ti fossi fatto inseguire per gli ultimi tre giorni. Cinghiale, mettilo a dormire.»
Il significato di quelle parole non gli fu subito chiaro ma quando vide avvicinarsi quella specie di armadio umano la tremarella aumentò. Sentì un rumore sordo e un dolore intenso, poi tutto si fece buio.

*

( alcune ore prima )

Naberius si avvicinò al sempreverde, poggiò il bastone contro il tronco dell'albero e si mise faticosamente a sedere. Erano passati tre giorni da quando aveva lasciato Braford mettendosi sulle tracce dell'uomo incontrato alla locanda e da tre giorni non dormiva. Aveva mangiato in sella alla mula, che lo cullava con il suo passo placido, ma di dormire in groppa all'animale non era nemmeno il caso di parlarne. Sapeva di non potersi permettere ritardi: pur non conoscendo i mezzi a disposizione dell'uomo che stava seguendo era ben conscio che il passo della mula non poteva reggere quello di uno stallone e lo straniero era partito con tutta una notte di vantaggio. Così si era costretto a muoversi a tappe forzate che il suo corpo anziano mal sopportava. Almeno fino a quella mattina, quando aveva scoperto, con un certo stupore, che rispetto all'ultima lettura dell'aura, effettuata la notte precedente, Mastro Inverno non si era mosso. Si trovava a Caystone da oltre dodici ore e probabilmente sarebbe rimasto lì abbastanza a lungo da poterlo raggiungere. Il passo distava poco e in qualche ora sarebbe arrivato alla cittadella, quindi poteva anche permettersi di riposare un paio d'ore in quel boschetto. Anche perché era sicuro che se fosse andato avanti sarebbe crollato giù dalla sua poco maestosa cavalcatura: il freddo, i reumatismi e lo stare in groppa all'animale gli facevano dolere le ossa, il sonno e la fame si erano accumulati e le sue cosce erano tutte un'unica piaga sanguinolenta. Era troppo stanco anche solo per avvertire il dolore. Tutto ciò che riuscì a fare fu stendersi a terra, usando la propria bisaccia come cuscino, e chiudere gli occhi.
Quando li riaprì erano trascorse diverse ore, l'oscurità era calata sull'Ystfalda e i suoi occhi impiegarono un po' di tempo per abituarsi a quel buio, accentuato dalle fronde degli alberi che non lasciavano passare la luce crepuscolare e dalla nebbia che si era alzata. Per sua fortuna, all'arrivo aveva toccato volutamente tutti gli alberi accanto ai quali era passato, così leggendo le tracce lasciate dalla propria aura non avrebbe fatico a trovare la via d'uscita dalla radura.
Camminava ormai da una decina di minuti e sapeva di essere quasi giunto all'uscita del boschetto, di lì si sarebbe diretto nuovamente al sentiero che portava al passo e in nottata sarebbe giunto a Caystone. Stava appunto ragionando su questo quando due rumori attirarono la sua attenzione: il ringhio di due cani e delle voci umane. Spinto dalla solita, inguaribile curiosità si mosse verso queste ultime e poco dopo intravide il baleno di un paio di torce fra i rami degli alberi. Si avvicinò più silenziosamente che poté e da dietro una felce riuscì a gettare uno sguardo su una curiosa scena: un uomo stava appeso a testa in giù al ramo più basso di una quercia enorme, legato per i piedi, mentre altri tre gli si facevano attorno parlottando tra loro. Il più piccolo dei tre aveva in mano un coltello grande quasi quanto lui e non sembrava animato dalle migliori intenzioni. Naberius si spostò di qualche passo, nascondendosi in un tronco cavo che sembrava messo lì apposta. Pochi istanti dopo, la sua voce, amplificata dal tronco e dal silenzio, risuonò cupa e minacciosa.
«Chi osa disturbare la mia veglia? Chi è tanto temerario da entrare nella mia dimora?»
I tre uomini si guardarono fra loro, smettendo immediatamente di parlare, mentre i cani guaivano ed arretravano. Certo, aveva attirato la loro attenzione, ma conveniva trovare un modo per evitare uno scontro che non lo avrebbe visto in una posizione vantaggiosa. Batté in terra il bastone e l'estremità superiore s'indorò di luce bianca e parve che tutta la radura, immersa nell'ombra un attimo prima, ne venisse illuminata. Quindi un fascio luminoso si sollevò verso il cielo, esplodendo subito dopo in una miriade di scintille. Terrorizzati da quella manifestazione, i tre si diedero a una scomposta ritirata, lasciando la loro preda appesa all'albero.
Assicuratosi che anche i cani se ne fossero andati, il vecchio stregone venne fuori dal suo nascondiglio e si avvicino all'uomo appeso, osservando di sottecchi il piccolo fuoco che ancora ardeva in un circolo di pietre. Probabilmente quei tre si preparavano a passare lì la notte. Frattanto, la 'preda' osservava il suo salvatore con occhi terrorizzati.
«Tu... t-tu sei...» balbettò. Avrebbe voluto parlare ma le parole sembravano morirgli in gola.
Naberius gli venne in soccorso: «Uno che ama le entrate teatrali, sì.»
Impiegò poco a sciogliere i legacci che tenevano l'uomo. Questi, quando fu libero, per prima cosa andò a sincerarsi del contenuto di quella che doveva essere la sua borsa. Naberius si incuriosì ma preferì non chiedere. Altre domande erano più impellenti.
«E tu? Credo di averti salvato la vita, ragazzo. Ho diritto a conoscere il tuo nome. E il perché quei tre amici volessero tenerti appeso come un cosciotto di manzo sotto sale.»
L'uomo, ancora tremante, rispose mentre si stringeva al petto il suo bagaglio.
«Sono un soldato, ho combattuto... a Basiledra. Sai, della Guardia Insonne. Dopo la morte di L... del comandante... sono fuggito verso nord. Volevo tornare a casa.»
Naberius si mise a sedere appoggiandosi al bastone e incrociando le gambe davanti al fuoco, assaporandone il tepore sul volto stanco.
«Se tu sei un guerriero, amico mio, io sono Re Julien. Avanti, non hai nulla da temere. Sono solo un viaggiatore che sta andando a Caystone, proprio come te.»
«Come sapete che vado a Caystone?» domandò quello, sulla difensiva. Naberius cominciava a spazientirsi, si batté le mani sulle cosce e tirò verso di sé la sua bisaccia, iniziando a frugarvi dentro.
«Benedetto figliolo, ragiona. Siamo in un bosco a nemmeno duecento metri dal Passo di Gulfen, l'unico luogo abitato nel raggio di cinquanta leghe è Caystone. Dove altro potresti volere andare?»
L'uomo annuì, ma Naberius capì che aveva paura di qualcosa. O di qualcuno.
«Bene, comincio io. Mi chiamo Naberius, sono uno studioso. Διδάσκαλος ειμί.»
«Gwein.» rispose l'altro, accennando col capo. «Bene, Gwein. Non penso sia saggio rimanere qui: quei tre potrebbero tornare e non sono sicuro di riuscire a metterli in fuga di nuovo. Seguimi.»

*

Camminavano da circa un'ora e nessuno dei due aveva spiccicato una sola parola. Avevano valicato il passo e procedevano verso la cittadella. Riposato dalle lunghe ore di sonno, Naberius aveva ceduto la sua cavalcatura all'improvvisato compagno di viaggio e proseguiva a piedi accanto a lui. A un certo punto, come era già accaduto, voltò il capo verso una pianta d'erba medica sul ciglio del sentiero e scosse il capo.
«Inutile insistere. Parlerà quando ne avrà voglia.»
Per tutta risposta, Gwein lo guardò come avrebbe osservato qualcuno mettersi a danzare nudo sotto la neve. Poi scrollò le spalle, in fondo aveva conosciuto gente ben più strana.
«Vengo davvero da Basiledra» si lasciò scappare. Lo stregone non rispose, convinto che la fiducia del suo interlocutore si muovesse con precario equilibrio e una qualsiasi parola fuori posto avrebbe potuto mettere fino a quelle parole.
«Sono... ero un corvo. Ho abbandonato la città e mi sono rifugiato nelle campagne a sud della capitale. Quando ho sentito che altri avevano fatto lo stesso ho cercato di mettermi in contatto con loro. I Corvi Leici, così si fanno chiamare. Ho saputo che appoggiavano la resistenza e così ho fatto anche io.»
Sbuffò, masticando amaro. «Lo avete visto, non valgo granché come guerriero. Aiutavo più che altro le famiglie degli uomini in guerra, facevo ciò che era nelle mie possibilità. Poi è successo un guaio e sono stato costretto a fuggire ma, come avete potuto notare, mi hanno inseguito. E mi avrebbero anche preso, se non fosse stato per voi. Grazie.»
Naberius annuì, senza proferire parola. Non aveva mentito, stavolta, ma non gli aveva nemmeno detto tutto.
«E cosa cerchi a Caystone?» L'uomo sorrise, accarezzando la bisaccia.
«A Caystone c'è uno dei nostri. Mi aiuterà a scomparire, magari nascondendomi in una delle roccaforti dell'Ystfalda. Non tutti hanno appoggiato la Guardia Insonne, per la maggior parte si tratta di gente che non vuole avere un sovrano.»
«Il re senza una spada. La terra senza un re.» motteggiò lo stregone.
Gwein annuì: «Esatto. La popolazione delle montagne è rozza e dura, ma ospitale.»
«Anch'io sto cercando qualcuno a Caystone, magari il tuo amico saprà aiutarmi.»
L'uomo fece un cenno col capo e smise di parlare. Era stanco, provato dalla fatica e dalla paura. Non era nemmeno del tutto sicuro di aver fatto bene a confidarsi con quello strambo vecchio, ma in fondo sentiva di dovergli qualcosa.
Arrivarono a Caystone in piena notte, la cittadella sembrava essere completamente addormentata. Le povere strade che dalle palizzate portavano al cuore della città e alla caserma erano deserte, nemmeno un cane o un gatto in giro a litigarsi gli avanzi gettati dalle finestre. Il nulla più assoluto.
Erano entrati dalla porta sud, proseguirono a camminare fino alla piazza, superarono la caserma nel più assoluto silenzio, dirigendosi ai baraccamenti a nord-ovest della città. Di fronte a una baracca più malmessa delle altre, Gwein fece cenno al vecchio di fermarsi e restare in silenzio. Si avvicinò all'uscio e bussò tre volte, poi una, poi tre. Quasi subito la porta si aprì. Un nano, calvo e completamente vestito di nero, li guardo di sotto in su.
«Finalmente!» commentò, con una vocina stridula, «ti stava aspettando.»
Poi fissò Naberius e aggiunse: «Questo chi è?»
Gwein fece un cenno vago. «Ho fatto brutti incontri lungo il cammino e ho preferito non continuare il viaggio da solo. Lascia passare anche lui, ha fatto la sua parte.»
Mentre entrambi venivano guidati lungo un corridoio lugubre e pieno di spifferi, Naberius si interrogò sul significato di quelle ultime parole. Aveva fatto la sua parte, ma riguardo a cosa? Ad interrompere il filo dei suoi pensieri fu il bussare del nano. Erano arrivati davanti a una porta. L'omuncolo infilò la testa dentro, la tirò fuori di nuovo e annuì: «Potete entrare.»
Vennero introdotti, senza ulteriori cerimonie, in una grande stanza rettangolare, priva di qualsiasi mobilio o comodità fatta eccezione per un pagliericcio, un pitale, uno sgabello con sopra una ciotola di terracotta e un grande tavolo sul quale era spiegata una enorme mappa della regione i cui angoli erano tenuti fermi da quattro candelabri di bronzo che illuminavano l'ambiente. L'uomo che da solo abitava quell'alloggio si fece avanti, sollevando lo sguardo dalle carte sul tavolo.
«Ben arrivato, Gwein. Eravamo tutti in pens- ...tu?!» si interruppe di colpo, gli occhi incastrati su Naberius.
Lo stregone fece un leggero inchino e sorrise.
«É destino che ci si debba incontrare in strane circostanze, Mastro Inverno».

 
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