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Acquattati sotto il camminatoio addossato alla bene e meglio alla palizzata, mentre rosicchiavano le frattaglie dei buoi abbattuti per fame, i numerosi cani facevano la guardia indifferenti alla tormenta. Lì, dietro quella sfilza di tronchi appuntiti, la neve non poteva sommergerli. Con le orecchie ritte raccoglievano tutti i suoni che il vento portava dal fianco della montagna alla cima del monte Col. Di stremiti e fracassi ne erano giunti lì al campo dei profughi Rahm, giusto sotto la vetta: in principio era stato solo il volo delle anatre, così folli da superare ogni stagione le montagne; poi erano venuti i camosci impazziti, che contro il naturale corso migratorio avevano provato a superare la staccionata solo per finirci infilzati e infine i terribili lupi mangia-elfi delle cime, che risalivano i costoni piagnucolando con la coda tra le gambe come se avessero visto i diavoli. E in effetti li avevano visti. “V-vedrete, non c’è spazio per la vittoria contro il Signore delle m-mmaschere”, mugugnava di continuo Jan, che prima di finire lì in quell’assedio impossibile era chiamato Il Forte. Il gruppo di esploratori con cui era rimasto, e che doveva tenere in scacco con agguati e furberie l’avanzare della Corte, era stato spazzato via giorni prima. “T-tanto vale sottomettersi a loro”. “Non mi farei sentire più a dire cose del genere”, aveva risposto una delle anziane dei pochi clan lì riuniti. E Kellen che-parla-con-le-aquile era la più paziente tra i capi. Quando Egill Il Rosso sentì giorni dopo quell’omaccione reso demente dalla paura delirare di raccogliere voti e doni per il Re dei Diavoli, ordinò di portarlo in ceppi dentro la casera. Era un disonore per i suoi vecchi compagni, coloro ch’erano caduti per dare più tempo alla carovana nella fuga. Si ripensava al vecchio Halroy o a Ian, il capo delle sentinelle in grado di vedere dei funghi dalla cima di un monte a valle, e che lasciava suo figlio Urraig ancora sbarbato. Giustiziarono Jan Il Folle quella sera stessa, prima di cena. La tormenta ululava fuori dalle mura. In un accesso d’ira Egill gli tagliò la lingua e lo diede in pasto ai cani, per poi rientrare nel rifugio con il volto paonazzo e scrutare col suo unico occhio buono gli altri anziani: “È ora di scegliere”, disse. Così, quella sera scelsero. Riuniti in una sala appartata, dopo aver sentito le opinioni di tutti nella stanza grande, gli anziani discussero nelle ore più buie. Non potevano indugiare ancora in quel rifugio semi-diroccato, dove avevano dovuto tappare buchi e sostituire assi nel pavimento. La via per la cima era ardua per chiunque non conoscesse i segreti dei Rahm, ma i suoni diabolici portati dal vento notturno non lasciavano dubbi: prima o poi la Corte dell’Abisso li avrebbe raggiunti. Urraig, il figlio di Ian, non era stato invitato al conciliabolo degli anziani. Eppure, anche se quel ragazzo prossimo a farsi uomo non aveva mai giaciuto con una donna -anche a causa della guerra-, nessuno dubitava del suo valore. Quel giorno aveva spalato la neve per tre ore, fatto il suo turno di guardia alla staccionata; poi aveva tolto i resti di qualche camoscio infilzato nei pali acuminati e assistito i primi elfi caduti nella cecità epidemica di quell’ambiente sporco e promiscuo. Il tutto in un silenzio indecifrabile. Neanche quando aiutò a tener fermo Jan, che era stato amico di suo padre e maestro, diede cenno di cedere allo sconforto della sua perdita. Quella sera, mentre il resto dei profughi dormiva nelle sale laterali, rimase nella stanza grande con i guerrieri più cocciuti. Assieme alla manciata di Rahm pisolava in un angolo Occhio di civetta, il viandante che era venuto in soccorso agli elfi e che Urraig e suo padre avevano conosciuto prima di tutti. Il ragazzo s’era scambiato il turno di guardia spesso con lui, ed era rimasto persuaso dalle idee della Lanterna circa le loro sventure: “a meno di scalare fino al cielo, prima o poi dovremo fermarci”, diceva.
Quella sera il cigolare delle assi nel tetto copriva il mormorio degli anziani. Urraig ripensava alle parole del nano, con la saliva che gli si fermava in gola tanto contraeva la mascella. Prima o poi dovevano fermarsi, e incontrare l’orda di bestie che aveva preso suo padre. Quando Kellen che-parla-alle-aquile uscì sola dalla riunione, avvicinandosi con passo di neve appena caduta, il giovane fu il primo ad accoglierla. Era notte fonda. “Ascolti il fuoco?” Gli chiese, indicando le fiamme nel camino. “Ascolto il buio”, rispose Urraig. Kellen rise un poco, sedendoglisi accanto. Le iridi azzurre dell’elfa celavano la luce inerte di una saggezza propria di chi ha vissuto per decenni, malgrado la chioma dorata e la pelle di cerva. “Perché sei l’unica qui – hai già detto cosa avevi da dire?” chiese lui. Lei lasciò correre lo sguardo nella sala, contando gli altri guerrieri. “Conosci la storia di Idwal?”, domandò a sua volta.
“Ai tempi del nonno di mio nonno, o forse ancora prima, Idwal il Signore di Lithien era già vecchio.” Kellen sorrise, e scrutò persa nelle fiamme. “Si diceva, tra le altre cose, che fosse uno dei fondatori della grande biblioteca, o di una biblioteca antecedente che aveva trasportato nella città dei saggi. Idwal era stato un grande mago in gioventù, sapiente più di tutti al suo tempo; così, anche se la sua barba si era fatta canuta, rimaneva assai rispettato, al punto che decisero di dargli in affidamento l’ala più segreta della biblioteca nonostante l’età. Era un’ala che trattava di teosofie e dettami antichi, perduti oggi dalle nostre tribù. Idwal prese con grande serietà l’incarico, tanto da non lasciare che uomo o creatura dotata di respiro entrasse mai senza il permesso degli alti maghi. Perciò non lasciava quasi mai la sua postazione, incontrando solo gli attendenti o i savi che si inoltravano in quell’ala buia del palazzo. Venne un inverno particolarmente gelido. Il freddo era tale che gli uccelli cadevano congelati al suolo, e le stalattiti sotto i cornicioni in città parevano fauci di drago scintillanti. Le mancanze erano tali persino nella città dei saggi, che gli attendenti più di una volta non poterono portare il pranzo al vecchio. Ma Idwal non si abbatteva; continuava il suo lavoro. Una mattina, Idwal sedeva presso l’unica finestrella di quella parte del palazzo, a stomaco vuoto, immerso nella rilettura di un tomo. A un certo puntò udì un picchiettio. Si volse verso la finestra. Era un falchetto che beccava sul vetro, ansioso di entrare. Idwal lo guardò tremare di freddo, per poi battere con la mano sul vetro: - Va via - sbraitò, - Questo non è posto per uomini o creature dotate di respiro -. E il falco volò via, per morire nel gelo. Quello stesso pomeriggio Idwal scosse un’ombra girare circospetta per il cortile: era un lupo delle vette, razza che al tempo viveva con gli elfi e gli uomini e tutte le specie del creato perché non c’erano barriere o mura, e i saggi di Lithien avevano appreso come addomesticarli al pari dei cani. Ma quell’inverno la carne non bastava anche per le bestie -come ora-; così, il fedele compagno di qualche mago girava nelle strade innevate. Solo sotto la neve, l’animale guardò Idwal con occhi gialli allucinati dalla fame e dalle intemperie. Il vecchio, che pure sentiva la pochezza della propria condizione mordergli le viscere, batté con la mano sul vetro, scacciando quell’immagine riflessa. - Va via - sospirò, - Questo non è posto per uomini o creature dotate di respiro -. E il lupo addomesticato se ne andò, per morire nel gelo. Quando, quella sera, un viandante avanzò con passo sicuro nel cortile, Idwal non leggeva più. Guardava fuori dalla finestrella, cullato dalla caduta silenziosa della neve. Il viandante, che malgrado fosse bardato da capo a piedi aveva occhi di donna e pelle di ghiaccio, bussò alla finestrella. Il volto pareva emanciato, gli occhi infossati; ma non c’era supplica nel suo sguardo. Idwal batté con la mano sul vetro. - Va via - pregò chinando il capo. Persino gli antri bui tra gli scaffali, quella sera, parettero fargli domande impossibili. Idwal non guardò più verso la finestra. E la donna andò via.”
“E poi?” Fece una voce nella penombra della casera.
Kellen s’era fermata per raccogliere fiato; mentre raccontava, quasi tutti i guerrieri rimasti nella stanza s’erano destati dal loro torpore per avvicinarsi alle fiamme, e ascoltare quella storia sussurrata. Persino la tensione di avere mille demoni alle calcagna si scioglieva nella penombra rossastra. Gli uomini avevano dimenticato l’impossibilità di toccare le donne in quello stato di promiscuità; le donne non pensavano più di tanto agli uomini nell’affollato rifugio in cima a un monte.
“E poi”, riprese Kellen, “Poi, dal mattino seguente Idwal non ricevette più visite dagli attendenti. Non fu più chiamato dai maghi. Eppure non se ne crucciò così come si potrebbe pensare, perché di colpo non sentiva più la fame, né aveva bisogno di bere o dormire. Non voleva neppure più uscire dall’ala buia della biblioteca. In verità, un attendente lo ritrovò un giorno, congelato dalla testa ai piedi, che guardava nel cortile dalla finestra spalancata. Lo spirito di Idwal rimase a vegliare su chi si avventurava in quelle sale decadenti, custode del sapere di migliaia di tomi. Kjed aveva fatto gelo della sua anima, e lo aveva legato per sempre all’ala proibita.” “Ah…” Fece Urraig. Fu il primo a proferire parola, finita la storia, mentre la tormenta ululava ancora i suoi misteri. “Certo”, intervenne qualcuno, “quella era la punizione di Kjed, per avergli rifiutato l’ospitalità.” Era l’elfo che aveva parlato anche prima, tale Bramm, cacciatore più giovane di Urraig – giovane come sono giovani gli umani. “Ma va là!” Esclamò un guerriero più maturo. “Tutti sanno che non era una punizione, ma un premio: Kjed onorò la sua fermezza d’animo e lo levò dalla miseria che gl’era toccata, al vecchio; così poteva stare tutta l’eternità là dentro, e leggere come gli piaceva!”
“Mah!”, una voce più roca proruppe dal fondo della stanza. “Io me la ricordavo diversa”, disse Egill Il Rosso, che nel frattempo era uscito dalla sala attigua insieme agli altri anziani. Scrutò Kellen col suo unico occhio, che rifletteva il color rubino delle fiamme. “Comunque, abbiamo deciso.”
Dopo avergli fatto spazio al centro della stanza e svegliato chi dormiva, gli anziani comunicarono il corso d’azione dei clan lì riuniti. Urraig ascoltò in piedi, in prima fila. Così, quando quelli dissero che si sarebbero divisi in due gruppi, uno di bambini e feriti che avrebbe varcato il passo, l’altro per dar infine battaglia ai demoni, l’espressione sul volto del giovane fu chiara a tutti. Per la prima volta dopo giorni, il figlio di Ian schiuse il bozzolo di mutismo e rabbia di cui s’era ricoperto. Le guance imporporate, assentì guardando Egill che ancora una volta s’era distinto per essere un elfo saggio e coraggioso. Si decise in un colpo solo chi doveva partire, e chi avrebbe lottato. “Mi farò carico io dei bambini”, si fece avanti Kellen. Prima di andare a sfogare l’entusiasmo che gli animava le vene in una camminata nella tormenta, Urraig cercò con gli occhi Rick Gultermann. Gli esploratori potevano raccontare di mille e più demoni sbavanti, ma il valore dei guerrieri Rahm rimasti avrebbe fatto la differenza, era certo. Se era vero che Ian, il primo tra le vedette, conosceva palmo a palmo le montagne e sapeva scorgere una fungaia dalla cima di un monte e al buio, il nano non era da meno nella lotta. Rozzo e semplicista nei lavori più raffinati, Urraig così come gli altri Rahm avevano udito delle virtù guerriere di Occhio di Civetta, la Lanterna, il cacciatore armato di falcetto. Così Urraig non si preoccupò di chiedere niente a quell’individuo taciturno, che basso com’era gli appoggiò a stento una mano sulla spalla, per poi filare nell’altra stanza a dormire. Invece uscì fuori. Quella sera, più di tutte, ascoltò il canto della tormenta.
Quando, la mattina dopo, Egill diede a Urraig la roncola ch’era appartenuta a Rick Gultermann, il giovane in principio non capì. Che Kellen, per quanto poteva essere sapiente, o quel tale ragazzino Bramm fossero scappati oltre il passo era comprensibile: qualcuno doveva pur accompagnare i mocciosi, i mutilati nel corpo e nello spirito, tutti coloro che erano inadatti a quella lotta logorante. Ma qualcuno doveva combattere.
In tanti narrano storie sulle Aslingard; nessuno sa per quanto tempo i clan rimasti diedero battaglia alla corte dell’Abisso. Combatterono sul monte Col e sviarono l’attenzione dei demoni altrove, fecero crollare pezzi di ghiaccio dalla pelle della montagna stessa su un gruppo di bestie urlanti. Egill Il Rosso li guidava con foga, ma molti dei Rahm erano deperiti, preda di sconforti nello spirito e mali nel corpo. Le malattie ingrossavano inguini, occhi e gole. La carne secca finì, così si dovettero cibare dei cani; le lance antiche che tanto avevano creduto benedette dalle stelle a malapena scalfivano le spesse placche dei demoni. Ci fu un momento in cui rischiarono di essere presi essi stessi in un agguato, perché non pochi erano piegati dalla dissenteria. Col tempo, la tormenta che teneva lontani i demoni si placò. La Corte raggiunse il passo, ed Egill cadde nella sua difesa.
In tanti narrano storie sulle Aslingard; nessuno sa in quale preciso momento, forte di un odio che non poteva esaurirsi, Urraig figlio di Ian prese il comando tra i pochi guerrieri rimasti. Non si sa quale bile nera si rimesciava nelle sue vene, come poteva scorgere sempre per primo i nemici nonostante gli occhi gonfi per i cibi putrefatti – se era il dolore non placato del suo ventre di vergine, quando tutto le donne del suo clan furono assassinate, a dargli forza. Non si sa se Urraig superò le steppe della solitudine. Forse rimase lì, perso nella rabbia del ricordo, dell’assenza di una mano sicura s’una spalla. Di una voce confortante. Si sa che il suo gruppo non si riunì alla resistenza di Fephira e di Scuraquercia. Eppure i bardi nelle taverne conoscono tutti i versi, e i cantastelle che fanno le loro domande al cielo intonano le stesse canzoni. Dicono di come Urraig, il cui vero sguardo arrivava a scorgere demoni dalle cime delle montagne oltre le nebbie di Maktara, fermò l’avanzata di una delle Coorti dell’Abisso con un imboscata sul passo del monte Col, mulinando una delle leggendarie Gwenithfaen o Wythïen, il falcetto dello scorticatore, come l’eroe Rahm che era. E il popolo più di tutti condannato alla diaspora per le terre del Nord si stringe accanto al fuoco, ascoltando la sua storia fatale.
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Ecco qui. Mi piacerebbe che il solo ultimo post del topic venisse considerato ai fine del contest, perché con queste intenzioni l'ho scritto. Ah, e per chi mai l'avesse notato: ho cambiato il colore dei dialoghi di Kellen, perché così è più gradevole.
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