Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Ægis - Aporia, Prologo II/III

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view post Posted on 25/4/2015, 14:49
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A P O R I A

for what is dead may never die

but rises again, harder and stronger


Untitled-3_1


- il viaggiatore -


L'uomo sollevò il capo, non sembrava nemmeno che vedesse davvero ciò che aveva di fronte. Procedeva senza posa, incurante di dove mettesse i piedi -che affondassero nella neve o fra l'erba ghiacciata non aveva importanza. Dal suo punto di vista un passo era un passo, ovunque cadesse, e ogni passo fatto in avanti era un po' più di distanza messa fra la sua pellaccia, alla quale teneva ancora abbastanza, e ciò da cui stava fuggendo. A volerla dire tutta, definirla una fuga sarebbe ingeneroso nei confronti di quell'uomo che di certo non mancava di coraggio. D'altra parte, con il mestiere che si ritrovava, non poteva certo essere considerato un codardo. Si trattava infatti di Caerwyin, il tagliaboschi del villaggio di Gwynfenn -villaggio al quale era appena ritornato, non senza un qualche affanno, dalle una delle sue periodiche passeggiate sulla montagna. Quello del tagliaboschi non era un mestiere pericoloso, in genere, o almeno non viene considerato tale dalla maggior parte della gente, ma nell'Edhel -e specialmente sulla catena montuosa nota come Erydlyss- tutto era profondamente diverso che nel resto di Theras. Prima le Ombre, poi i demoni venuti fuori dalle viscere del Baathos, avevano infestato le montagne, rendendo pericoloso per chiunque l'allontanarsi dai centri abitati -ritenuti sicuri più per l'ingenuo conforto degli stessi abitanti che per la loro reale capacità, praticamente nulla, di resistere a un assalto del nemico, laddove si fosse verificato.
A dispetto di tutto ciò, Caerwyin si era sempre attenuto ai principi adamantini a lui trasmessi dal padre: dove c'è freddo e c'è gente, c'è bisogno di calore; calore significa fuoco e fuoco significa fascine, torba e ciocchi di legno. E così il buon uomo si era sempre recato nei boschi con la relativa tranquillità di chi non può fare a meno di compiere un dato lavoro, ché da quello dipende non solo la sua sopravvivenza ma anche quella di molti altri.
Adesso però, mentre caracollava ondeggiando verso la porta in legno pesante di una casa le cui pareti sembravano annerite dal fumo e le finestre spandevano sulla neve all'esterno una luce giallastra, Caerwyin non sembrava tranquillo, né tanto meno interessato alle fascine o ai ciocchi di legno. Ciò che aveva visto lassù, fra le montagne, era quanto di peggio e più spaventevole gli fosse mai capitato di incontrare in vita sua e quella situazione lo aveva portato a capire due cose che ora, attraversando la consueta apatia del suo villaggio, gli sembravano davvero importanti: primo, finora non era stato coraggioso ma semplicemente scettico; secondo, il calore era una gran bella cosa da donare agli altri ma la sua vita valeva, indubbiamente, di più.
Con queste convinzioni in mano l'uomo raggiunse la porta di quella che era l'unica locanda del villaggio e la spalancò con una possente spallata, lasciando la sua figura a stagliarsi sull'uscio e la tramontana gelida entrare in quell'ambiente riscaldato, sollevando più d'una protesta da parte degli avventori. Dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, il tagliaboschi si lasciò cadere su una sedia sgangherata che quasi cedette sotto il suo peso.
Qualcuno degli abitanti del villaggio, che lo conosceva, gli si avvicinò colpito dal suo aspetto. Caerwyin, infatti, era un gigante di due metri dalle spalle larghe e le braccia rese forti dal suo lavoro, il volto coperto da una barba folta e ispida, in quel momento spruzzata dal nevischio, e una gran massa di capelli corvini che, curiosamente, sembravano tutti ritti sul capo. La bocca, solitamente morbida e cortese, era atteggiata a una smorfia di raccapriccio e lo sguardo perso nel vuoto ne tradiva i pensieri, assai lontani dalla sala della locanda. Mentre il tagliaboschi si riprendeva, bevendo del vin cotto che gli era stato prontamente servito perché si riscaldasse, un ometto trascurabile, dall'occhio fine e il naso aquilino, gli trotterellò accanto. Era Lynn, un mercante del villaggio che spesso si vantava dei viaggi fatti per via della sua occupazione e ancora più spesso veniva fatto oggetto delle risa degli astanti per le storie improbabili che raccontava al suo ritorno.
« Cospettaccio! » esclamò l'ometto con fare divertito, « Si direbbe che tu abbia visto un fantasma, o pressappoco. »
Caerwyin lo bruciò con lo sguardo, portandosi alle labbra il calice di vin cotto e trincando una generosa sorsata.
« E si direbbe bene » ritorse, brusco. « O pressappoco. »
Improvvisamente tutti gli avventori della locanda che avessero udito quelle parole si avvicinarono. Era per lo più gente del villaggio, che conosceva bene Caerwyin e il suo essere un tipo compassato ed affidabile, ben altra pasta rispetto al piccolo Lynn. Dunque, se il tagliaboschi diceva di aver visto un fantasma -o poco meno- c'era da credergli, o almeno da stare a sentire il suo racconto. Così, calò intorno all'uomo ancora intirizzito un silenzio pieno di aspettative che il boscaiolo sembrava restio a colmare secondo le esigenze dell'uditorio.
« Eh! Vorrai mica farmi credere che proprio tu ti sia messo paura per così poco. » lo pungolò Lynn, uomo piccolo d'animo come lo era d'aspetto e per questo incline a invidiare chi in quel momento otteneva l'attenzione di tutti, la stessa che lui aveva sempre cercato senza ottenerla con il giusto rispetto che riteneva di meritare.
« E dire che una volta, mentre attraversavo il Canale diretto verso Dorhamat... » riprese Lynn, convinto di poter approfittare dell'altrui silenzio per dirottare su di sé tutta quell'aspettativa, ma venne subito zittito da una voce roca e profonda che lì tutti conoscevano. Era l'oste, l'anfitrione, un uomo poco meno alto del boscaiolo ma ben più largo, il cui ventre prominente rischiava di far esplodere il laccio del grembiule. L'omaccione si piantò a gambe larghe davanti a Lynn e lo zittì, quindi si rivolse a Caerwyin: « Avanti, amico mio, dweud. Hai davvero visto un fantasma? »
Caerwyin scrollò le spalle, come a voler minimizzare la portata della sua ammissione.
« Aye. Ma c'è poco da raccontare. Dovevo raccogliere la legna e le fascine prima della prossima tormenta, in maniera che non fossero troppo umide quando le avessi riportate qui. Così, tre giorni fa, mi sono inerpicato sulla montagna, come faccio sempre. »
Gli astanti annuirono, sia per la bontà di quel ragionamento sia perché alcuni di loro ricordavano di aver visto il tagliaboschi partirsene di buon mattino -e anche chi non l'aveva visto era pronto a testimoniare sulla buona fede di quell'uomo irsuto.
« Ero quasi arrivato al bosco quando una tempesta di neve mi sorprese per la via. Non potevo certo affrontarla, né tornare indietro a mani vuote. Così proseguii rasente alla parete, finché non incontrai una fenditura che mi parve abbastanza larga per ripararmi. »
Interruppe il suo racconto per bere l'ultimo sorso di vin cotto, rimise giù il boccale con una certa soddisfazione e osservò quelle facce che, in religioso silenzio, attendevano il seguito del suo racconto.
« Quella spaccatura nella roccia era una vera e propria galleria che conduceva attraverso il lato meno largo della montagna fino alla piccola valle incastrata fra i due picchi. » proseguì, infervorandosi nella descrizione. « Qui c'era una vecchia costruzione abbandonata, non lo so, da fuori sembrava non ci fosse nessuno. Sapete, di quei posti dove vanno quei mezzi matti... Come quello gnomo... »
« Un eremo? » suggerì Lynn, che suo malgrado si andava incuriosendo e voleva proprio vedere dove sarebbe andato a parare il racconto del tagliaboschi.
« Proprio! Un erremo. » confermò Caerwyin « Una cosa inquietante, vi dico! Non c'era una porta a chiudere l'ingresso e la tempesta infuriava, così entrai. C'era un bel calduccio fra quelle mura, ma subito dopo... il vento freddo, il brivido della morte che ti corre sulla schiena. »
Batté con violenza la mano aperta sul tavolo, facendo sussultare tutti i presenti.
« SBAM! Mi ritrovo in una grande stanza, piena di fiaccole dal fuoco azzurro e a terra un cadavere. Un uomo morto, a faccia in giù, in una pozza di sangue. »
« Un cadavere non è un fantasma. » interloquì saggiamente l'oste.
Caerwyin annuì, rilassandosi un po' sulla sedia.
« Aye. Ma il sangue era secco, chissà da quanto tempo stava lì quel poveraccio. Quanto a me, non avevo mica tanta scelta: sono tornato indietro e mi sono fermato nella galleria finché non è cessata la tormenta. Stavo appunto per tornare a salire sulla montagna, quando... »
e dicendo queste parole si sporse in avanti sul tavolo, verso i suoi ascoltatori, e sussurrò il terribile segreto
« L'ho visto: ysbryd! Un fantasma, bello e fatto. Un'ombra bianca e azzurra che si muoveva a un palmo da terra e passava attraverso i rami degli alberi, tutto circondato da una luce bianca! »
Tutti rimasero in silenzio, perfino Lynn. Caerwyin aveva tanti difetti ma non mentiva e teneva troppo alla sua pelle per ubriacarsi quando si recava fra i crepacci e le gole della montagna. Solo l'oste ebbe il fegato di porre la domanda che tutti si stavano ponendo.
« E allora che hai fatto? » chiese, curioso anche lui. Caerwyin scrollò le spalle.
« Che dovevo fare? Ho sentito una voce chiamarmi: 'teithwyr', diceva. Mi sono girato e me la sono data a gambe senza fermarmi o voltarmi una sola volta, ed eccomi qui. »
Tutti, compreso che quella era la fine del racconto, iniziarono a scostarsi confabulando fra loro e stavano già meditando su come giudicare il comportamento del tagliaboschi o come abbellire la storia per quando l'avrebbero narrata agli altri -magari agli stranieri- fingendosi protagonisti. Solo Lynn e l'oste rimasero in piedi davanti a Caerwyin, il primo per invidia e il secondo perché aveva ancora una domanda.
« E ora come fare per la legna? L'inverno è ancora lungo. »
Il tagliaboschi fissò uno sguardo corrucciato su chi lo interrogava e rispose, cupo: « Questa è una buona domanda a cui non so rispondere. Di sicuro non intendo tornare lassù. Ci tengo alla pelle, io. »
E così iniziarono tutti a preoccuparsi di come sarebbero riusciti a scaldarsi per sopravvivere all'inverno.

Nel frattempo, da qualche parte più a nord, fra le gole e i picchi dell'Erydlyss, un'ombra si aggirava senza requie, avvicinandosi a ogni essere che passasse di lì e ripetendo il suo richiamo.
« Teithwyr. »


Giocata concordata fra me e aki, si prega di non intervenire.
 
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view post Posted on 8/5/2015, 23:39
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koneko no baka
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· A P O R I A ·



Il sole pallido dell'autunno morente filtrava attraverso i merletti impolverati delle vecchie tende sulla grande finestra della sala della cucina. Quella luce bianca e densa di nuvole baciava il viso di perle di Eloise, facendo brillare i suoi occhi aperti e immobili, fissi sui decori nel legno della credenza. Il suo corpo minuto non si muoveva, se non per i piccoli respiri che facevano sollevare e nuovamente abbassarsi le morbide coperte di lana. Un movimento ritmico e discreto, talmente fievole che si faceva coprire dal cinguettare stanco delle rondini pronte a fuggire, fuori dalla casa. La ragazza aveva perso il conto del tempo trascorso in quella posizione immobile, incantata nel vuoto, come una silente bambola di porcellana abbandonata con le graziose palpebre socchiuse e le labbra dipinte di rose.
I giorni che avevano preceduto quell'istante, avevano riportato la straziante pace che sempre aleggiava nella sua testa, quel silenzio bisognoso d'attenzioni, quel ricordare con dolore senza comprendere appieno. Aveva avuto tempo per riflettere, mentre curava le acquilegie e i noccioli. Aveva pensato in silenzio a quel periodo appena precedente trascorso lontano dalla sua dimora, tra un'imprudenza e l'altra, tra le perigliose cime dell'Erydlyss che tanto ancora le stavano a cuore. E incontrare così tanti nuovi individui fare la loro conoscenza, rendersi conto che ora quei visi rispondevano a un nome e determinate azioni che con lei avevano parlato per loro.
Capacitarsi del fatto che ora qualcuno forse avrebbe pensato la stessa cosa, riordandosi di lei.
Ricordandosi il nuo nome, il suo volto.

Teithwyr.

Sussurri sconosciuti si trascinavano fuori dai suoi sogni, strisciando languidamente durante quei suoi giorni di contemplazione e nulla assoluto. Raccontavano gli atti da lei appena compiuti, lasciandola a rimuginare sulle cose che avrebbe potuto far andare diversamente, su quanto avrebbe potuto cambiare le situazioni. Sospiravano le solite memorie mai uguali e mai monotone, talvolta in maniera così cristallina che la giovane si ritrovava a posare l'orecchio sulle assi di legno di qualcuno degli usci chiusi nella speranza di poter udire meglio ciò che dall'altra parte non più trovava spazio in questo mondo. La distraevano mentre leggeva al sole della sua radura, circondata dai fiori e dalle lepri che mai più di tanto s'avvicinavano, e le chiedevano il suo nome, le domandavano chi fosse lei, chi fosse mai stata. E le parole dell'elfo dai capelli di luna ancora la facevano rabbrividire, donandole quel brivido di una certezza incorporea che non le avrebbe risposto, non in quell'universo crudo e toccabile.

Teithwyr.

La ragazza nella sua casa cantava al tramonto nella penombra solitaria, mangiava in silenzio e s'addormentava sola, accompagnando le ore con la lettura di vecchi libri che abitavano quelle mura da molto più tempo di quanto lei potesse immaginare. Se il nascente inverno lo permetteva, s'addentrava nel bosco e camminava senza una meta, catturando a grandi respiri l'aria pulita e fresca. Se il sole splendeva senza nuvole a rubarne l'ultimo tepore autunnale, Lodjur sedeva nell'erba in silenzio a guardare la luce giocare sugli steli sottili dei fiori nati al momento sbagliato, inconsapevoli della morte deliziosa e candida che li avrebbe raggiunti durante una delle successive notti. Talvolta i passerotti saltellavano con le loro zampette sottili fino a lei, così innocente, così indifesa. E i cervi al limitare della foresta osservavano senza astio lei dall'animo silente e grandioso.

Teithwyr.

I fantasmi avevano preso a tacere, limitandosi a guardarla con quei loro occhi spenti in cui solo Eloise trovava la vita. E lei, sorpresa da quel loro insolito gesto, si faceva ogni volta cogliere da discreti brividi intimoriti in loro presenza. Le volte in cui sedevano con lei, all'esterno dei teatri delle loro gesta, invece che avvicinarsi, prendevano a fissarla con strane espressioni di vago allarme che deformavano con sinistra armonia i loro meravigliosi volti. Ma una voce rimaneva, un sussurro malinconico dall'oscurità impalpabile delle misteriose e dimenticate ore in mezzo alla notte, abissi troppo profondi per poter ricordare, troppo bui per poter vedere. Non chiamava lei, eppure la scuoteva come brezza gelida ogni volta che rompeva il silenzio dei suoi pensieri. E al tintinnare di quella preghiera ignota senza occhi e senza corpo, le ombre in compagnia di Lodjur si eclissavano, dissolvendosi come sabbia d'argento nel meriggio turchese, nel mattino dal freddo pallore.

Teithwyr.

Poi era giunto l'agoniato sogno, la bramata visione dell'incomprensione alla sua radice. Aveva portato con sé la bora ghiacciata dei picchi più alti, l'inverno già adulto dell'Erydlyss più a nord. Una luce soffusa d'avorio filtrava la spessa coperta di nubi, acquarellando di bianco quel mondo gelido e impervio. Il canto del vento risuonava tra gli abeti altissimi delle foreste, scuotendone le cime coperte di neve. Qualche volta si potevano udire i rapaci gridare nel cielo, nonostante mai si potesse scorgere la loro figura. Ma la sagoma di qualcun altro solcava il candore, bucando il dipinto delle nevi con il suo lungo mantello cremisi. E non trattandosi d'una bestia, lasciò che Eloise intravedesse le sue gambe in movimento a condurlo dove né lei né altre anime avrebbero potuto sapere.
Poi l'innocente visione venne bruscamente interrotta da una serie di inquietanti immagini che esplosero susseguendosi caoticamente l'una all'altra.
I suoni cambiarono, mutando in un soffiare tranquillo e soffuso, eco lontano in una caverna della bora fuori a scuotere i pini. Un uomo dai capelli dorati e dai tratti sottili stagliava la sua figura discreta al centro d'una stanza circolare. Pareva lo stesso che la ragazza aveva appena visto camminare nel nulla, ma non vedere inizialmente il suo viso la rendeva incerta sull'identità.
Il rumore della brezza s'era poi quietato del tutto, lasciando spazio al chiasso raccapricciante del sangue che colora il suolo cadendo e imbrattado la pietra come pittori capricciosi farebbero sulle loro tele. E chiazze di vermiglio trovarono spazio nella visione un tempo candida. Si allargarono un poco, ramificandosi come aceri rossi in giovane età.



Ora, assenza d'ogni suono, fuga di tutte le emozioni, il sogno si dipingeva in un altro luogo. Come cieli d'un aprile timido e vessato dai lasciti d'un inverno crudele si colorò la luce. Due iridi limpide d'azzurro polvere riempirono le sue di osservatrice distante. L'uomo chiaro s'inginocchiò sul terreno con un tonfo quasi dolce, la lama argentata conficcata tra una costola e l'altra, in quel punto così poco conveniente.
E quando il teatro del sogno chiuse per metà il suo sipario, tonalità carmine acceso ebbero il dominio di quei disegni onirici. Labbra sottili dipinte di sangue presero i suoi occhi, scuotendola con quel loro lieve colpo di tosse che lasciò un rivolo vermiglio a colorare la pelle attorno vagamente olivastra.
Quella vicinanza scomoda svanì di colpo, come una fiammella di candela uccisa dal soffio d'un bambino. Tornò la figura dell'uomo, in piedi nella stanza circolare. La tranquillità avvolse nuovamente il sogno, permettendo che quella visione s'imprimesse come inchiostro di pece nei pensieri della ragazza. Ma durante questo silenzio innaturale in cui l'individuo sconosciuto non muoveva un dito, qualcosa di inquietante accadde di fronte agli occhi della mente dell'albina. La sagoma al centro di quella sorta di santuario scomparve e si mostrò nuovamente come a essersi dissolta e in secondo tempo materializzata a velocità strabiliante. E ora, la sua pelle si colorava di perle, d'un colore poco incoraggiante e malsano. La sua figura pareva perdere concretezza, divenendo sottile come l'aria e la bora che soffiava fuori dalla sala. Soffiava quasi rabbiosamente, portando con sé neve gelida che si depositava al suolo candido e ai lati della foresta. Ed ecco l'uomo ammantato di rosso che camminava solitario tra gli alberi ghiacciati, affondando le gambe nel bianco delle nevi dell'Erydlyss. Ora il suo viso affilato guardava Eloise, i suoi occhi di spento celeste bloccati su di lei, le sue labbra pallide dischiuse in un'espressione priva di emozioni e coscienza. Poi la nuvoletta di vapore, annuncio di vita, manifestazione di calore di fronte alla bocca. Il suono che trovava spazio nel nulla intoccabile del sogno.

...

Dodicesimo respiro.

Teithwyr.

Ecco la voce. Ora intensificata, ora rintocco continuo e sempre più frequente. Ora costante di richiamo, prevedibile comparsa, annunciato eco. Eloise si alzò dunque dal suo giaciglio, afferrando una pesante maglia di lana e indossandola con una certa rapidità. Si diresse fuori dalla cucina, spalancando l'uscio senza richiuderlo e scendendo gli scalini di pietra coi piedi ancora scalzi. Il sole s'era nascosto dietro un velo di nuvole così sottile da lasciar intravedere le montagne, gettando un alone di luce densa e grigia sul mondo. Attraversò la radura, come bucando il suo margine perfetto e circolare a grandi falcate, un passo deciso davanti a un altro. Al limitare dell'erba e dei suoi fiori di campo, accanto all'invisibile confine della foresta, un gruppo di figure di leggerissima materia composte si profilava sulla linea frastagliata di quel falso orizzonte, senza muoversi d'un solo centimetro. Gli occhi di giada della ragazza rimasero fissi sui corpi di quei suoi fantasmi, evanescenti come le nubi di quella giornata autunnale. Ognuno di loro voltava il viso verso nord, in direzione dell'Erydlyss di gelo, senza guardare Lodjur e senza parlare. Tutti loro si stagliavano immobili, le orbite vaghe rivolte a mezzanotte e al suo inverno precoce. L'albina li osservò a lungo, poi volse anch'ella lo sguardo ai picchi mantati di nebbia.

« Teithwyr. »
Mormorò la giovane insieme alla voce.



Risposta alla scena Aporia, di Apocryphe e aki
Dunque, ecco la risposta alla scena - molto introspettiva - nella quale ho descritto gli ultimi giorni di Eloise e i suoi pensieri. La ragazza viene incuriosita dai suoi sogni e dalla voce che riecheggia nella sua testa al punto di decidere di avventurarsi sull'Erydlyss a cercarne la fonte. La parte centrale del post, dedicata al sogno che effettivamente ha dato inizio alla voce nella sua testa, è stato il pezzetto in cui mi sono fatta leggermente prendere e quasi certamente non sarà scritto nel migliore dei modi o probabilmente sarà solo incomprensibile. Chiedo venia.
Anche se non descritto, il post viene concluso con la dipartita di Eloise dalla sua dimora, anch'essa sull'Erydlyss, ma lievemente più a sud-est. Spero il post sia all'altezza!
Enjoy~

EDIT ~ Corretta minuscola svista.


Edited by aki - 24/5/2015, 00:51
 
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