Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Grida dal Cielo ~ Creazione

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view post Posted on 26/4/2015, 23:03
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Grida dal Cielo
creazione


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Era Zero
Verkstæði


L'intera Verkstæði sembrava essersi spenta, negli ultimi tempi. Le enormi guglie dorate dalle quali si udiva poco tempo prima il suono di martelli o altri attrezzi d'officina sembravano essersi svuotate, donando alla città un aspetto effimero e sottilmente etereo. I mercati erano stati sospesi da ormai qualche mese e le uniche attività ancora in vita erano quelle dedicate alla lavorazione di materiali grezzi da perfezionare. Sul volto degli abitanti del regno non esisteva più quella insanabile voglia di originalità ed estro artistico, perché tutto era stato oscurato da un mare di rassegnazione e noia. Verkstæði poteva dire di aver dato vita a milioni tra artefatti, strumenti, edifici, sculture e costruzioni belliche; così tante da aver praticamente esaurito la scorta di inventiva dei suoi abitanti, che si ritrovavano a perdere le loro lunghissime giornate disquisendo di nuove modalità di creazione. Loro, che non erano mai stati dei grandi oratori, ormai non facevano altro che riunirsi periodicamente in lunghi concili dettati dall'ineluttabilità della saturazione che li stava pervadendo. Si scambiavano spesso pensieri circa un nuovo modello di civiltà, ma tutti i tentativi di indirizzare la propria opera a qualcosa che non fosse la creazione venivano demoliti in pochi istanti: cosa potevano fare, se non creare? Avevano vissuto tutta la loro eternità in questo modo, non curandosi minimamente di esplorare altri settori dell'esistenza. Erano stati forgiati da quella disciplina, non sapevano fare nient'altro. Ed effettivamente era proprio questa incapacità che aveva convinto Fyrirliði a prendere parola nell'ultimo grande concilio della Gola Nera, dove si erano riuniti i più grandi pensatori dell'intero regno. Il drago di diamante aveva sottolineato più volte all'interno del dibattito di come la loro casa sembrava essersi spenta del tutto, perdendo il fervore artistico che da sempre aveva caratterizzato i suoi abitanti. Affiancato a questo concetto, poi, si era detto pronto per osare, per spingersi dove nessuno si era mai spinto prima di quel momento. Aveva fatto una sintesi di tutte le creazioni cui aveva assistito, marcando il fatto che nulla di ciò che era mai stato creato dal regno dei draghi costruttori potesse essere considerato opera divina. Infatti, a parere dello stesso, tutto si riduceva a oggettistica di uso comune o opere d'arte per stupirsi a vicenda. Quando il concilio era sul termine, infine, prese coraggio e dichiarò di un'idea che aveva in mente da ormai qualche tempo.
E se potessimo modellare la vita? Aveva detto, tra lo stupore e l'interesse dei presenti, che a stento riuscivano a credere alle sue parole. Cosa potremmo realizzare con uno strumento in grado di creare la vita, ci avete pensato? L'intera città aveva saputo poi delle sue parole e sul loro volto, oltre l'insanabile noia, vi era ormai uno sprizzo di inquietudine dettato dall'attesa. Per molti giorni si era parlato delle parole di Fyrirliði e della possibilità di una nuova era, ma poi, con il passare dei mesi e nessuna notizia da parte sua, tutto era caduto nel dimenticatoio.
I Draghi Costruttori erano tornati a vivere nella vuotezza della loro incapacità. Verkstæði era ormai un regno fantasma.

• ~ • ~ •

Tum tum.
Tum tum.
Il cuore pulsava ritmicamente, producendo note distorte e incolori.

« Abbiamo finito, þjónn.
Ho finalmente creato quello che desideravo.
»
Se mai Fyrirliði avesse potuto esprimere una qualche espressione nella sua forma antropomorfa, si sarebbe dipinto sicuramente un enorme sorriso di soddisfazione sul suo volto. Aveva lavorato a quel progetto per mesi interi, perdendo letteralmente la propria salute nel farlo. Sin da quando era riuscito a ultimare gli ultimi dettagli - ancor prima di provarlo, quindi - si sentiva estremamente debole, fragile. Mortale.
Il respiro della figura di diamante era affaticato, a stento riusciva a reggersi in piedi.
« Si sente bene, mio æðstu?
Dovrebbe riposare. Non c'è fretta, lo sa bene.
»
Bjònn era un drago storpio che non aveva mai sviluppato il proprio minerale e di conseguenza le proprie scaglie. Avvicinandosi era possibile vedere la carne putrida e maleodorante dello stesso, che ultimava la propria visione in ali spezzate quando era solo un cucciolo. Il suo problema era stato individuato sin da subito e per questo era stato relegato a una vita di servilismo nei confronti dell'abilissimo drago di diamante, che con il tempo aveva imparato a trattarlo quasi da amico. Quasi, certo, perché in fondo si trattava pur sempre di un neitar, un rinnegato. Un drago incapace di creare.
« No, no, non possiamo perdere tempo. Tutti devono sapere. Corri ad avvisare gli altri, dobbiamo convocare- »
« Quell'oggetto deve essere distrutto, Fyrirliði! Stai mettendo a repentaglio la vita dell'interno Regno! »
Andóf era un drago dalle scaglie rubino, che aveva collaborato con Fyrirliði. Con il tempo però, man mano che qella creazione andava sviluppandosi, si era accorto di qualcosa che il suo compagno cercava di rinnegare a ogni costo. L'artefatto era pericoloso.
« Lasceremo decidere ai nostri fratelli il destino dello hjarta. Tutti devono sapere cosa siamo stati in grado di produrre.
Potrebbe essere l'inizio di una nuova Era.
»
« Non è così che riusciremo ad uscire da questa situazione. Non te ne rendi conto? »
Ma gli occhi Fyrirliði erano solo per la sua creazione, la sua creatura perfetta.
Una bomba pronta ad esplodere.
« Convoca un concilio d'emergenza. Vedrai, anche gli altri saranno d'accordo con me.
Devono sapere.
»
Prima che sia troppo tardi, avrebbe voluto aggiungere.


QUEST MASTER POINT
Benvenuti in "Creazione", quest aperta che segna l'inizio del ciclo "Grida dal Cielo" che vedrà la comparsa della nuova fazione mostruosa dell'Edhel. Volevo ringraziare tutti quanti per essersi iscritti, non ho mai visto una partecipazione così folta a una quest - e questo mi rende molto felice, devo dirvelo. Come già anticipato nel bando, questa sarà una quest aperta davvero molto breve, per questo vi consiglio di non saltare nessun giro di post. La quest sarà di stampo "storico", come avete visto: ci muoveremo in un tempo mai descritto nell'ambientazione del forum. L'Era Zero, appunto. Siamo a Verkstæði, che nella lingua dei Draghi Antichi vuol dire Officina - la lingua è l'islandese. Verkstæði è un regno di soli Draghi dediti all'arte della creazione situato in quello che ora viene chiamato Talamlith; considerateli come dei Draghi Fabbri, sempre alla ricerca di nuove sperimentazioni da fare. Come avrete intuito, quindi, ognuno di voi dovrà creare un personaggio di questo stampo, vale a dire un drago antico dedito all'arte della creazione. Alcune specifiche per la creazione del personaggio:
    • I Draghi Antichi sono molto simili alla letteratura draconica che li raffigura come enormi rettiloni in grado di volare. Elementi specifici dei Draghi Antichi è che ogni "famiglia" di drago faccia riferimento ad una particolare categoria di materiale. Di fatto, i draghi saranno rivestiti del materiale che utilizzano per forgiare artefatti e in generale per esprimere il proprio estro. Potete sbizzarrirvi sulla scelta dei materiali, ma vi lascio le famiglie più importanti (Pietra & Argilla| Ferro e Bronzo| Oro e Platino| Diamante) così da potervi aiutare nella scelta.
    • I Draghi Antichi, se adulti, dispongono di una forma "antropomorfa" che consiste in un'armatura vuota all'interno - perché racchiude lo spirito del drago - composta dal materiale utilizzato dallo stesso per le proprie creazioni.
    • Non confondete un Drago Antico con le attuali progenie dei draghi, che sono estremamente diversificati nell'aspetto e nei poteri.

Il vostro compito per questo post è quello di descrivere il vostro drago, semplicemente. Dovete raccontarmi la storia del vostro nuovo personaggio, le sue caratteristiche, il suo aspetto fisico e la sua psicologia - come una piccola scheda senza specifiche tecniche -. Pensate bene al personaggio che andrete a creare perché, come detto nel bando, questa quest porterà dei cambiamenti a lungo termine che deciderete praticamente da soli. Siate originali ma realistici con l'ambientazione fornita. Potete infine terminare il vostro post raggiungendo l'anticamera della Gola Nera, la sala "riunioni" del regno di Verkstæði.
Per qualsiasi dubbio, utilizzate il topic in confronto o degli mp, se non volete "spoilerare" agli altri partecipanti il vostro personaggio.
Per questo turno avete sei giorni di tempo. Niente proroghe.
Stupitemi!
 
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view post Posted on 28/4/2015, 07:14
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La chiamano il gioiello della Verkstæði, un'argilla splendente come un diamante grezzo. Una creatura d'una bellezza senzatempo, lontana dai canoni estetici attuali, ma raffinata ed elegante, immutabile creazione d'un estro tanto promettente quanto rinomato in tutto il regno.
Antica e abile, Hlíf dell'argille e delle rocce, era emersa dal pantano del suo rango, elevandosi sopra i membri della sua casta fino a sedere nei troni della Gola Nera.
Una myndhöggvari come non se ne erano viste da generazioni. Abile fin da giovane, impareggiabile da adulta nella scultura della pietra.
Ed ora era bella Hlìf, molto più di quanto lo fosse mai stata in tenera età.
Una volta, quando le montagne dell'Erydlyss erano ancora morbide e malleabili, Hlif era un maestoso rettile dalle scaglie rocciose brune ed una cresta cristallina color lavanda, iridi avorio, le zampe artigliate sporche di terra, le unghie consumate a furia di scolpire la roccia nuda, scavando sale e rinvenendo quarzi, opali e gemme assai meno pregiate del diamante, ma tanto care e preziose per quella creatura.
Passò quasi tutta la sua giovinezza collezionando gemme e cristalli, scavando la pietra, scolpendo gioielli d'indicibile fatture.
Fu durante uno degli scavi che conobbe il dolore.
Avida di quelle gemme, così brillanti e vive rispetto alla familiarità fredda delle rocce, scavò tanto a fondo fino a risvegliare il fuoco.
Il suo corpo fù sfregiato dal magma rovente che deturpò e raggrinzì le sue scaglie di pietra, rendendogli persino impossibile l'opera del suo opificio.
Da allora si dedicò a scolpire solo una statua: la sua.
Quel corpo di sauro raggrinzito e imperfetto dopo l'incidente ora giace nelle profondità di Verkstæði, dormiente e pietrificato, in un sepolcro di pietre e quarzi, la prigione per un incubo, la tomba d'un ricordo.
Scolpì se stessa nella pietra e nella roccia, si modellò nelle crete riuscendo a plasmare una nuova casa per il suo spirito di drago, assai più magnifica e imponente.
La sua opera più mirabile dicono.
Un corpo di donna grasso e sgraziato.
Bella, bellissima. Perfetta.
A vederla sembra che la terra abbai vomitato fuori dalle sue viscere quell'umanoide mostruoso dal corpo di pietra: alta quanto un drago, le gambe tozze e piedi piccolissimi, sproporzionati rispetto al resto, le braccia possenti, fianchi larghi che assieme al suggerimento scolpito sul petto come due grandi e abbondanti seni cadenti indicano l'innegabile femminilità della creatura.
Il volto conserva dei tratti del sauro che era, lineamenti spigolosi, dentatura affilata.
Lo sguardo è acceso dalla pura luce color vinaccia del suo spirito, il viso incorniciato da rigonfi boccoli di pietra che scivolano sulle spalle.
Hlìf si è creata come una forma in cui la sfericità comanda, dando alla sua opera un aspetto esageratamente grasso e flaccido dove gli enormi seni scoperti, il ventre prominente e la vulva gonfia dominano.
Poi ci sono le gemme, le sue care e preziose gemme.
Quarzi violetti incrostati sulla sua schiena e nelle sue spalle fino a creare una vistosa gorgiera soffocata sul davanti dal doppio mento roccioso della creatura.
Non ha abiti eccezione fatta per un lunga stola leggera che sembra quasi scolpita nella sua roccia, a cui abbina monili e ricchi bracciali adornati di pietra e quarzi. Alle caviglie e ai polsi indossa sempre due cilindri di pietra, finemente levigati e impreziositi con gemme e cristalli.
Questa è Hlìf, antica e abile myndhöggvari di Verkstæði, signora delle gemme.
Scolpire era la sua passione, intagliare gioielli nella pietra ed abbellire gli ampi saloni del regno con statue incredibilmente belle sebbene se da tempo si era rintanata nelle proprie aule, scolpendo solo che per se stessa ed il suo diletto.
Accendeva in lei uno strano fervore che da tempo non si provava più a Verkstæði.
Il suo popolo era ormai diventato un covo di viziati apatici e nostalgici, insaziabili di scoperte si stancavano subito delle novità cercando di creare sempre qualcosa di altro, di nuovo.
Vien da se che quando finiscono le creazioni la fiamma stessa della forgia si raffredda.
E così cala il buio, la stanchezza, l'apatia.
I morsi allo stomaco di un regno che sta lentamente morendo di fame.
La grassa creatura s'avvicinò ad un pezzo di roccia grezzo, un masso poco più grande del suo palmo.
Lo prese delicatamente e se lo portò alle labbra di pietra.
Inclinò il volto con uno scricchiolio roccioso e soffiò una fiatata violetta che attecchiva sulla roccia scrostandola rapidamente, fino a lasciare solo una levigata goccia tonda su cui scintillavano nella parte circolare un pulviscolo di quarzi.
Sorrise compiaciuta poggiandola accanto ad intagli simili di diverse grandezze, ne sarebbe venuto fuori un collier fantastico.

« myndhöggvari... ? »

esordì una vocina stridula alle sue spalle strappandola dal suo impiego.
Era nel suo opificio, un'ampia sala di roccia scura completamente levigata e decorata con fregi di cristalli e quarzi, tutto intorno a lei statue, di tutte le forme, di tutte le dimensioni; sulle rocce brillavano monili e gemme preziose tagliate ed incastonate in quei collari di pietra, una catenina sembrava realizzata in granelli di sabbia tant'era fina e delicata.
La figura femminile si voltò girandosi appena sui piedi piccolissimi, lo sguardo brillante fisso sul neitar.
Era þjónn, il servo Fyrirliði, il drago di diamante.
Lo aveva incontrato all'ultima assemblea della Gola Nera, sedeva con lei al tavolo dei creatori.
La donna venne avanti, il passo pesante reso inspiegabilmente leggero come una piuma che ne accentuava l'andamento sgraziato.
Alle dita aveva svariati anelli di pietra levigata su cui scintillavano quarzi violetti, bianchi e azzurrini.
Minimo due anelli per ogni dito tozzo, massimo sette come sull'indice della sinistra.
Alla vita, sotto il ventre flaccido, portava una cintura di cilindri forati in pietra, poco più piccoli delle macine per spremere le olive.
Era mostruosamente bella.

« Signora Hlìf, mi manda il mio padrone Fyrirliði... »

« vi è dunque riuscito? »

la voce possente tuonò nel corpo di pietra della creatura interrompendo lo storpio che si limitò ad annuire con un debole cenno della testa. Sembrava che lo spirito del drago stesso ruggisse entro i confini di pietra, scuotendo la roccia come un terremoto improvviso, i cristalli sulle sue spalle che tintinnavano come sonagli al vento.
Lo squadrò con gli occhietti luminosi tanto intensamente che sembrava quasi stesse per disintegrarlo.

« Hanno convocato un consiglio d'emergenza, mia myndhöggvari... »

C'era riuscito dunque quel pazzo.
E se potessimo modellare la vita?
Quelle parole gli erano risuonate nella mente come un eco continuo nei mesi a venire l'ultima assemblea.
Un progetto ambizioso quello di Fyrirliði, impossibile, eppure al tempo stesso miracoloso se mai vi fosse riuscito, non tanto per se quanto per il futuro della Verkstæði, per saziare quella carestia di creazione di cui stava inevitabilmente soffrendo il regno.
Avrebbe dato speranza a tutti con quella scoperta, persino a lei.
Fece un gesto con la mano tozza al rinnegato lasciandolo uscire dal proprio opificio.
Giù alla Gola Nera si sarebbero scannati.

E se potessimo modellare la vita?

Con passo leggiadro, quasi levitasse sopra il suolo dell'opificio, la myndhöggvari si avvicinò alle sue statue, né sfioro i lineamenti con le grosse dita con una delicatezza tale nemmeno fossero state di vetro soffiato.
Scivolò sul volto di una statua accarezzandola.
Era obiettivamente più brutta delle altre, sembrava amorfa ed incompiuta, sproporzionata ed embrionale. Un corpo dalle forme sferiche simile alla madre, braccia lunghe, un volto che ricordava un elmo di guerra calpestato. I cristalli a dare una nota di colore disordinata.
Sembrava l'opera di un bambino, un accozzaglia di pietre scolpite appena molto più grezze rispetto a qualsiasi altra lavorazione in quelle aule.
Socchiuse gli occhi e sospirò mentre saggiava la fredda pietra con la sua mano.
Hlìf aveva una grande connessione con la terra, spesso riposava lasciando che il suo spirito scivolasse nella vene rocciose e vagava paziente nella nenia di Theras; sentiva gli animali che scavavano le loro tane, il respiro dei germogli.
Si sentiva una madre affettuosa in quei piccoli momenti condivisi, pronta ad offrire riparo ai suoi piccoli abitanti in cerca di un abbraccio.
Nel successo della sue creazione il suo più grande rimpianto era stato forse quello di non essere mai stata madre: avere dei figli, una prole da accudire e allevare amorevolmente.
Non s'era mai accoppiata in tutta la sua vita, agli altri diceva che la colpa era per la smania di creare avuta in tenera età e la stanchezza dopo, in realtà tutti sapevano che stesse mentendo: Hlìf non poteva avere figli, non dopo il suo incidente.
Non era possibile una comunione spirituale fuori dal suo corpo di drago e quel corpo non era altro che un macellato involucro vuoto e malforme, incapace di sostenere un simile sforzo.
Era giunta ad essere un'antica creatura senza un retaggio a cui tramandare il proprio sapere, a cui dare amore, passione, speranze.
La cosa che aveva di più simile a dei figli erano le sue creazioni: le statue di roccia e quarzi stipate nel suo opificio come un ordinato esercito di bambini, frutto del suo soffio, creazione del suo dono.
Eppure erano solo delle stytta, le ultime sciatte per giunta a detta dei creatori.
A volte sognava si riuscire ad animarle col suo soffio, di renderle parte di lei, la madre roccia ed i suoi bambini d'argilla.
Aveva persino provato, inutilmente, a scindere il proprio spirito per lasciarlo albergare in quelle statue.
A niente valevano le sue ricerche, poteva solo raffigurare i suoi bambini per poi dover vivere nella tristezza di non vederli crescere.
Per questo li creava di tutte le età: figli anziani nei loro grassi corpi rocciosi adornati di mantelli di quarzi come la loro madre, possenti e aitanti draghi giovani che sorreggevano con le loro ali di pietra le aule di Verkstæði, fino a quelle stytta dalle forme piccole e deformi, sciatte -come le definivano gli altri- come il pensiero caotico embrionale alla base della creazione.
Quelli erano i soli bambini che poteva avere.
In molti credevano che la sua dote fosse venuta meno ma in realtà il suo era solo un inconscio desiderio materno che prendeva sempre più forza in lei, un tarlo che stava logorando lentamente la sua lucidità mentale.
Ed ecco che quindi guardava amorevolmente le sue statue e talvolta alzava la mano muovendo le dita paffute mentre la roccia danzava sotto il suo palmo, come una marionetta mossa da fili magici.
Ci parlava pur non avendo risposta, aizzando le voci secondi cui la pietra gli sussurrava.

E se potessimo modellare la vita?

I suoi bambini, vivi.
Nel volto di pietra di Hlìf si squarciò un sorriso compiaciuto.



« Quella myndhöggvari non merita di sedere al tavolo dei creatori. La sua mente è malata e le sue creazioni stanno rasentando l'indecenza. Avete visto quelle statue? Mostri amico mio, MOSTRI! »

Una montagna di pietra nera ed una di roccia.
Solenni, una di fronte l'altra.
Le iridi corvine del dragone di carbone lo fissavano esterrefatte, ad ogni suo scoccare della mascella una nuvoletta di fumo gli scivolava tra la dentatura candida.

« Hlìf è una myndhöggvari di grande talento, nessuno nel Verkstæði può eguagliare le sue creazioni, per non parlare del suo stytta: perfezione. »

gli rispose il drago di pietra pazientemente, ammirevole nei confronti di Hlìf e del suo operato. A differenza di molti creatori vedeva qualcosa in quel suo ultimo atto creativo, una scintilla di intraprendenza e non l'insano crollo del talento di cui si spettegolava in giro.

« E dunque insinueresti che le sue ultime creazioni sono perfette? »

sibilò il carbone.

« Differentemente belle, un periodo del suo ciclo artistico, un ritorno alle origini »

« Sciatte e incompiute ecco cosa sono... »

« Grezze come la materia da cui provengono... »

« Le rocce nude sono più armoniose delle sue creazioni! »

Il drago di pietra s'avvicinò al suo amico scuro e lo fissò negli occhi petrolio in cui era quasi impossibile intravedere le iridi.

« Hlìf le imita, richiama quella bellezza, ricerca un canone estetico primordiale che seppur di difficile comprensione e comunque mirabile. Quindi no Ásgautur, non appoggerò la tua proposta di escluderla dai seggi della Gola Nera. Quanto alle voci sulla presunta pazzia, sono solo voci...ed evitiamo di parlarne, sarà qui a momenti.»

Come quelle che dice di sentire nella roccia, avrebbe voluto rispondergli Ásgautur ma ormai non aveva più senso discutere.
A breve sarebbe cominciata quell'assemblea d'emergenza della Gola Nera indetta da Fyrirliði.
La decadenza della consigliera Hlìf poteva aspettare.



Postato!
Il mio pg è Hlìf, myndhöggvari del regno. Un drago di pietra con la passione per il quarzo che non può vivere nel suo corpo di drago perché terribilmente mutilato. myndhöggvari significa scultore in islandese, stytta statua. l'ultimo dialogo l'ho messo li giusto per accentuare un po' la questione della pazzia di cui si spettegola in giro, in realtà Hlìf è solo terribilmente sola non potendo essere madre a causa dell'incidente, motivo per il quale scolpisce i suoi "bambini".
Anche per questo è interessata alla ricerca di Fyrirliði, se si può plasmare la vita può far vivere le sue statue come fossero dei figli.
Yu se qualcosa non dovesse andare bene o cozzare con l'ambientazione fammelo sapere che modifico :v:


Edited by lothus - 28/4/2015, 11:14
 
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Shavronne
view post Posted on 28/4/2015, 12:56









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Hóseas
Kalksteinn
Il gesso


«Se si fa una leggera pressione qua dovrebbe succedere questo... si ecco guarda! Invece qui ho creato questa serie di punte, possono sembrare ingombranti è vero però non sono riuscito a trattenermi...»
Continuava a girare attorno alla sua nuova creazione cercando di spiegarne con cura tutti particolari. Aveva passato una quantità di tempo spaventosa a controllare e perfezionare ogni singolo centimetro della sua opera, questa volta sarebbe stata apprezzata.
Il suo entusiasmo venne spezzato da uno sbuffo pieno di rassegnazione.
«Mi continua a sfuggire l'utilità di tutto... questo, sempre che ne abbia una. E sinceramente non capisco il senso di tutta questa roba, Hóseas perchè non provi a fare qualcosa di più semplice?» Áslákur stava esaminando il lavoro con scarso interesse, i suoi occhi scorrevano le forme con sguardo critico mentre le abili ed esperte zampe tastavano la liscia superficie bianca. Poi con un artiglio fece una leggera pressione creando un lungo solco verticale nel gesso, una nube di polvere bianca si alzò per qualche secondo per poi posarsi sul terreno ai suoi piedi.
«COSA FAI?! Così lo rovini, perchè l'hai fatto?» Hóseas corse a controllare il danno, osservandolo con preoccupazione.
«È solo un graffietto non preoccuparti, tanto resterà a marcire la dietro assieme a tutti gli altri, sommerso dalle ragnatele. Quanti ce n'è saranno ormai?»
Aveva perso il conto, alle sue spalle si estendeva il deposito colmo delle sue strambe creazioni. Si voltò un istante a guardarle con profonda tristezza, ogni volta che le vedeva lì abbandonate e rifiutate non poteva che sentirsi male. «Quelli sono solo i lavori che ho presentato, ne ho ancora molti da parte...» Il problema era che i conoscenti a cui mostrarli erano esauriti, aveva provato a confrontarsi con tutti loro per poi ottenere sempre lo stesso triste risultato.

L'ennesima discussione avvenuta con Áslákur aveva condizionato la sua giornata a tal punto che non si era nemmeno preoccupato di riparare la ferita della sua creazione. Aveva bisogno di andare a trovare il suo compagno segreto, ormai passava più tempo con lui che con qualsiasi altro.
L'enorme stanzone si illuminò al suo arrivo, nessuno a parte Hóseas conosceva l'esistenza di quel luogo. Il pavimento era completamente ricoperto da uno spesso strato di gesso polverizzato che attutiva il rumore dei suoi passi e ne segnava il passaggio registrando le sue orme.
«Anche sta volta è andata male... dovrei forse smettere? Dovrei accettare la mia situazione? Io non lo so più...» Mentre parlava le sue zampe anteriori si muovevano in automatico, replicando quel gesto che ormai si erano abituate a fare dopo un numero illimitato di volte. Un cuore di gesso bianco e puro nacque in un suo pugno, lo portò davanti ai suoi occhi ammirandolo con dolore e poi con un movimento deciso chiuse la zampa mandandolo in polvere. La piccola nuvola cadde lentamente al suolo per unirsi con la distesa della sua stessa consistenza. Quante volte il mio cuore è stato schiacciato per creare tutto questo...
In fine la sua attenzione si rivolse verso il soggetto al centro della stanza: una sua rappresentazione fredda e inanimata. Propio come lui, lo stava osservando con il volto assorto in quell'espressione malinconica che sempre più spesso condivideva. Ricordò con quanto impegno creò quel corpo ricoperto di scaglie bianche e opache, la cura che ci aveva messo nel riflettere tutti i particolari del suo fisico nella sua copia. Rivide in lui la sua rigida cresta partire dalla base della nuca per estendersi fino alla punta della lunga e affusolata coda. Immaginò che le maestose ali potessero librarsi nell'aria proprio come le sue, che bello sarebbe stato poter volare assieme... poter stare insieme.
Allungò il suo muso lungo e magro e per un istante i loro nasi si sfiorarono, i suoi occhi azzurri e vivi incontrarono l'aspetto spento della suo compagno.

Finalmente Fyrirliði aveva convocato un concilio d'emergenza, le parole che aveva pronunciato qualche tempo prima gli erano rimase in mente e continuavano segretamente a turbarlo. L'idea di poter creare vita che non fosse un drago, un essere che l'avrebbe apprezzato e compreso: qualcuno che non l'avrebbe costretto a rinchiudersi in se stesso.
Sperava di ricevere buone notizie. Sperava nella creazione di un nuovo mondo che l'avrebbe reso felice.


Hóseas è un drago che utilizza il gesso come materiale per le sue creazioni. Queste però risultano strambe e inutili ai suoi conoscenti rendendolo triste ed escluso. Spera che la nuova creazione di Fyrirliði possa cambiare il suo mondo e la sua situazione.


 
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C'Monk
view post Posted on 28/4/2015, 16:39




L'orgoglio e l'acciaio
Már, drago d'acciaio



Imponente e algida, una fredda stretta inossidabile si ergeva non lontana dal centro di Verkstæði. Sorprendente come, tra le guglie dorate, se ne stagliava una completamente argentata. Era così finemente lavorata che su di essa si rifletteva un’immagine a detta del suo creatore: “ancora più fedele rispetto a quella riflessa dagli occhi”. All’interno di essa, nel buio più totale, giaceva una creatura. Már era un poderoso drago d’acciaio. Un giorno quello stesso edificio era stato progettato e creato da lui, sotto il plauso scrosciante della comunità. Ora stava disteso a terra ed era in quelle posizione da così tanto tempo che alcune placche dorsali stavano per penetrare una parete. Uscire aveva per lui perso di significato. Discorsi inconcludenti su discorsi inconcludenti lo avevano scaraventato in un mondo parallelo dove dialoghi reali si fondevano a chiacchere rimuginate, battute ancora calde per generare rancore.
Incapace di comprendere ormai cos’era sogno e cosa realtà contemplava una visione farcita coll’amaro sapore del ricordo: Már tempo e tempo addietro stava per presentare la sua prima creazione alla comunità. Era nervoso. Pensava che la sua creazione fosse la migliore mai mostrata in quella città. Ne era sicuro, ma confidava anche sulla pochezza dei suoi “colleghi”. Bigotti e codardi, non si erano mai spinti verso la perfezione assoluta. Sembravano più dediti all’autocompiacimento che all’effettiva glorificazione della carne in terra. Era certo che non sarebbe piaciuta, tanto quanto lo era di aver generato un capolavoro. La creazione fu scoperta e vi fu un brusio generale.
« E’ qualcosa di incredibile, considerandola un’opera prima»
«Magnifico, sublime, speriamo non risulti una meteora»
«Molto originale, ma l’originalità non ovvia l’esperienza, speriamo sappia come cavarsela»
La visione mutò improvvisamente. Màr era solo, solo come ora. Era furioso, potendo avrebbe distrutto tutto. Tutti quegli ipocriti, teste vuote, lecchini che pendevano dalle labbra del primo che passava. Parlavano, giudicavano, ma erano ciechi come abomini. Bastava una voce più grossa delle altre, una stronzata più credibile ed eccoli buttarsi a capofitto dalle corna alla coda. Fyrirliði aveva sparato la sua. Ed era troppo grossa anche solo per essere presa in considerazione.
“e se potessimo modellare la vita?”
Màr non poteva sopportare quell’arroganza oltre, abbandonò il concilio e si ritirò per giorni dalla vita pubblica.
Si destò da qualcosa di molto vicino al sonno con uno scatto. La luce era riuscita a fare irruzione violentemente nel suo covo. Le zampe posteriori grosse e pesanti affrontarono il terreno, mentre i lunghi artigli sottili e taglienti graffiavano il terreno. Le zampe anteriori piccole rispetto alle corrispondenti graffiarono l’aria con artigli altrettanto affilati. La lunga cresta di placche dorsali d’acciaio si scosse ed esse parvero vibrare come centinaia di grossi insetti metallici. La mascella schioccò violentemente mostrando denti anch’essi sottili e acuminati. Il muso era piuttosto allungato e squadrato, come se fosse anch’esso uscito da una fucina. Le ali, all’apparenza sottili e lunghissime, erano mostruosamente grandi e anch’esse squadrate. Si mossero appena, come a voler fendere l’aria. Il suo intero corpo, prodigio di lucentezza e possanza si era mosso in uno scatto d’ira maldestro e inelegante, che poco si sposava con quella figura quasi nobile, ma dagli occhi iniettati di odio. Aveva preso a salivare oltre misura. Negli ultimi tempi la mente gli stava giocando brutti scherzi. Non provava più piacere per nulla, solo nel ricordo di quello che aveva creato: il grande Kallo lucente che scrutava le distanze che si dipanavano da Verkstæði, la profonda hylinn opera e fucina, continuamente alimentata da un fuoco sotterraneo e lei la mastodontica Móðir in cui risiedeva in questo momento. Ricordo delle glorie passate che si mesceva alle parole, parole che un tempo venivano spese con parsimonia, mentre ora fluivano come i fiumi in piena, trascinando tutto e tutti in un vortice incontrollabile. Ma il verbo che associava all’immagine mnemonica non era verbo veritiero, ma corrotto. Era composto da frammenti di discorsi uditi in diverse epoche, riferiti o addirittura immaginati. Questo rancore gli corrodeva lo stomaco, probabilmente in senso letterale. Cercava di mantenere ancora un’ombra di quello che era stato in passato: autoritario, ironico, sottile, ricercato e distaccato. Un piacevole compagno di dialoghi dallo sterminato senso artistico. Elegante nell’aspetto, nelle movenze e nel discorrere, nobile nel portamento e nelle reazioni. Mai, nemmeno una volta, capace di perdere la calma in pubblico. Si, questo solo in pubblico. Ora la sua vera natura, un tempo annebbiata dall’oppio della gloria, stava ruggendo in lui. I riconoscimenti assolutamente insufficienti, gli elogi della sua persona mai pienamente tessuti e delle sue opere, sempre pronunciati da bocche empie che riferivano di occhi indegni, lo tenevano sveglio. L’insonnia si propagava per tutto il corpo, sempre più pesante, sgraziato e teso. Lo scatto d’ira si risolse in un urlo strozzato e acuto, primo verbo pronunciato dopo giorni di autoreclusione:

« La vita, la vita ! Modellatevi un cervello ! Non riconoscete nemmeno il marcio dal commestibile e pretendente di infondere vita ? Finirete per infondere morte, la Mia ! »

Subito il drago si pentì di aver pronunciato quelle parole. Il contegno prima di ogni cosa.

[…]



Si era assopito nuovamente. Ormai non distingueva più la veglia dal sonno. Fu svegliato da un annuncio:

« Màr, maestro, è stato convocato un consiglio d’emergenza da Fyrirliði. »


Màr al suono di quel nome tremò. L’ira si stava impossessando del suo corpo. Con l’ultimo briciolo di dignità rimasto nel corpo sbuffò una risposta dal sapore di un ringhio:

«Mi spiace comunicare al tuo padrone che Màr non potrà essere presente per nessuna ragione»

L’altro chinò il capo poi, debolmente, si pronunciò:

«Certo, riferirò. Volevo solo avvisarla che il mio mio æðstu è riuscito nel suo intento …»

A quelle parole la mente di Màr si destò, come da un lungo torpore. Rimase immobile con aria beota per qualche secondo poi, con voce strozzata si accasciò di nuovo a terra. La voce gli uscì flebile dal lungo collo corazzato:

«Comunica … comunica la mia presenza»

[…]



Arrivato al luogo del consiglio Màr ebbe come un mancamento. I presenti lo squadravano stupiti, come se vedessero un fantasma. Era appesantito da chissà quale cappio. Sentiva gli astanti mormorare luoghi comuni come “allora è vivo” o “non ha una bella cera”. Màr si sentiva sempre più perso e confuso. Il suo sguardo vuoto rifletteva forse, la prima vera sconfitta della sua vita. Per la prima volta aveva preso coscienza di avere avuto torto e non una sola volta. Probabilmente aveva sempre avuto torto. Le fauci secche come la sabbia del deserto e la testa bassa, come quella di un traditore. I luoghi comuni mormorati, non era poi così tanto “comuni”. Erano la pura verità. Màr era diventato il fantasma di sé stesso, un fantasma in purissimo acciaio.
 
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Time Lost Centurion (3dh Economic Crisis Edition)
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Arkais
Il Creatore di Vita



Tutto ciò che ha un inizio ha sempre una fine. Ineluttabile legge del ciclo, macabro promemoria che l'esistenza impone in maniera tacita e costante su ognuno di noi. I miei fratelli e le mie sorelle fanno finta di dimenticare. Ignorano i segni, congedano i dubbi creando senza scopo alcuno. Come il salmone che si dibatte per ascendere la corrente quando, ormai, è troppo tardi per far sopravvivere la sua linea di sangue. Questo mi rattrista profondamente, scuote il mio spirito vecchio e saturo di vita sino alle sue fondamenta. Ad ogni passo la mia pelle scricchiola come una sequoia sul punto di cadere, incapace di ergersi contro il vento della tempesta ormai imminente. Una conoscenza che mi è stata concessa dalla mia natura. Perché dei molti creatori nella mia specie solo poche famiglie possono creare la vita stessa. Ne sono consapevole, il crepuscolo è ormai imminente. Ed anche con l'avvicinarsi della lunga notte il mio compito non cambia. Nel corso dei millenni ho dato forma a molti figli e figlie i cuoi nomi saranno dimenticate per molti secoli. Betulla, Frasso, Pino, Abete, Sequoia. Si ergono fieri, le loro radici radicate nella terra da cui traggono il loro nutrimento. Rosa, Tulipano, Orchidea, Margherita, Girasole. Forse peccano di resistenza al contrario dei loro fratelli, ma la loro bellezza un giorno diverrà spunto di poemi e pensieri felici. Ho fatto so che questi si spargessero, attraversando per anni ed anni le lande desolate del Thedas, donandogli colori e odori che mai si sarebbero potuti manifestare. Piansi quando vidi le prime piccole creature fare delle mie creazioni la loro casa, dei miei fiori il loro nutrimento. La vita che genera altra vita. Un dono il cui benefattore rimarrà ignoto. Questo non mi rattrista, non obnubilala il mio giudizio. Mi trascino per le grandi sale della Camera della Vita, passando le mie stanche e scricchiolanti dita tra le morbide foglie e i soffici petali delle mie ultime creazioni. Sono ancora senza nome, ahimè. Ma non sta a me trovargli un nome, c'è chi lo farà, a tempo debito. Nel mio silenzio ho potuto solo osservare il decadimento di ciò che è stato. Il sole splende su di noi, i venti portano una brezza gentile sulla mia dura corteccia e il mondo continua a respirare sotto i miei piedi. Noi passeremo alla storia, lontani ricordi e rovine di un popolo ormai perduto. Quando la grande chiamata riecheggia tra le strade tiro un profondo respiro, tossendo vigorosamente mentre l'aria fresca solletica la mia gola come tante piccole api.



« Uhhhhhh... questi giovinastri, sempre a trastullarsi con pietre e metalli. » All'inizio fu la rabbia, mi fece scontroso. Poi capii, compresi il messaggio nascosto tra le righe delle loro ossessioni. « Povere creature, smarrite e spaventate dalla mancanza di uno scopo. »



Stringo saldamente la zampa intorno alla morbida impugnatura del mio bastone, strumento ormai indispensabile per camminare nelle grandi strade di Verkstæði. Osservo i fiori e gli alberi piantati ai bordi delle stesse, doni lasciati dalle generazioni passate della mia stirpe. I Legnoferro, i creatori di vita. Maestri e maestre della bellezza che muore e rinasce, ormai scostata dai suoi creatori. Le stagioni sono sempre state generose con la mia famiglia, ci hanno permesso di perdurare più di quanto molti non possano vantare. Alcuni ci invidiano, molti si rivolgono a noi solo per sottolineare la fragilità del legno sotto il peso della pietra e del metallo. Odiarli non mi è concesso, accetto la loro natura per ciò che è, battibecchi secolari privi di un vincitore. Ad ogni passo lo scricchiolio della mia vecchia scorza mi accompagna come un amico di vecchia data, avvisando gli altri membri del concilio della mia ventura. Alcuni sono sorpresi di vedermi, forse convinti che il tempo avesse già reclamato la mia pellaccia. Mi fermo per guardare i più giovani e arroganti, esplodendo in una fragorosa e gutturale risata.



« Desolato di avervi deluso, scriccioli! » Mi rivolgo a loro inarcando il mio muso in un sorriso sincero, rivedendo in loro ciò che una volta sono stato anche io. « Non vi siete ancora liberati di questo vecchio bacucco! »



Ed essi accompagnano la mia risata, scuotono la testa mentre prendono posto al loro seggio. Nel fare lo stesso il mio volto si rattrista, immagino ciò che li attenderà quando si troveranno faccia a faccia con il collasso di questa società ormai stantia e incapace di muoversi. Siate forti, giovani ed arroganti draghi dalla mente leggera e con gli occhi ancora chiusi. La tempesta incombe, il ciclo è ormai in procinto di completarsi ancora una volta. Quando sarà finita starà a voi, progenie dei caduti, il compito di guidare le sorti di questo mondo. Poiché la creazione non ha ragione d'essere senza qualcuno all'infuori del creatore che sia in grado di osservarla e giudicarla.



Edited by Lucious - 29/4/2015, 22:09
 
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Grida dal Cielo ~ Creazione.
« Creavo, speravo
sognavo un mondo nuovo. »

Alcune creature vengono al mondo coscienti di cosa il destino abbia in serbo per loro. Esse crescono e, crescendo, concepiscono inimmaginabili capolavori, infinito genio e straordinarie bellezze. I loro lasciti sono immortali, destinati a superare il tempo e lo spazio, capaci di tale complessità da sfidare il senso stesso della vita. Persino dopo la loro morte le opere meravigliose costruite in vita tengono vivo il ricordo e la memoria, donando di fatto la quieta immortalità.
Altre creature, invece, vengono al mondo ignare, fanciullesche, malleabili. Si nutrono del bello, del nuovo, vivono le loro giornate a scoprire e inseguire quel genio, quell'estro, quell'arte che mai riusciranno a padroneggiare ma che, per assurdo, sono le uniche a comprendere e apprezzare davvero.

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Himneska era un drago semplice, non era null'altro che una delle tante creature venute al mondo per ammirare la grandiosità degli altri, eppure si sentiva soddisfatta e felice del suo ruolo, compiaciuta dal fare la sua piccola parte in un mondo che, forse, era sin troppo piccolo per i suoi gusti. Affetta sin dalla nascita da una grave sindrome sconosciuta, il suo corpo non crebbe esponenzialmente come voleva la consuetudine ma, anzi, restò esile, piccolo e delicato. Nacque terzogenita di due gemelli, Sòlse e Dögun, passando gran parte della sua infanzia a guardare le loro opere meravigliose e sognare, un giorno, di poter creare qualcosa di altrettanto splendido. A lei era toccato un corpo ricoperto di sottile acquamarina, minuto ed elegante, ma non era stata graziata né col talento artistico del fratello, né con il temperamento audace e rivoluzionario della sorella, risultando di fatto una mera spettatrice in una famiglia piena di virtuosi orefici.
Neska, questo era il diminutivo affettuoso affibbiatole, era però felice della sua vita, nonostante tutto. Amava volare, nelle giornate soleggiate, percorrendo le montagne alla ricerca della bellezza, della forma perfetta, del quadro ideale dove rifugiarsi dalla noia monotona del mondo. Il resto dei draghi soffriva la quotidianità, appassiva nel non trovare più niente di nuovo da creare, da costruire, ma non lei. Si lasciava affascinare dalle sinuosità degli alberi, traeva ispirazione dall'ondeggiare dell'erba, vedeva nelle nuvole la più perfetta forma d'arte mai concepita dalla vita, e con questo in mente sognava di infiniti mondi e infiniti spazi lontani dalla lenta sonnolenza della sua stirpe.
Così scriveva, nei suoi giorni di adolescenza:

Vedo il mondo attraverso occhi silenziosi, non capisco la necessità di cercare qualcosa che non ci serve,
né la nostra incapacità di accontentarci di quello che abbiamo.
Credo che non vi sia forma d'arte più alta o gioiello più bello dei fiori sbocciati sui prati al mattino,
dei rami ondeggianti al vento di un vecchio ontano,
delle nuvole bianche che scorrono delicate sotto un cielo limpido.


Amava le pietre dure e le gemme. Passava ore ad osservarle allo stato grezzo, scrutandone le superfici sporcate dal basalto o inglobate nell'arenaria, chiedendosi quale fosse la necessità di lavorarle, di dargli una forma diversa da quella che la natura aveva loro concesso. Nelle sue creazioni usava opali, agate, lapislazzuli che gli altri scartavano, costruiva la sua meravigliosa perfezione su ciò che al resto del mondo sembrava imperfetto. Forse la sua natura cagionevole, la sua malattia, l'avevano spinta a vedere forme e colori che semplicemente non esistevano per la quotidianità. Teneva per sé e per i suoi fratelli quei piccoli oggetti poco interessanti, desiderosa solamente che almeno loro approvassero la sua visione del mondo.
Nella sua lunga, seppur breve se paragonata a tanti draghi, vita Neska aveva imparato a fidarsi della sua famiglia e solo di essa, preferendo vivere una pacifica solitudine che rischiare di trovare il rifiuto degli esterni. Col tempo si era convinta che la sua esistenza fosse in qualche modo perfetta, che ogni cosa avrebbe trovato modo e luogo per divenire e trasformarsi, e che tutto ciò che doveva fare era rimanere saldamente legata alla sua famiglia, qualsiasi cosa succedesse, poiché nessun altro, al mondo, l'avrebbe capita come loro. A onor del vero, nella sua prima fanciullezza, non le erano mancati tiri mancini e brutti scherzi da parte dei fratelli, anche se ovviamente le volevano bene e mai avrebbero lasciato che le succedesse qualcosa di male. Durante il suo primo volo venne, per gioco, abbandonata da sola su uno sperone di roccia altissimo da cui aveva il terrore di planare da sola. Così scriveva, ricordando quei momenti.

Mi lasciarono da sola per due ore. Io strillavo e piangevo e gridavo,
ma nessuno sembrava accogliere le mie risposte.
Quando non li vidi tornare credetti mi avessero abbandonata perché inutile,
incapace di tramandare egregiamente il sapere di famiglia.
Ma quando tornarono, ridendo di me e carezzandomi la testa con le lunghe code,
mi resi conto che quello era un gesto d'affetto, una burla atta a consolidare un legame
destinato a sconfiggere il tempo stesso.


Questa era Neska, nel tempo che fu, oramai dimenticato.
Affettuosa, pacifica, osservatrice. Costruiva con ciò che gli altri gettavano, vedeva il bello in ogni cosa.

[ ... ]

Quando la voce del concilio si sparse, Neska si precipitò da suo fratello, per primo, incitandolo a sbrigarsi. Era già stato avvertito dal suo apprendista, ma questo non la dissuase dal petulargli dolcemente contro.
« Hai sentito? Ci stanno convocando, dobbiamo andare, dobbiamo andare! »
La voce squittente, allegra, sembrava quasi voler trascinare con sé tutto l'entusiasmo e la curiosità che serbava dentro. Senza nemmeno attendere la risposta sbatté le ali librandosi rapidamente nell'aria. Era gioiosa, a dir poco, e si sentiva elettrizzata all'idea di prendere parte a quell'adunanza così importante da essere indetta d'improvviso. « Vado a chiamare Sòlse, non fare tardi. »
Fece una piroetta su se stessa e si mosse verso la residenza della sorella. Una volta giunta si poggiò delicatamente sulla finestra curiosando con la testa all'interno della casa. Che lo volesse ammettere o meno, la sua natura pacata e accondiscendente mal si sposava con l'enorme gioia di vivere che serbava nel cuore, e quei piccoli gesti, quella curiosità accentuata, altro non erano che valvole di sfogo. Avvistò Sòlse e, con la coda, colpì debolmente il muro per farsi sentire.
« Stiamo andando al concilio, vieni con noi? »
Allungò il collo per sbirciare meglio nell'abitazione, senza osare così tanto da prendersi un rimprovero.

Quando la famiglia fu finalmente riunita venne il momento di recarsi sul luogo designato, a Verkstæði.
La giovane d'acquamarina non possedeva né la consapevolezza né la bravura, ancora, per costruire un contenitore adeguato alla sua anima, seppur le sue dimensioni estremamente ridotte le permettessero di vivere adeguatamente anche laddove altri preferivano usare forme meno ingombranti. Per la prima volta, dopo tanti anni, riusciva ad assistere ad un evento di quella portata, per di più assieme ai suoi fratelli, non avrebbe potuto chiedere di meglio.



Himneska significa "celeste". Neska è un drago di gemme,acquamarina nella fattispecie, che è nata soffrendo di acrondoplasia e vede nello scarto degli altri delle forme e dei colori bellissimi. Deriva da una famiglia di alti orefici che producono oggetti meravigliosi con gemme rare, lei invece cerca di usare gemme comuni (pietre dure) senza nemmeno lavorarle. Spero piaccia ^^
 
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view post Posted on 29/4/2015, 22:06
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Like a paper airplane


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Stavano bussando alla sua porta, ma lui non li sentiva. Chino in avanti sul tavolo, le dita sottili avvolte attorno alla propria creazione, ne ultimava i particolari. Totalmente assorto, non prestò la minima attenzione ai rumori che lo circondavano. Il suo giovane apprendista entrò, socchiudendosi timoroso la porta alle spalle. Conosceva bene l'ira del proprio maestro nel momento in cui veniva indebitamente interrotto.


Maestro...


Si fece avanti di qualche passo, esitante. In un altro giorno, uno dei brutti giorni in cui si annoiava senza idee, probabilmente lo avrebbe scacciato o ignorato. Ma quella era una mattina particolarmente lieta. Tracciando un grande arco con il braccio, gli allungò la mano sotto il naso.


Guarda”.


La sua soddisfazione era palpabile. Al centro del palmo, non più grande di un pugno, un piccolo volatile costruito di fili d'oro intrecciati. Lungo le ali, al posto degli occhi e sul becco, minuscoli frammenti di quarzo dorato, lo stesso che formava il profilo longilineo dell'armatura del suo creatore.


Maestro è...stupendo”.


Gli scivolò di fronte. Aveva ragione, quel ragazzino impacciato che mai sarebbe diventato un maestro. Quella creazione era stupenda, una delle migliori degli ultimi tempi. Il riflesso della sua magnificenza.


Stai a vedere”.


Schioccò le dita, tendendo l'altra mano verso l'alto. E il piccolo uccello frullò le ali d'oro, volandogli sulle dita e ritornando di nuovo immobile. Meraviglioso e senz'anima, incarnazione della perfezione. Tristemente non tutti, in quelle terre, erano così soavi e delicati. Non tutti cercavano la bellezza. Non tutti potevano permetterselo.


Vi siete superato, maestro”.


No, pensò. Per superarsi avrebbe dovuto spendere molte più energie. Ma faticare, sudare, umiliarsi non faceva parte delle sue ambizioni. La bellezza, nelle creazioni, non poteva e non doveva affaticarlo e consumarlo. La creatura non avrebbe mai dovuto superare il creatore. Era qualcosa che molti, in quel luogo, si stavano dimenticando.


Ma non sei qui per questo”.


Non era uno stupido. Guardò il proprio riflesso nel grande specchio di bronzo che ricopriva quasi un'intera parete. Ammirò la magnificenza della propria figura, troneggiante su quella dell'apprendista. Se fossero rimasti immobili avrebbero costituito un magnifico quadro. Ma nonostante questo non era uno stupido e nemmeno uno sciocco, come alcuni insinuavano. L'agitazione dell'altro, una frequenza disturbante al di sotto della sua consueta ammirazione, era palpabile.


È stato convocato il concilio, mio maestro, su richiesta di Fyrirliði".


Non vi era pelle dentro la sua armatura, e per questo gli piaceva. Nascondeva la brutale volgarità delle emozioni. Eppure in quel momento sarebbe certamente impallidito. Barcollò per un mezzo passo, reggendosi al banco di lavoro. Quel drago, per cui solo sua sorella nella famiglia avrebbe potuto provare stima, alla fine doveva avercela fatta. Anziché seguire la propria missione, doveva aver tentato il destino fino all'ultimo, e forse ne era perfino stato premiato.
Già poteva immaginare la soddisfazione di Solse, il modo in cui gli avrebbe rinfacciato di averlo sempre saputo. Riusciva quasi a sentirla, come gli accadeva sin dalla loro nascita, da quando erano sorti insieme dall'uovo, abbracciati come in una danza. Se solo lei fosse stata come lui, allora la loro sarebbe stata la comunione perfetta: una coppia, un maschio e una femmina dominati solo dalla ricerca della perfezione e non dalla volgarità dell'ambizione e del sentimento.
Ma lei, purtroppo, non era come lui. Nessuno nella sua famiglia lo era.
Uscì dalla porta, seguito dall'apprendista che non stava più degnando di attenzione. Il piccolo passero d'oro rimase sul tavolo, il becco spalancato in una smorfia di affamato stupore. I suoi passi, lunghi ed elastici, risuonarono nel corridoio.


Dove sono i miei fratelli?


La sua voce, tiepida e musicale, si era un poco indurita. E dire che quella gli era parsa un'ottima giornata. Evidentemente era destino che loro intervenissero per rovinargliela. Era stato così sin dalla nascita di Neska. Ricordava quel giorno come se fosse appena trascorso. Allora andava ancora d'accordo con Solse, e insieme volavano nel cielo, intrecciandosi come rami d'edera su una parete. Le loro evoluzioni, allora, erano solamente armonia. Per questo era stato ancora più grottesco il momento in cui si erano posati l'uno accanto all'altra, di fronte a quell'uovo apparentemente uguale a tutti gli altri.
Si aspettava ne uscisse un longilineo drago di quarzo, magari di qualche favolosa sfumatura di rosso. Dopo tutto il rosso era il colore che mancava nella loro famiglia. E invece ne era spuntato lui. Disgustoso. Troppo piccolo, troppo rumoroso, troppo imbranato per riuscire immediatamente a spiegare le ali. Un grumo di liquido amniotico e scaglie bluastre. Aveva storto la bocca, in quel momento, e aveva provato lo stesso fastidio che sentiva ora, fissando la sua figura in controluce, sporta dentro la finestra di casa.
Le si affiancò, reprimendo il desiderio di assumere la propria forma di drago e mettersi a confronto con quella sorella troppo piccola. Un sospiro frusciante scivolò fuori dall'armatura.


Andiamo. O arriveremo in ritardo”.





Edited by Majo_Anna - 29/4/2015, 23:30
 
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~ Creazione
Mjúkur

Ma cos'è questo calore che attraversa il mio corpo, che mi ridà forza, che mi solleva?
È forse la creta che modello, così sporca, umida. Così libera di formarsi sulla mia pelle glabra.
Non vedo confini che io non possa varcare con questi arti, non vedo muri che io non possa erigere con queste mani.
Ora comprendo a cosa anela il mio cuore, ora capisco.
Non guardo più indietro, non cerco il passato ma volgo il capo in avanti con ritrovata speranza.
Sotto la pioggia che ammorbidisce.
Col fiato che mi resta.


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Era rimasto immobile con le zampe artigliate protese a mezz'aria, il vaso ancora umido continuava a ruotare senza sosta sul torniello di pietra in delicate evoluzioni concentriche. La bocca di quel prodigio si apriva come un fievole bocciolo, frastagliata da onde sinuose, così raffinate ed eleganti, così leggere. Il collo era sottile, lungo, accompagnato da un ventre panciuto e rigonfio. Niente maniche, solo una minimale ed egualmente signorile parvenza. Mjúkur lo guardava soddisfatto e sbalordito allo stesso modo, come del resto faceva ogni volta che creava qualcosa di nuovo. Era incantato dalle meraviglie che riuscivano a plasmare le sue mani, e guardava ancora a quei monili con gli occhi innocenti e attoniti di un cucciolo. Lo sapeva, da quando aveva affondato le unghia sulla nuda terra macchiata di pioggia, ove le umide ombre coprivano il passaggio dei suoi simili. Da quando aveva vagito per la prima volta a quel cielo sconfinato. Da quando, supplicante e nudo come un verme, aveva strisciato nel fango abbracciando la terra. Mjúkur era nato da una famiglia votata ai preziosi. Suo padre, Gull, era un drago dalle scaglie dorate. Sua madre, Silfur, era devota al grigio argento. Entrambi erano grandi orefici della splendente Verkstæði e avrebbero aspirato al medesimo futuro per il loro unico figlio. Ma Mjúkur anelava a diventare un artigiano altro, capace di creare monili e edifici con le sue stesse zampe. Non avrebbe mai saggiato oro o argento, non avrebbe mai aspirato ai metalli più preziosi per forgiare gioielli o altre chincaglierie. A cosa servivano in fondo quegli inutili orpelli se poteva egli stesso portare su di sé un tocco della terra? Il giovane drago era predestinato a quella via sin da quando aveva sentito il pulsare frenetico del mondo scorrergli nelle vene e risalirgli da fin dentro le viscere. L'argilla era il suo centro, il suo intero creato.

L'aveva visto quel drago anziano, ergersi in mezzo alle montagne, trasportando il fango sul dorso - come quasi una tartaruga mastodontica-. E scavava. Fasci di muscoli ancora tonici protesi in uno sforzo immane, il muso contorto in smorfie di fatica. L'aveva visto e ne era rimasto affascinato, e lì aveva capito. Aveva capito che il cuore della terra non era legno, non era ferro, non era oro o diamante. Era quello stesso lordume che si portavano addosso baciando il suolo quando nascevano. Mjúkur era stato cacciato dalla sua famiglia, diseredato, abbandonato. E la sua unica colpa era quella di aver scelto un materiale poco nobile, a detta loro.

"Cosa mai potrebbe nascere di prezioso dall'argilla?"
Diceva suo padre.
"Questo è solo sporco bitume. Fradicio lezzo."
Diceva sua madre.

Da quando scaglie malleabili erano cresciute sul suo dorso ancora acerbo.

Adorava quel materiale, quella singolare sensazione di morbidezza e umido che gli lasciava sulla sua pelle sottile. Di giorno, quando l'astro più luminoso irradiava il cielo, l'argilla si seccava su tutto il suo corpo, indurendosi, e bastava solo un po' d'acqua per farla rinsavire, un getto di vita. Non gli importava di essere considerato umile, strano o sporco; la soddisfazione più grande gliela donavano le sue creazioni. Un po' erano statuette, vasi, suppellettili, utensili. Un po' erano grotte, caverne, case e alti monumenti. Era curioso in quali e disparate maniere poteva utilizzare quel suo materiale. Era versatile in ogni forma. Amava creare di sera, quando drappelli di tenebre coprivano la volta di quella città operosa. E non si acquietava il rumore di martelli e ogni altro tipo di utensile che veniva adoperato per plasmare il tutto. Di giorno e di notte Verkstæði era animata dal vivace brusio dei lavoratori indefessi, instancabili. Nonostante negli ultimi tempi qualcosa era cambiato. Tutti non fervevano di genio come prima, ma Mjúkur il molle non si era mai fermato. Aspirava sempre a qualcosa di meglio per le sue creazioni, sebbene venisse trattato con poco riguardo da molti dei suoi simili. Molle di corpo e di spirito, pensavano i suoi vecchi compagni. E in effetti lui non era mai stato un'anima ardita. Gracile di costituzione come di mente, la sua figura - ben più minuta di quella di molti altri - non spiccava di certo nella moltitudine dei suoi simili. La pelle era tesa, di un tenue azzurrino misto al marrone dell'argilla sulle sue scaglie, i grandi occhi nocciola perennemente socchiusi sia nella penombra che alla luce del sole, come se si spaventasse di chi avesse innanzi. Il muso era secco e allungato, aguzzo, i denti seghettati ma praticamente innocui. Non se ne era mai servito e mai, forse, lo avrebbe fatto. Camminava sempre tremolante e incerto, a volte spiegava le ali per percorrere le grandi distese di pianura o saggiare il cielo. Ma non era mai stato un gran planatore.

Dal padre aveva ereditato una vista ben poco sviluppata; sovente invero, si ritrovava a dover indossare lenti o altri artifici di questo tipo per compensare alla sua mancanza. Dalla madre aveva ricevuto il corpo snello e per nulla solido, ma di certo arti affusolati e utili a poter modellare qualsiasi cosa. Non amava molto farsi notare nella pletora dei più. Preferiva piuttosto stare in disparte, osservare e ascoltare, senza mai maturare una propria opinione, tanto che semmai capitasse gli avessero rivolto la parola, egli se ne sarebbe venuto fuori maldestramente, le parole sarebbero uscite spezzate dalle sue fauci e non sarebbe mai riuscito ad articolare qualcosa di giusto o anche solo sensato. Odiava questo suo lato. Ma in fondo si preferiva nettamente quando era solo nella sua officina, in mezzo ai suoi preziosi.

Così, quando giunse la chiamata dalle alte torri, egli si sentì impotente e inutile. Camminò per un tratto di strada, evitando di incrociare lo sguardo con i suoi simili o, peggio, con qualche membro della sua famiglia.

"C-cosa m-ai po-otrebbe nascere da...dall'a-argilla?"
Balbettò scimmiottando la voce di suo padre.
Una smorfia di disgusto si dipinse sul suo muso.

Avrebbe voluto rimanere in quel buco pieno di statuette dalle forme amorfe e vasi, e utensili che chiamava "casa", ma l'ossessione di fare qualcosa di buono per la terra, la sua terra, ebbe il sopravvento. Si affrettò a passo svelto verso il luogo della chiamata, e guardò in basso sorridendo lievemente.

Non c'era solo fango in quel suolo.

Mjúkur è un drago dalle scaglie di argilla, figlio di una famiglia di draghi "gioiellieri", diseredato e abbandonato da loro per la sua devozione a un materiale troppo poco nobile. Il resto lo lascio al testo. Divertiamoci!

 
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view post Posted on 30/4/2015, 09:23

Competitore
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«Entra pure blindur, ti aspettavo.» – il giovane drago esitò, come tutti del resto.
Véfrétt non era molto amato, nessuno amava chi era in grado di predirti la tua morte. Eppure Véfrétt non ci vedeva niente di tanto tremendo … La morte è inevitabile, tutto finisce, perché non sapere quando allora?
Il drago di ossidiana credeva fermamente che fosse cosa buona e giusta conoscere, in fondo erano artigiani, il loro compito era costruire, creare. Non è cosa dabbene lasciare un opera incompleta e sapendo il giorno esatto della dipartita una simile vergogna non si sarebbe mai realizzata.
«Non chiamarmi così! Io non sono cieco! » – sbottò il giovane drago di tormalina.
Evidentemente s’era offeso, ma Véfrétt non voleva offendere nessuno. Per lui era la verità, erano ciechi, si rifiutavano di vedere …
«Lo so hanno convocato un consiglio d’emergenza.» – la risata arrochita del drago più anziano riempì il laboratorio- «Credono che sia la meistaraverk di Maestro Fyrirliði la vera minaccia? No, siamo destinati a scomparire, ma non credo sarà la sua Opera a distruggerci.»
Il giovane drago di tormalina rabbrividì - «Siamo stanchi di te uccello del malugurio! Perché mai dovremmo scomparire?»
Véfrétt fece spallucce - «Non so perché, ma accadrà... Se solo voi non mi avesse ostacolato … se solo i miei esperimenti fossero giunti a compimento …»
«I tuoi esperimenti sono una oscena profanità!»
Il drago d’ossidiana si voltò lentamente - « Perché ti mostrano la verità? Perché ti raccontano il futuro? Un giorno noi scompariremo e le generazioni a venire desidereranno, uccideranno per una sola, singola scintilla del nostro potere … » – la mano coperta di scaglie nere e luminose indicò un lungo cero di ossidiana - « … io l’ho preservato. Ho congelato il cuore pulsante del nostro potere. L’ho donato ai posteri … Tu non sai, tu sei sciocco e cieco. Tu non hai visto. Io si e non posso dimenticare. Cosa sono una, dieci, cento vite sacrificate quando in palio c’è l’esistenza stessa di questo Mondo?»
Era disgustato, il giovane drago di tormalina, lo poteva sentire. «Verrò al vostro consiglio. Ma tanto nessuno ascolterà le mie parole. Il nostro fuoco si sta estinguendo. Presto brilleremo come una lanterna a cui non è rimasta che qualche goccia d’olio. Allora a cosa serviranno le tue belle collane? Forse, forse Maestro Fyrirliði ha trovato qualcosa in grado di perdurare, di cambiare le cose … » – Véfrétt si voltò di nuovo ad osservare le strane forme che si muovevano nella sua candela di vetro nero - «Forse il destino può essere cambiato … Ma non lo so, prima di dirlo devo studiare, osservare sapere. Vai via ora giovane blindur mi rubi tempo e non me ne rimane ormai molto …»
____________________________________________________________________________________________________

La fiamma della candela oscillò un poco verso sinistra come se una folata improvvisa l’avesse costretta a chinare il suo fiammeggiante capo; non accadeva quasi mai ma quelle rare volte in cui l’evento si verificava il drago d’onice poteva rivivere il suo passato. Tutti i draghi ricordavano, la loro memoria era qualcosa di leggendario. Riuscivano a far riaffiorare particolari infinitesimali del loro passato: potevano descriverti con esattezza le sfumature di colore prodotte dal riverbero del sole passato attraverso una pietra preziosa, sapevano con precisione quante nuvole erano passate nel cielo quell’esatto giorno …
Véfrétt, però, non ricordava non con la stessa nitidezza degli altri almeno. Il passato era per lui un confuso crogiuolo di eventi che si sovrapponevano, si mescolavano senza alcun filo logico, indefiniti, fumosi, incerti.
All’inizio aveva lottato, affondava gli artigli nel passato pur di non lasciarlo andare ma quello gli scorreva via dalle dita come acqua. Più il tempo passava meno riusciva a ricordare, finchè un giorno tutto quello che gli era rimasto era un’ accozzaglia di pensieri, sensazioni ed emozioni. Cercare di estrarre un singolo ricordo era come affondare in un melma viscida, uno sforzo vano da cui usciva estenuato, deluso, sporco.
Quella volta, però, la fiammella della sua candela di vetro nero si era piegata verso sinistra. Poteva ricordare, per poco, pochissimo tempo. Poi avrebbe di nuovo dimenticato, sarebbero passati giorni e tutto sarebbe di nuovo precipitato nell’oblio ma a lui bastava.
«Osserva!» – gli diceva il suo maestro con la voce tremula dei vecchi - «Vedi come il materiale assorbe la luce?»
Chiamava l’ossidiana il materiale ma quando la maneggiava i suoi gesti erano affettuosi e dolci come quelli di una madre verso il figlio. Era vecchio il suo maestro, vecchio e stanco di vivere ma creare riusciva ancora ad accendere una fiammella di vita in quelle scaglie rese opache dai secoli.
«Quando ero giovane, quando avevamo il coraggio di osare usavamo la magia per creare. Il materiale ha la capacità di assorbirla, la beve come la terra arida fa con l’acqua. »
Arrancò affaticandosi verso uno stipo da cui ne trasse una meravigliosa collana fatta da centinaia perfetti grani di vetro nero. «Centotrentadue …» – disse mentre gli occhi vagavano in universi sconosciuti ad altri se non a lui. «Centotrentadue ultimi respiri, racchiusi in una crisalide fragile, bellissima …» – il vecchio scosse il capo - «Ma senza candele a che servono? Nessuno può risvegliare il loro fuoco. Rimarranno qui, congelate e immobili. Fredde e tristi come la morte. »
Il suo maestro gli aveva parlato molte altre volte dei ceri d’ossidiana e del grande sacrificio che richiedeva crearli. Innanzitutto il materiale doveva essere lavorato per giorni e giorni, la superficie doveva essere liscia, perfetta. Il respiro infuocato doveva accarezzare il vetro nero che andava poi attorcigliato mentre era incandescente e malleabile come cera. Nel mentre andavano recitati incantesimi antichi, lunghe parole dimenticate. Un solo errore e il lavoro di anni era perduto. Ma il prezzo più amaro andava pagato alla fine, al momento dell’accensione. Solo una vita, solo l’anima di un drago poteva dar luogo alla scintilla primigenia che avrebbe dato luce a quell’opera d’arte delicata e misteriosa. Solo allora quell’esile certo di vetro nero avrebbe potuto squarciare le tenebre del futuro, conservare intonso il potere di quell’anima oltre i secoli …
«C’erano dei coraggiosi un tempo, dei nobili martiri che si sarebbero sacrificati per accendere la fiamma della speranza … » – andava dicendo il vecchio.
Véfrétt aveva bevuto quei mormorii per anni continuando ad apprendere da suo insegnante come costruire inutili orpelli. Ogni giorno si svegliava, si recava nell’officina con la speranza che il vecchio drago gli insegnasse a costruire uno dei mirabolanti artefatti di cui parlava sempre.
«A che servirebbe? » – gli diceva -«Nessuno più costruisce candele. »
Così i giorni passavano e Véfrétt forgiava preziose figure di ossidiana che andavano ad adornare amuleti, bracciali, collane, anelli. A volte le sue creazioni impreziosivano l’elsa di qualche spada che però andava sempre a finire in un baule ad impolverarsi. Erano artigiani, loro, non combattevano guerre.
In segreto, però, alla luce fioca di una candela il drago di vetro nero studiava. Quand’ebbe finito di studiare iniziò a creare. Dormiva poche ore, era sempre più stanco ma non si lamentava. Un giorno, si diceva, avrebbe mostrato la sua opera d’arte al maestro e l’avrebbe risvegliato dalla sua apatia di vecchio blaterante. Quel giorno giunse.
Avvolta in face di seta la sua opera attendeva che il maestro arrivasse, in ritardo come ogni mattina.
«Maestro devo mostrarti una cosa …» – disse Véfrétt mentre gli occhi splendevano d’orgoglio. Il vecchio ridacchio con la sua vocetta tisica - «Hai creato tutto da solo? Bene, bene hai intraprendenza.» – Non era la prima volta che Véfrétt creava senza il suo aiuto. A dirla tutta il vecchio non lavorava quasi più … Le sue mani tremavano, il suo fiato non avrebbe potuto riscaldare nemmeno una tazza d’acqua. - «Coraggio vieni alla luce così questi poveri vecchi occhi potranno vedere. Sono sicuro che sarà un ottimo lavoro, sei quasi un maestro ora. Quasi meglio di me ..»
Quando le bende di seta vennero rimosse lo sguardo acquoso del vecchio si congelò. Fu un attimo, un illusorio, breve attimo, che però infuse speranza nel giovane artigiano che Véfrétt era ai tempi.
- «E’-è … meravigliosa.» –sussurrò la voce gracchiante e graffiata del vecchio - «L’hai fatta tu? Certo che si! Oh antenati certo che si!»
Quasi piangeva. Véfrétt non amava veder piangere la gente, lo metteva a disagio ma per quella volta fu’ quasi felice. Il maestro non si commuoveva da anni, era diventato fragile ed arido come argilla lasciata troppo a cuocere in un forno. - «Ma…
Quella singola parole fu sufficiente. Il suo mondo si infranse. Non aveva bisogno di sentire come avrebbe proseguito. Sapeva già cosa avrebbe detto … Le sue speranze si raffreddarono più rapidamente della cenere vecchia. - «... non esiste più nessuno di abbastanza coraggioso, di sufficientemente generoso. Mettila via figliolo, vieni, oggi ti insegnerò come cesellare il materiale»
Non aveva mai provato tanta rabbia, tanto rancore. Bruciava, oh se bruciava. Senza rendersene conto i suoi occhi presero a lacrimare. Era sempre stato mite Véfrétt, mite e rispettoso ma quel giorno …
«NO!» – urlò con tanta forza da far arretrare spaventato il vecchio maestro - «TU! PAVIDO, VECCHIO CODARDO! »
Il maestro blaterò qualcosa, qualcosa che non riusciva nemmeno a ricordare. L’ultima scena che vide era quella della lunga candela d’ossidiana che penetrava nel petto tremante del maestro. Il fragile vecchio emise un rantolo soffocato. Luce iniziò a pulsare dietro la trasparente crisalide antropomorfa. Luce che la candela bevve con avidità. Quando ritrasse la candela dal petto, l’ossidiana bruciava.
Ovunque le creazioni antiche di secoli ripresero vita. Nessuno se ne accorse, nessuno si accorse di ciò che era successo. Véfrétt rimase nel laboratorio per giorni a scrutare le immagini che danzavano nel fuoco senza che una solita anima sapesse della tragedia appena consumata.
Quando finalmente fu’ pronto, quando ebbe accumulato sufficiente coraggio, si presentò ai suoi simili.
Spiegò dettagliatamente l’accaduto, spiegò quanto generoso fosse stato il maestro, spiegò quali vantaggi tutti avrebbero potuto raccogliere da quel sacrificio. Lo guardarono come si guarda un verme. Lo maledissero, lo scacciarono, lo esiliarono per anni ma nessuno osò spegnere la candela. Era troppo preziosa.
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«Ipocriti e codardi» – disse tra se e se il drago d’ossidiana mentre la fiammella si raddrizzava riportando la sua mente nel presente - «…ma non è colpa loro. Sono ciechi. Loro non hanno visto, loro non sanno.».


Note: Ho voluto sfruttare l'opportunità concessaci da Yu per scrivere a briglia sciolta. Spero che le finalità del post siano state raggiunte.



 
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Shervaar
view post Posted on 30/4/2015, 15:00







Destino infausto quello dei kvikasilfur, draghi di Mercurio, o come i più preferivano definirli gerfisilvur, fintargento, o eitruðsilfur, velenargento.

...

<< Fyrirliði ha convocato un consiglio d’emergenza alla Gola Nera, ti attendono >>

Le parole giunsero inaspettate alle orecchie del drago, sovrastando per un attimo l’armonico sciabordio generato dall’immenso rettile che ormai da ore nuotava immerso nel suo elemento disegnando motivi circolari. La consapevolezza di aver sottovalutato il problema lo fulminò, un onda spezzata si propagò, nota dissonante nel disegno che le creste d'onda disegnavano sulla superficie del metallo, quando Sveigj sbuffò, aprendo di scatto gli occhi.
Aveva sottovalutato quel pazzo di Fyrirliði.
Con un unico deciso colpo d’ali risalì in superficie avvicinandosi alla riva e con un paio di passi usci dall’enorme lago di metallo liquido. Mentre il Mercurio gli scivolava dalla pelle la sua voce fredda, ma sottile e avvolgente, rispose alla chiamata: le sue parole si propagarono nella caverna rimpiendone per un attimo ogni anfratto, ogni piccola fessura, per poi scivolare via senza lasciare traccia del proprio passaggio.

<< Contieni la notizia finché puoi, che nessuno sappia che il folle è riuscito nel suo intento >>
Perché quello doveva essere l’unico motivo per convocare un consiglio d’emergenza.
<< Andrò >> sentenziò alla fine.

Quel pazzia andava fermata, o con ogni probabilità sarebbe stata la fine per la sue stirpe.

...

Sveigj atterrò con leggerezza nella piazza antistante la Gola Nera, senza un rumore, senza un sibilo, come se il suo corpo non avesse peso. In un attimo aveva abbandonato la sua forma draonica sotto lo sguardo sbigottito di molti, muovendosi con fluidità verso l'ingresso della sala del consiglio. Fluidità era il temine gusto, perché fluido era il suo corpo umanoide, destinato ad una esistenza a metà tra il liquido e il solido e di un color argenteo dai bianchi riflessi. Lucida come specchio, sulla sua metallica pelle le immagini del mondo circostante si riflettevano slabbrate e distorte, evidenziando una regnatela di vortici e correnti, un infinito ed armonico rimestarsi.
L’involucro temporaneo per la sua anima racchiudeva in se tutta l’essenza del suo elemento ed il drago dalle squame di Mercurio indossava fiero questa sua seconda pelle che si era scelto attentamente e con orgoglio perché gli altri sapessero e capissero chi avevano di fronte.
La loro diffidenza, la loro paura, il loro odio non facevano che donargli sicurezza, in pochi ricordavano cosa significasse per uno della sua natura arrivare in età adulta sano nel corpo e nella mente, quanto forti bisognasse essere per poter convivere e sopravvivere alla propria essenza, un incurabile veleno.

Metallo unico al mondo, il Mercurio, l’unico conosciuto alla scienza a non essere solido a temperatura ambiente: gode di proprietà fisiche senza paragone per questa sua particolarità, particolarità che però in molti considerano una mancanza. Non si può infatti plasmare un liquido, non si costruiscono spade ne statue con un metallo che non ha una forma propria ed è per questo che con leggerezza l’argento vivo, il Mercurio, era bollato da sempre come debole, impuro, indegno ma soprattuto letale.
Perché si, il Mercurio, in ogni sua forma pura, è un veleno come altri non se ne conoscono.
Si deposita sui tessuti lentamente e subdolamente, penetrando invisibile nel corpo per ingestione, via aerea o assorbimento dalla pelle. Muscoli, polmoni e cervello...tutto finisce per collassare sotto la morza del metallo liquido, praticamente irrimovibile una volta in circolo. Pochi grammi di argento vivo, anche in lunghi lassi di tempo, e l’intossicazione è irreparabile; la morte allora non è altro che una lenta e straziante agonia. Deficit motori e intelletivi trascinano la vittima in un vortice di debolezza e follia: prima spasmi e sensi offuscati, poi progressiva perdita della cordinazione e della lucidità, nel triste finale deliri e quasi totale incapacità motoria.
Ne aveva visti molti, Sveigj, di suoi compagni finire in quel modo orribile. Draghi che ormai vecchi e stanchi aveano perso la ferrea presa sulla loro natura e avevano terminato la loro esistenza dimenticati tra bui cunicoli, storpi e deliranti, letalmente avvelenati dal loro stesso metallo. La maledizione dei kvikasilfur era proprio il Mercurio di cui sono i signori. Ben pochi cuccioli, solo i più forti, sopravvivevano ai primi mesi di vita sani nel corpo e nella mente, e ancora meno, provati dopo centinaia di anni di lotta per la sopravvivenza, riuscivano ancora a tener testa al loro elemento in età adulta.
Dei questi rari e ultimi sopravvissuti poi quasi nessuno nella storia della loro stirpe poteva vantare un posto nel Consiglio della Gola Nera.

Con orgoglio Sveigj passò sotto uno degli ampi archi che dava sull’anticamera della sala del consiglio; molti sguardi inncreduli, altri curiosi. Non molti dei presenti potevano dire di aver visto prima in giro l’argentea figura umanoide, tra questi probabilmente alcuni non avevano mai visto un drago di Mercurio in carne ed ossa. Relegati ai margini della società, quelli come lui erano costretti a vivere in fredde caverne sotterranee al riparo da luce e fonti di calore e lontano da sguardi inquisitori degli altri draghi, giustamente terrorizzati all’idea di essere avvelenati. Un’esistenza nell’ombra a combattere contro un nemico invincibile che se non tenuto sotto costante e ferrea presa finiva per avvelenare o il drago stesso, penetrando nella sua pelle, o i suoi compagni, liberandosi nell’aria come letali ed invisibili vapori.
Non c’è allora da stupirsi che chi come Sveigj riuscisse a sopravvivere a quella vita di stenti portasse con orgoglio il marchio del proprio elemento, sottavalutato e rinnegato simbolo di una forza e volontà che ben pochi potevano vantare, o anche solo immaginare.

La chiamata al Gola Nera lo aveva colto di sorpresa, ma non una di quelle sorprese gradite.
Se quel folle allora ci era riuscito, quello non era che l’inizio della fine per quelli come lui. Tanti, troppi dei suoi avevano bramato il potere della vita per poter donare al loro liquido metallo una coscienza, nella vana speranza che questo guadagnasse la capacità di sopravvivere solido, così come i draghi controllavano le proprie scaglie obbligando il mercurio ad una forma amorfa a metà tra il liquido e il solido.
Stolti, frustrati, convinti di non essere degni di appartenere a quel popolo di creatori. Questi non riuscivano a capire che l’unica grande opera che potevano e dovevano creare e curare erano le scaglie stesse che componevano la loro pelle, per poter controllare e così sopravvivere al veleno che li accompagnava sin dalla nascita. Era il fatto stesso di essere sopravvissuti che rendeva loro un'opera d’arte da esporre al mondo, fulgido esempio di tenacia e ferrea volontà.
Inutile andare contra l’essenza stessa del Mercurio, che pure se solido a temperature follemente basse rimane morbido come il burro; inutile provare a dominarlo in forme plastiche da esporre alla luce del sole quand’esso per sua natura è freddo e fuggitivo, sempre inquieto, capace di rimanere a vorticare armonicamente per ore se minimamente sollecitato. Perché relegarlo in un unica forma finita quando esso vanta una fluidità unica al mondo, mobile e scorrevole per adattarsi ad ogni possibile e mutevole forma?
Qualsiasi cosa avessero provato i kvikasilfur a plasmare donandogli un barlume di conoscenza sarebbe presto o tardi finito per diventare un velenoso serbatoio ambulante di incontrollato Mercurio. E quanto ci avrebbero messo allora gli altri draghi a sterminare quella famiglia di folli creatori che stavano tentanto di avvelenare tutta la specie con il loro elemento malato?

Qualunque cosa fosse successa quel giorno Sveigj già sapeva che avrebbe osteggiato quella follia con tutte le sue forze, al costo di dover subdolamente eliminare chiunque fosse coinvolto in quella faccenda. Si maledisse per non aver agito per tempo, convinto che l’impresa di plasmare la vita fosse impossibile, e giurò a se stesso che avrebbe rimediato al proprio errore.


Olè.

Prima cosa qualche traduzione è d'obbligo.

kvikasilfur = Mercurio, dove kvika= dinamico e silfur (letto silvur) = Argento, segue che gerfisilfur = argento finto e eitruðsilfur = argento tossico
sveigj = flessibile, duttile, adattabile (e si dovrebbe leggere solo Svei)

Immaginate la forma umanoide un po' come Silversurfer.

Mi sono forse un po' troppo dilungato sul contorno ma la cosa era d'obbligo per inquadrare bene in che ambiente Sveigj si muova e da dove venga la sua determinazione. Le proprietà del suo metallo sono anche le sue, cosa che conto di far emergere bene già dal prossimo giro.

Per il resto è palese che farà il possibile per fermare questo scoperta.

Spero piaccia l'idea, a voi!


Edited by Shervaar - 1/5/2015, 20:40
 
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dra31
view post Posted on 30/4/2015, 20:38




Grida dal cielo ~ Creazione - I
Verkstæði

Rauðvín Eirgrænn, il Verderame

Il boato di un'esplosione spezza la quiete che domina l'area limitrofa l'articolato complesso di guglie, uno dei tanti presenti nella grande Verkstæði. Una nuvola di polvere e fumo scuro esce con forza da una una delle larghe fessure che si aprono nella torre più bassa dell'agglomerato, perdendo volume e colore man mano che il tempo passa. Quando il fumo si riduce ad un filamento grigiastro, una massiccia figura emerge dalla penombra dell'ampia apertura, poggiando i pesanti arti sull'aggetto che sbalza dalla parete.
La luce del giorno si riflette sulla ruvida superficie dai colori rossastri, facendo brillare di una tonalità verdastra le varie pieghe sparse qua e là nel lungo e grosso corpo del drago. La tozza testa dalle forme allungate viene scossa facendo cadere della polvere dalle corte escrescenze che adornano il capo rossastro. Lo scuotimento interessa poi tutto il pesante corpo e la tondeggiante e corta coda, liberando piccole nuvole di polvere nell'atto. Terminata la sommaria pulizia, una lunga e flessibile lingua saetta nervosa assaggiando l'aria.

Ancora una volta si era trovato con un nulla di fatto. Eirgrænn osserva il cielo e apre svogliato le fauci, in un lungo e sonoro sbadiglio. Sono passati tre giorni dall'ultima volta che è uscito all'aria aperta, chiuso all'interno della propria officina e immerso in strambi progetti. Nell'ultimo periodo, la ricerca di nuovi stimoli e la curiosità del robusto drago lo hanno provato a sperimentare un nuovo approccio su una vecchia teoria che gli aveva fatto abbassare la già scarsa stima dell'intera famiglia nei suoi confronti. Già, non gli è bastato nascere con un corpo inadatto ai movimenti aggraziati e precisi necessari per la cesellatura, l'antica tradizione della famiglia, ma deve anche possedere e alimentare uno spirito ribelle con le sue idee bislacche. Per questo e per infiniti altri motivi ormai nessuno della sua gente lo chiama con il suo vero nome. Eirgrænn, il Verderame, come il colore che acquisiva quel metallo duttile dai riflessi del tramonto quando veniva abbandonato all'incuria. Uno scarto, insomma.

Poco più in basso, ad un giro circa della lunga spirale che risale la bassa torre -una modifica fatta dallo stesso Eirgrænn per agevolare i suoi spostamenti nella sua piccola guglia, data la sua goffa mole- un drago richiama la sua attenzione con vigore. Il pesante fabbro sporge il capo dal bordo della piattaforma e lo saluta.

Rauðvín, Fyrirliði ha appena convocato un raduno.
Non erano molti, di quelli che lo conoscevano, che normalmente lo chiamavano con il nome reale. Quando capita, però, c'è sempre un motivo dietro.
Cosa cerca da Eirgrænn?
Sembra che sia arrivato ad un risultato.
Un risultato? Erano mesi che non si aveva notizie del drago di diamante e della sua idea. Eirgrænn volge per un attimo lo sguardo verso la sua officina e i resti del suo ultimo e inconcludente esperimento.
Avrà l'attenzione di Eirgrænn, allora.

Il messaggero annuisce e ridiscende la rampa, mentre il grosso drago rientra nella sua officina per riordinare idee e materiali, prima di avvicinarsi alla Gola Nera.
Al riparo dell'ombra dell'ampia stanza, il drago raccoglie con l'agile lingua i vari rottami sparsi ovunque in seguito all'esplosione. Pezzi di rame contorti dal calore e dalla pressione e lamine sottili come veli vengono accatasti in un angolo del laboratorio, non distanti da quel che resta di un macchinario.

La lingua saggia il liquido che cola dal contenitore squarciato della macchina, ne percepisce la temperatura e la annota nella mente. Non è quella ipotizzata, è inferiore di parecchi gradi ma non si spiega come mai la macchina sia esplosa. Rivede mentalmente l'intero progetto e vari dettagli; la macchina a vapore è ancora lungi dall'essere perfetta.
Forse osservando il lavoro di Fyrirliði, Eirgrænn è convinto di avvicinarsi alla soluzione.

È così, il pesante Eirgrænn: testardo e irremovibile quando si tratta delle proprie idee e opere, conciliante e aperto quando si parla delle invenzioni e dei lavori altrui. Non ha mai nascosto di essere avido di conoscenza, di cercare nei successi degli altri draghi i suggerimenti e le accortezze da utilizzare per i propri scopi, ripagando gli altri con le proprie opinioni e le proprie idee. Forse è anche per questo motivo che la famiglia di Eirgrænn l'ha quasi rinnegato nel tempo, gelosi delle proprie tradizioni e dei propri processi.

png


Note:
Non è proprio la migliore delle presentazioni ma con questo post s'introduce Rauðvín Eirgrænn, il Verderame, un drago di rame molto simile a questo modello con la passione e l'interesse per le macchine a vapore. Con scarsi risultati. Per il resto, speriamo che se la cavi.

Ogni cosa nuova trova contraddizione
Rauðvín Eirgrænn

 
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view post Posted on 1/5/2015, 11:10

Lamer
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Ombre, solo ombre in quella foresta dove si era appostato,e lapidi, lapidi di draghi vissuti prima di lui, di leggendarie entità che in comune possedevano ciò che lo aveva spinto fino a quella maledettissima foresta; le ossa.

Blóð guardava quelle verdi foglie pensando già al biancastro splendore dello scheletro di quei morti che ben presto sarebbero entrati a far parte dell'ultima sua opera d'arte; la torre d'ossa. Per fabbricarla era partito dall'usare i resti di alcuni animali dalla struttura robusta per fare la base, fino ad arrivare alla cima. Ora mancava solo una cosa, la sala principale e per farla aveva deciso di rubare qualche ossa a quei reietti sepolti a miglia di distanza.

"Tanto loro non se ne fanno un cazzo delle loro ossa." Lo disse mentre camminava verso la prima lapide. " E gli altri non possono rompermi le palle che sono della mia stessa stirpe, tanto sono reietti, quindi non appartengono al nostro popolo questi sfigati."

Non sapeva perchè, ma parlare da solo lo rendeva sereno, come anche il fatto di stare in quella forma sublime. L'armatura ossea che lo circondava era magnifica ed inquietante allo stesso tempo. I vari arti erano ricoperti da placche lucenti e dure quanto i metalli come il ferro e l'acciaio, il busto avvolto in un armatura perfettamente definita e con un teschio con un sorriso malefico e inquietante incastonato all'altezza del torace e infine l'elmo magnifico che sembrava ancora sanguinare dalla separazione dell'osso dalla carne viva fatta per ottenere quel materiale di cui si era innamorato.

Era quasi ossessionato da quella biancastra risorsa infinita ed eterna come la morte e ciò che stava facendo di sicuro non confutava quello che sempre aveva pensato. In fondo addirittura lui capiva che la sua pazzia derivava dal materiale che lavorava così finemente da arrivare a competere con i diamanti in bellezza e in durezza.

Con il suo amore e attraverso esso costruiva collane, gioielli, arredamenti e sopratutto armi e armature così splendenti da ricordare i ghiacci delle montagne a Sud e così letali da ricordare la forza del suo creatore. Una forza che nasceva dalla suggestione che imponeva e dal fatto che la sua abilità rendesse quelle armi affilate come poche cose al mondo.

Fu a quel punto che un rumore lo allertò e velocemente scattò a fianco mentre una strana belva tentò di attaccarlo. Subito Blóð osservò la sua vittima. Ottima muscolatura, qualche escrezione ossea di pregevole forma e una struttura che suggeriva delle ottime materie prime.

"Ciao bello, sei pronto a conoscere la morte e a diventare una mia opera? Puttanella non mi rispondi?"

La risposta arrivò ma il ruggito della belva non gli fece nessuna paura e anzi uno sguardo folle apparve tra le fessure dell'elmo osseo mentre estraendo un'ascia bipenne si preparava a colpire precisamente all'altezza della nuca. Quando caricò infatti grazie alla sua velocità e mira non sbagliò il colpo.

Degli schizzi di sangue lo ricoprirono totalmente mentre il capo di quell'animale cadeva a terra con un rumore tonfo e creando una macchia di sangue rosso intenso davanti ai suoi piedi e rotolando per qualche metro lontano dal corpo. Solo quel momento, quello in cui la vita fuoriusciva dal corpo della sventurata vittima, lo mandava in estasi come il momento della perfezione al completamento delle sue epiche opere.

Lentamente leccò il sangue sull'ascia assaporandone il sapore ferroso e guardando il bellissimo spettacolo che la luce della luna creava illuminando le pozze di sangue che lentamente si ingrandivano. Si, era per quello che andava a caccia di notte e per ora avrebbe dovuto rinunciare all'idea di prendere le ossa dei suoi antenati.

"è la duemiladuecentonovantottesima volta che vengo qua, e sono duemiladuecenttonovantotto volte che rinuncio per vari motivi." Velocemente si caricò la vittima sulle spalle diventando velocemente un drago blu intenso ricoperto di una corazza d'ossa. " Inizio a pensare che non riesco ad infrangere più la legge."

Solo quelle parole però gli fecero ricordare che l'indomani sarebbe dovuto andare alla Gola Nera per un qualcosa che sinceramente non si ricordava. Di solito quando era circondato da altri draghi, nonostante all'impressione potesse apparire un folle chi lo conosceva sapeva perfettamente che semplicemente era un'artista e alcuni dei suoi amici più cari addirittura lo definivano il migliore artigiano delle ossa mai esistito.

"Si, io sono il migliore, non ci son dubbi ahahahah."

Folle ma educato, letale ma gentile, Blóð era uno dei più particolari abitanti del regno, forse l'unico così amante del sangue ed il suo nome richiamava costantemente quel materiale poichè il significato del suo nome era sangue. Era ammaliato e legato ad esso così intensamente che probabilmente era un miracolo che non avesse ancora tentato di uccidere un'altro della sua specie nonostante lui continuava a ripetersi che non avrebbe mai osato tanto.

"é ora di tornare a casa e con la tua carne cara bestia mi delizierò il palato mentre con le tue ossa credo proprio che creerò un'altra ascia bipenne."

E subito l'idea e la forma gli vennero in mente. Più leggera e più affilata, con lame più grosse e un bastone più lungo ma sottile per caricare meglio il colpo e per far esplodere la vittima in urli straziati mentre il liquido delizioso rosso cremisi inizia a scendere sulla cute lacerata ed infine il cuore si ferma mentre l'arma decapita la vittima.

Si, quanto avrebbe voluto farlo ogni secondo di ogni giorno, ma purtroppo non lo avrebbero compreso se si fosse palesato così tanto attratto verso il sangue. No, lui doveva agire nell'ombra, aveva solo la notte per gustare quei momenti e goderne fino in fondo senza pressioni.

Ossa e sangue. aveva dedicato a loro quell'esistenza poichè è nel sangue e nelle ossa che l'anima di qualcuno continua a vivere anche dopo la morte e lui le lavorava per rendergli forme eterne e magnifiche e per alcune privilegiate ossa anche letali.

Arrivò circa quattro ore prima dell'alba nella sua casa ai margini della capitale e appena capì che nessuno lo stava osservando si ritrasformò nell'essenza racchiusa nell'armatura mostrando alla sua casa la preda appena catturata.

"Ci aspetta una lunga e bellissima notte, macchiata dal rosso del sangue e abbellita dal bianco delle ossa"

A quel punto si asciugò la bocca ancora sporca del sangue della belva ed entrò iniziando a lavorare. Il giorno dopo, quando uscì dal laboratorio al fianco portava una nuova ascia dalle fattezze sublimi e dallo stile inconfondibile che incideva su quell'opera bellica il suo nome.

Velocemente il drago si mosse verso Gola Nera fermandosi dove tutti gli altri stavano aspettando. Immediatamente incrociò lo sguardo con alcuni di loro notando la solita occhiataccia data dal sospetto e l'odio per uno così diverso come lui. Quelli come loro potevano andare a farsi fottere da qualche animale dal cazzo immenso. Quelli erano i motivi per cui a volte desiderava con tutto se stesso le ossa di un drago per poter squartare quelli come loro e vederli soffrire come puttane. nessuno sarebbe stato alla sua altezza, si, si sarebbe migliorato sempre di più nella sua arte per poi eclissarli con la sua magnificenza e infine ucciderli come le ultime delle bestie.





spero vi piaccia il mio drago ahahaha. Spero vi sia piaciuto il testo.
 
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Palantír
view post Posted on 1/5/2015, 12:45




Poco a nord della bella Verkstæði vi era una montagna altissima. Gli Höfundum, i Creatori che abitavano nella città non avevano dapprima dato nome ad essa, essendo la loro un’epoca in cui contava più il senso intrinseco della realtà che non un grumo di lettere che ne individuasse le componenti.
Non era una montagna come le altre, prossime o remote rispetto alla città. Era qualcosa di vivo e pulsante, con un cuore segreto di puro fuoco liquido. Nella roccia dei fianchi si aprivano lunghe e profonde crepe entro le quali crescevano arbusti contorti e spinosi, resi perennemente secchi dai vapori bollenti che esalavano dal fondo delle fenditure. La montagna respirava.
La sommità del monte si elevava fino a circondarsi di un’eterna coltre di nubi, dalla quale di quando in quando si spandevano bagliori rossastri. La cima era la parte più vicina al cuore: risentiva dei suoi umori e dei suoi stati d’animo, e ne rispondeva con rombi minacciosi o borbottii divertiti. La montagna provava emozioni.
Capitavano anche i giorni in cui la montagna era travolta per motivi oscuri da una rabbia inarrestabile, e sentiva l’irrefrenabile urgenza di palesare il proprio potere. Era allora che il silenzio del mondo veniva sconvolto da un boato, e i cieli oscurati da una nuvola di cenere densa e spessa, mentre sugli scoscesi fianchi rocciosi si riversavano cascate di fuoco liquido, sangue della terra. Riparata dalla cenere da Azoth, perpetuo vento benefico che portava lontano i miasmi, e protetta dalle impenetrabili barriere di roccia ed adamantio che i Draghi avevano eretto nel corso dei secoli per deviare le colate, Verkstæði non poteva che assistere sgomenta a tali fenomeni, portatrici di morte per tutta la vegetazione circostante. La montagna uccideva. E fu per questo che con il passare dei secoli gli Höfundum avevano cominciato a chiamarla Skemmdarvargur, la Distruttrice.
Ma vi era un drago che non la pensava così. Come poteva esservi morte nel fuoco se da ogni incendio scendeva cenere nuova a fertilizzare il terreno per i semi del futuro? Come poteva esservi distruzione nel magma se ogni roccia impura veniva fusa per portare allo scoperto cristalli e gemme di inusitata purezza?
Quel drago, non pago di baloccarsi nel plasmare feticci e ninnoli fra i suoi artigli, venerava il fuoco segreto del mondo come il più grande demiurgo, colui che riusciva laddove tutti i Creatori fino a quel momento avevano fallito: creare la vita.
Eldingar era il suo nome.

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Gli innumerevoli anni che la sua vita aveva attraversato non ne avevano fiaccato l’animo ardente e costantemente divorato dalla smania di cambiamento. Il suo corpo era rivestito di cristalli appuntiti di zolfo; essi si incrinavano e spezzavano con un crocchiare inquietante a ogni suo movimento per poi ricrescere in geometrie sempre più convolute e irreali, allegoria essi stessi del divenire, della necessità della consunzione per una sublimazione.
Attratto dalla montagna di fuoco più che dalle fucine della città, il Drago di Zolfo aveva sorvolato mille e mille volte i suoi fianchi rocciosi, e ora ne conosceva ogni anfratto, ogni cunicolo e ogni cambiamento che la lava vi aveva apportato nel tempo. Non era raro che sparisse da Verkstæði per giorni interi, ragione per cui gli altri Höfundum avevano cominciato a denigrarlo come indolente ed eccentrico. Ma Eldingar non era così. Aveva solo delle idee che il resto dei Creatori difficilmente avrebbe compreso.
Da tempo aveva scoperto, tramite un pertugio ben celato, il cuore nascosto della Skemmdarvargur, una gigantesca camera sferica dalle pareti scintillanti dei cristalli più puri e il fondo sommerso da un lago di magma, e da allora l’aveva eletto a suo rifugio segreto. Aveva trovato per esso un nuovo nome, Lykju, che nella sua lingua significava “ampolla”: esso era per lui il ventre della vita e il contenitore perfetto in cui poter ammirare da vicino il prodigio della trasmutazione della materia, e insieme ad essa tanti altri artifici che l’arte dei Draghi ancora non era riuscita a conquistare; mistero della distruzione che diventa sublimazione, e dunque forma più alta di creazione.
Oh, le magnifiche sorti e progressive della cara Verkstæði! Gli altri Creatori credevano di aver inventato tutto ormai, e languivano prigionieri di una crisi d’immaginazione da cui non potevano o forse non volevano uscire. Aveva da lungo tempo provato a scuoterli, a mostrare loro le meraviglie del fuoco segreto, ma essi lo ascoltavano e non sentivano, lo guardavano e non vedevano. Folle l’avevano chiamato, e si erano girati dall’altra parte. Il fuoco dei fabbri è nostro amico, non quello della terra, che consuma senza controllo ogni cosa! Tali i rimproveri che gli muovevano gli anziani, e di cui egli ormai non si curava più. Solo la sua sposa Vatn e il figlio che da lei aveva avuto, Alum, erano rimasti al suo fianco.
E fu proprio Alum che cercò suo padre per portargli la notizia del concilio indetto da Fyrirliði, per quanto gli altri draghi avessero provato a dissuaderlo. Il giovane drago, già noto nella città per la sua benevolenza e per la sua abilità nella scultura delle statue di sale, volò intorno alla Skemmdarvargur per tre giorni e tre notti prima di trovare il cunicolo segreto. Poi lo attraversò senza indugio, lasciando una scia di candidi cristalli mentre le ali già da adulto strofinavano contro le asperità rocciose della galleria buia e bollente.

« Padre! Devi venire con me, Fyrirliði… »

Sfinito dal caldo e la fatica, il drago di sale santolò e si accasciò all’entrata, ansante, le stalagmiti di cristallo che gli sovrastavano le tempie a mò di creste e corna che si alzavano e abbassavano al ritmo del suo respiro. Chino a scrutare vaghi riflessi nel magma ribollente, per nulla infastidito dall’aria ardente al contrario del figlio, Eldingar tirò su il capo di scatto. Il bagliore rosso del magma si riflettè nel giallo dello zolfo, lanciando bagliori che si moltiplicarono sulle gemme che incrostavano le pareti.

« Sconsiderato! » tuonò, « perché sei venuto qui?
Non lo sai che nessuno a parte me può sopportare il calore della montagna?
»

Provava più rabbia per l’avventatezza del figlio che non preoccupazione per il suo stato: tale era l’ardore del fuoco che bruciava nel suo animo. Nondimeno spiegò le quattro ali membranose, che si aprirono riempiendo l’aria di una nube bollente di cristalli citrini, e si lanciò verso Alum prendendone il corpo esile fra gli artigli. Il tempo per le spiegazioni sarebbe giunto una volta fuori da Lykju.

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Sul limitare della Gola Nera, accanto alle barriere erette all’alba dei tempi per deviare le colate di lava, Eldingar guardava suo figlio abbeverarsi a un ruscello. Ridotto dalla fatica al suo corpo minore, quello menomato e deforme senza ali né coda, dal collo corto e le zampe sproporzionate, Alum raccoglieva l’acqua nelle mani senza artigli a coppa e la portava alle fauci ridicolmente piccole. Anche suo padre aveva assunto il suo secondo aspetto per solidarietà: un corpo di cristalli che si ergevano ben oltre la lunghezza delle spalle e del capo come raggi di un astro, orbite vuote dietro cui ardeva inestinguibile il fuoco dell’anima.

« E dunque il vecchio sostiene di poter creare la vita… »

Non gli interessava il desiderio dei Creatori di escluderlo dal concilio. Era abituato ad essere rifiutato per le sue idee e per il suo carattere, e in altre occasioni forse sarebbe stato grato a quei vecchi caparbi. Ma… la vita!
La sua intera esistenza era stata spesa nel tentativo di comprendere i segreti della trasmutazione dei metalli; aveva elaborato infinite teorie mentre verificava l’effetto del fuoco esalando il suo respiro su ogni cosa vivente o inanimata. Ogni combustione liberava la materia dagli strati più impuri, raffinandola ed elevandola sempre più. L’ultimo stadio non poteva che essere l’estrazione dello spirito dalla materia, dopo secoli di ricerche se ne era convinto. Eppure ogni cosa che entrava in contatto con il magma arrivava ad un punto in cui la raffinazione cedeva il passo all’incenerimento, al totale annientamento. Quale potesse essere il segreto Eldingar ancora lo ignorava. Ma se Fyrirliði, colui che guidava la schiera di Creatori, colui che tutti ritenevano il più abile nella demiurgia e dunque il più saggio, era giunto a una conclusione simile alla sua, quel concilio era il momento propizio per far valere la propria voce.

« Sì, padre. Andiamo, il concilio sta per iniziare. »

Assorto nei suoi pensieri, Eldingar non si era accorto che Alum si era alzato e aveva posato una mano sulla sua spalla. I cristalli di zolfo ai lati della bocca si spaccarono in un lieve sorriso: era un bravo figlio, pensò, avventato come lui ma conciliante come sua madre. Il tempo gli avrebbe insegnato a temperare gli eccessi, e Alum sarebbe diventato un grande Creatore.



Eldingar (che in islandese significa “lampo”) è un drago di zolfo, progenitore di tutti i draghi legati al fuoco. Con lui ho introdotto anche suo figlio Alum (“allume”), drago di sale. A differenza degli altri, Eldingar è un drago alchimista, che intende l’atto della creazione come guida della materia attraverso i suoi passaggi di stato. Il post contiene varie allegorie del mito della Pietra filosofale, lascio a voi trovarle tutte ^__^ spero piaccia!


Edited by Palantír - 1/5/2015, 17:17
 
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view post Posted on 1/5/2015, 19:06


Praise the Sun


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Immagin2e
Óogilt

"Fylgist með Óogilt, fylgist með."

"Já, Faðir."

Mentre tutti i suoi simili si dilettavano con i loro poteri e gongolavano circondati dalla loro arroganza, Óogilt osserva senza mai dir nulla, qualcuno iniziò perfino a far giochi di parole sul suo nome, tanto lui non avrebbe di certo reagito, o meglio, non poteva.
In quanto detestata Óogilt ha sempre mantenuta celata la propria forma draconica,al punto da far dubitare i suoi stessi fratelli e sorelle sul fatto che ne possedesse una, per lui non esisteva altra forma se non quella grigia e metallica da cui venivan fuori incessantemente fumi scuri quanto letali.
Ombra della creazione e destinato a venir considerato la più pura essenza del male, dell'oscurità e del caos, Óogilt in realtà era forse il più assennato tra tutti, costantemente impegnato a cancellare gli abomini generati dagli altri draghi era solo grazie a lui se l'ago della bilancia tornava sempre al centro.

"Tutte le memorie della tua esistenza verranno cancellate dalla realtà. Morirai, e nessuno ti piangerà mai."

Quante volte aveva pronunciato quelle parole e quante altre volte ancora avrebbe dovuto farlo?
Forse per sempre, forse mai più, ma non dipendeva da lui bensì da quanti altri errori sarebbero stati commessi e di quanti fra questi poteva lasciar memoria.
Aria, acqua, luce, calore e perfino la vita stessa spariva nel palmo della sua mano.
Ci si potrebbe chiedere cosa ci faccia un drago del genere a Verkstæði, beh è molto semplice, quella che sembra distruzione è in realtà la creazione e manipolazione di tutti quegli elementi che minacciano la vita ma senza i quali non potrebbe esistere, i veleni, tutti sotto il controllo di un unico essere che se pur visto come il più oscuro fabbro della creazione ne è in realtà il più rispettoso.

"Tutto è veleno, e nulla esiste senza di esso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto."

In quanto"járnsmiður" Óogilt ha trascorso anni a dimostrare come il più velenoso dei serpenti potesse trasformarsi nella più potente delle cure, e tutt'ora il suo lavoro non era finito.

"Amanitina..."

Disse ruotando tra le dita una fialetta ricolma da uno strano liquido e riflettendo sulle sue potenzialità, dalle fessure dell'armatura un fumo flebile e nerastro saliva volteggiando fino a toccare il soffitto in legno e pietra del suo laboratorio, la luce fioca dell'unica candela accesa ondeggiava ritmicamente con il suo respiro ed il suo battito mentre il carboncino batteva a vuoto contro il foglio rimasto bianco.

"Se solo esistesse un modo per... "

La porta si aprì silenziosamente alle sue spalle rivelando un ospite portatore di notizie.

"Creare la vita?"

Sì girò in direzione di quest'ultimo continuando a giocherellare con la fiala rimasta salda tra le sue dita.

"Einhver... perché siete qui? "

Lo sguardo dell'altro si corrucciò prima di rispondere, ma doveva ugualmente dirglielo, era stata richiesta la presenza di tutti i draghi antichi, nessuna eccezione.

"Ci sono riusciti Óogilt."

"Riusciti in cosa? In un soufflé che non si sgonfia mai?"

"Pochi scherzi, sai benissimo a cosa mi sto riferendo."

Palpebre calate, un sospiro profondo e tanto rimorso, lo desiderava da sempre eppure il pensiero che adesso fosse reale agitava e scuoteva ogni fibra del suo essere.

"Andiamo, dobbiamo fermare questa pazzia... prima che sia troppo tardi."

Seppur calme e pacate quelle parole trasudavano preoccupazione, a ogni passo in direzione del concilio sentiva il fiato sempre più corto e i pensieri sempre più confusi, non aveva la minima idea di cosa fare una volta lì e la possibilità che fosse l'unico a pensarla in quel modo non era affatto vana.

*Quand'è che smetteranno di credersi delle divinità... .*

Quell'arroganza che da sempre li aveva caratterizzati, era ormai in procinto di tramutarsi nella loro rovina.





Son bene consapevole di come dalla prime righe potessi sviluppare di più e meglio, ma per l'appunto le prima sono stata fatte quando avevo il mio pc sottomano, tutto il resto l'ho dovuto finire da un catorcio di appena sette pollici tirato fuori da sotto non so quanta muffa. :nahnah:
Per il resto mi limito a dire che Óogilt è un drago il cui potere si incentra sul veleno in generale. che poi è lo stesso elemento che ne compone le scaglie e motivo principale per il quale preferisce rimanere nella sua forma di armatura umanoide.
Nonostante il suo dono ha sempre cercato di tener alto il nome dei draghi fabbri, è ha sempre incentrato il proprio potere nel portar benessere anziché per compiacere se stesso.
 
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view post Posted on 2/5/2015, 14:09
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koneko no baka
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G R I D A º D A L º C I E L O

Creazione

_________________________

L'arte nella stanza



Verkstæði meravigliosa luccicava attraverso i vetri colorati delle piccole finestrelle, occhi della discreta bottega. La luce dorata riflessa sulle sue torri filtrava nella stanzetta dei colori, giocherellando con la polvere nei suoi fasci chiari e maestosi. Mai città più bella s’era potuto scorgere, soprattutto da quella collinetta distante al punto giusto da creare il dipinto più magistrale e completo. E Óhrein lo sapeva bene, giacché trascorreva le sue giornate silenziose a ritrarla sulle ceramiche delle sorelle.
Aveva un talento innato per la pittura, una conquista sui colori più vibranti e poetici, un tratto così sublime e sottile che quando i clienti tentavano d’informarsi su quale divinità superiore avesse pitturato quelle opere d’arte destinate ai muri domestici, la madre quasi accennava al suo nome. Ma mai all’istante, mai se non pregata per molto. Non che la signora non amasse il figlio, per carità. Anzi – e per quanto fosse stato difficile farlo capire a Óhrein – lei l’amava davvero oltre ogni ragionevole misura, solamente, tentava in ogni modo di proteggerlo dalle disgrazie che avrebbero potuto assalirlo all’esterno del suo laboratorio nel lato ovest della bottega.

Il suo piccolo Málari - come lo chiamava lei.

Il suo dolce figlio che di creare ceramiche non era mai stato capace.

Il suo innocente sbaglio, sgorbio della prole immacolata.




Óhrein faceva parte d’una famiglia molto larga, il padre e la madre impegnati in un modesto emporio di ceramiche.
Prima che lui nascesse, astro d’argento nel cielo lucente, le sorelle avevano provveduto ad aiutare i genitori, con la loro adeguatezza e servilità, ognuna di loro benedetta da disarmante bellezza, ricoperta da turchine scaglie, elevata a livelli di strabiliante perfezione. Dal mattino al calar del sole, ligie e chine sui propri forni e pentolini, tutte prese dalle faccende della vendita e dell’impasto, tutte obligate nella trasformazione del loro elemento. Ma il negozio rimaneva d’un candore spettrale, la sua aura livida azzurrina che ora non più esisteva, vago e debole riflesso dei draghi creatori, i draghi di cianite. E il giorno in cui l’ultimo di quelle uova ruvide si schiuse, quello che controluce pareva quasi argento, Óhrein fece il suo ingresso sul mondo, col suo visino bagnato di perle e le sue pupille bianche sulle orbite nere. Era bastato un pizzico in più di alluminio ed ecco che il piccolo si ricopriva giorno per giorno di squame cinerine, sotto gli occhi dispiaciuti e impotenti dei familiari.
La cianite grigia era un errore poco comune che si portava appresso una consistente dose di delusione, ma si trattava pur sempre di cianite, no?

E si trattava pur sempre di famiglia.

Dunque la dragonessa, intenerita e preoccupata per la sorte del figlio, già fragile e svantaggiato, aveva creato per lui una stanzetta colma di tutte le sfumature d’azzurro che il piccolo non avrebbe mai conosciuto. S’era premurata di girovagare dentro e fuori da tutte le botteghe della città di meraviglie, cercando i migliori vetri colorati e pennelli che avrebbero potuto far felice il suo dolce Málari e riempiendone la cameretta a ovest, dove il sole del tramonto, baciando le sue ali dalle membrane fosche, avrebbe donato vita a quel suo brillare spento, quella sua tonalità insulsa che lei tanto amava da spezzarsi il cuore. Ogni quattro lune Óhrein raggiungeva Verkstæði in sua compagnia, camminandole al fianco con crescente senso d’inadeguatezza e ancor maggiore adorazione negli occhi. E mentre passava le sue ore di libertà si domandava se magari un giorno anche lui avrebbe potuto vivere in mezzo agli altri draghi senza essere additato come spiacevole scherzo che a volte gli elementi vomitano sghignazzando. Quando tornava alla sua dimora silenziosa e trascorreva il tempo con le sorelle osservandole lavorare ai loro vasi, moriva un poco nel vederle ostentare un così grande interesse per una cosa che – lui ormai sapeva – era per loro quotidiana e scontata. Allora si rintanava nella stanzetta dei colori, perdonandole poiché almeno avevano provato a concedergli gloria e gaudio, almeno gli avevano permesso d’assistere al magico processo che da generazioni sosteneva i draghi di cianite. E iniziava a dipingere, iniziava a stendere sulla tela i suoi ricordi della bella città finché questi galleggiavano ancora vividi sull’oceano burrascoso incolore nella sua testa.
I giorni passavano e lui si rendeva conto di aver affrescato ogni angolo possible della sua camera, dalle vetrate ai pavimenti, dalle piume del suo giaciglio agli spigoli dei suoi tavoli colmi di altre tavolette colorate e tele traboccanti di innumerevoli sfumature. Così durante le ore meno affollate usciva e si intrufolava nella bottega della famigia e con noncuranza afferrava un paio di cotti e li rendeva ospiti della sua stanza.

I suoi ospiti.

Con pennellate decise come soffi di grecale o leggere come sussurri nella notte, ne dipingeva la superficie lattea con innata maestria, ritraendo le torri splendenti di Verkstæði e i cieli che l’accarezzavano come un gatto assonnato. Acquarellava le sue fantasie sotto forma di motivi mai ricorrenti e caratterizzati da uno stile malinconico e speranzoso, con la grazia con cui una farfalla avrebbe posato le sue zampe invisibili sui petali d’una primula. E quando la luna splendeva sopra la città addormentata, anche Óhrein si dava pace, posando le sue paure al fianco delle sue creazioni in un angolo di quel suo nido caotico e atto. Chiudeva gli occhi d’agata accompagnando i sogni con sospiri, con nuove deliziose idee che l’avrebbero spinto a dipingere anche l’indomani. E con quel suo ritmo instancabile dettato dalla passione, fece arrivare anche il giorno in cui le ceramiche a mancare dall’emporio finirono per essere troppe, così che i genitori realizzassero che il figlio le teneva ammassate ai quattro angoli della camera, sotto i tavoli e in cima alle mensole per l’ormai pressante mancanza di nuovo spazio utilizzabile. La madre s’era abbattuta molto per quella che credeva essere una sorta di presa di posizione, ma il padre - deciso a credere in quel suo discendente che mai abbastanza aveva desiderato - prese a vendere quei capolavori, che con sua grande sorpresa piaquero molto ai draghi di Verkstæði. Ora Óhrein pareva esser divenuto di vitale importanza per il lavoro della famiglia e i nuovi cotti gli venivano presentati al sorgere del sole, pronti miracolosamente per il giorno seguente, istoriati coi sogni d’un giovane figlio dal sottovalutato genio.

º

Óhrein non era uno a cui pareva opportuno lamentarsi, non era anzi nemmeno un’attività che prediligeva.
Il suo corpo sinuoso e di media statura riluceva ogni minuto di un’inconsueta luce plumbea, davvero insolita per un drago di cianite. Quel granello di elemento esterno che malauguramente aveva trovato spazio dentro il suo uovo, aveva reso le sue scaglie cineree e in qualche maniera cupe. Mai avrebbero brillato come quelle celesti delle sue dieci splendide sorelle, mai come quelle di quei cigni maestosamente aggraziati e gloriosi. Ma come già constatato, Málari non trascorreva un singolo secondo lamentandosi. D’altro canto però, è doveroso accennare al fatto che il giovane drago non fosse nemmeno grato, tacendo in presenza dei suoi cari tanto diversi da lui e delle meraviglie aldilà delle sue vetrate colorate. Così poche volte l’avevano sentito parlare, che spesso si domandavano se in tali occasioni la voce del figlio ferrigno non fosse stata solamente un refolo di vento al momento sbagliato, un sogno parzialmente dimenticato della notte precedente.

Ma se realmente Óhrein avesse avuto una voce, sarebbe stata un sussurro davvero soave e squisito,
uno sbuffo tiepido di libeccio dolce come fiori di margherite.


Quel che si credeva era che il drago non fosse altro che impassibile, ma la verità parlava di una storia diversa e più complicata, che nemmeno lo stesso Málari avrebbe mai capito. Egli non era affatto apatico e nemmeno muto, piuttosto, ancora non aveva imparato il modo comune di esprimere le proprie emozioni, di soffiare attraverso quei tubicini nella gola per produrre suoni e parole. Dunque rideva e piangeva nei suoi dipinti, nei colori sgargianti d’un pomeriggio d’estate e nelle tonalità buie delle falene. E nonostante fosse un metodo insolito e complicato da comprendere, i suoi cari avevano imparato ad apprezzarlo per la sua innocente diversità, senza additarlo come leso e senza sminuirlo. A Óhrein piaceva molto trascorrere le giornate nel suo laboratorio dove solo i rumori esterni avevano diritto di parola, ma gradiva discretamente accettare gli inviti del padre e accompagnarlo a svolgere sue commissioni. Il genitore pareva provare una certa compassione per il drago, ma quest’ultimo dava ogni volta l’impressione di non averne a male, spesso persino di non accorgersene affatto. E una volta di ritorno alla bottega, il capofamiglia gli lanciava sempre il solito sguardo, quel cenno a metà fra imbarazzo e incerto orgoglio che Málari ricambiava con i suoi occhi di quarzo dai quali non uscivano emozioni. Alcune sere, la madre lo chiamava con sé e le sorelle per volare nel mezzo disco del tramonto e lui di buon grado accettava, rimanendo sempre un po’ indietro nel suo perdersi ammaliato nei colori vibranti e accesi che s’infiltravano tra i pinnacoli di Verkstæði luminosa. Incapace di accogliere tutta quella bellezza, maldestro nell'esprimere la sua devozione a quella città.

º

La sera in cui venne a conoscienza dell'assemblea convocata da Fyrirliði, fu un momento di svolta che lo spnse a realizzare quanto ancora della sua vita avrebbe potuto cambiare. Se la creazione più straordinaria era finalmente venuta al mondo, magari lui avrebbe avuto l'occasione di affrescarla, raccontando a tutta Verkstæði la sua storia e il suo pensiero, il suo messaggio, le parole che non sarebbe stato in grado di pronunciare altrimenti.

Volesse il cielo avrebbe potuto rendere realmente fieri i genitori e le sorelle.

Óhrein si allontanò dall'emporio nel suo consueto silenzio, lasciando fuori dalla porta i cotti che si era premurato di dipingere durante la notte di modo che non mancassero all'appello per la giornata seguente. Sul più grande di essi, un anfora dai manici delicati, un usignolo camminava al magine d'un gruppo di rondini in un meraviglioso prato dove alti fiori di campo svettavano oltre il manto verde. Sperò che la madre avrebbe capito. E come entrando in uno dei suoi dipinti, lasciò le tavolozze e i pennelli nella stanza dei colori, stringendo a sé onde di sentimenti e melodie che ancora non riusciva a far volare via.

Ricordava la sala in ognuno dei suoi infiniti e impressionanti dettagli, ancora provava la sensazione sospesa del colore acquoso che mai avrebbe dovuto colare sul resto della composizione. Decine e decine di altri draghi attendevano attorno a lui, tutti attenti e ansiosi che il grande Fyrirliði facesse la sua apparizione e presentasse la sua opera. Erano passati molti anni dall'ultima volta che una creazione aveva veramente catalizzato l'attenzione della città, anni quasi improduttivi e in un certo senso noiosi. Óhrein dall'altro canto aveva sempre Verkstæði da dipingere e questo lo rendeva quieto. Ma in quel momento, ognuna delle sue scaglie vibrava al solo pensiero della creazione che avrebbe potuto trovarsi davanti e questo lo spinse a grattare il suolo con uno degli artigli, nel vano tentativo di incidere una qualsiasi illustrazione. Lanciò occhiate vuote ai presenti che erano giunti nella loro forma antropomorfa, un vizio che Óhrein non aveva mai preso. Per la sua anima aveva certamente anche lui un'armatura, come la madre s'era aspettata, d'un argento opaco, come rovinato dal tempo. E il momento in cui per la prima volta l'aveva vista, con le sue dita ora sottili aveva impugnato i pennelli e aveva passato la notte, lontano dagli sguardi altrui per dipingerla con i colori cerulei e mirto che circondavano la sua vita livida.
E così avrebbe agito anche con la nuova creazione del maestro di diamante, di modo che tutti avrebbero potuto gioire dei colori che avrebbero riflesso la luce sul suo corpo come solo lui riusciva a fare.



Hi!
Ecco il post di presentazione. Lo so, è piuttosto corposo, ma io non sono esattamente capace di andare a risparmio ^^ Óhrein - Málari - è un drago di cianite grigia, una variante lievemente più rara della cianite pura (di un colore azzurrino) data dalla sovrabbondanza di alluminio. È un tipetto piuttosto silenzioso, non sa parlare, ma è indescrivibilmente bravo a dipingere e usa questa sua capacità per esprimersi. Vive con la numerosa famiglia che crea ceramiche e cotti nella loro dimora su una collinetta non lontana da Verkstæði.
Giunge alla sala mantenendo la sua forma draconica, in quanto non sia molto abituato a quella antropomorfa.
Enjoy :3
 
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