Grida dal Cielo ~ Creazione.
« Creavo, speravo
sognavo un mondo nuovo. »
Alcune creature vengono al mondo coscienti di cosa il destino abbia in serbo per loro. Esse crescono e, crescendo, concepiscono inimmaginabili capolavori, infinito genio e straordinarie bellezze. I loro lasciti sono immortali, destinati a superare il tempo e lo spazio, capaci di tale complessità da sfidare il senso stesso della vita. Persino dopo la loro morte le opere meravigliose costruite in vita tengono vivo il ricordo e la memoria, donando di fatto la quieta immortalità.
Altre creature, invece, vengono al mondo ignare, fanciullesche, malleabili. Si nutrono del bello, del nuovo, vivono le loro giornate a scoprire e inseguire quel genio, quell'estro, quell'arte che mai riusciranno a padroneggiare ma che, per assurdo, sono le uniche a comprendere e apprezzare davvero.
Himneska era un drago semplice, non era null'altro che una delle tante creature venute al mondo per ammirare la grandiosità degli altri, eppure si sentiva soddisfatta e felice del suo ruolo, compiaciuta dal fare la sua piccola parte in un mondo che, forse, era sin troppo piccolo per i suoi gusti. Affetta sin dalla nascita da una grave sindrome sconosciuta, il suo corpo non crebbe esponenzialmente come voleva la consuetudine ma, anzi, restò esile, piccolo e delicato. Nacque terzogenita di due gemelli, Sòlse e Dögun, passando gran parte della sua infanzia a guardare le loro opere meravigliose e sognare, un giorno, di poter creare qualcosa di altrettanto splendido. A lei era toccato un corpo ricoperto di sottile acquamarina, minuto ed elegante, ma non era stata graziata né col talento artistico del fratello, né con il temperamento audace e rivoluzionario della sorella, risultando di fatto una mera spettatrice in una famiglia piena di virtuosi orefici.
Neska, questo era il diminutivo affettuoso affibbiatole, era però felice della sua vita, nonostante tutto. Amava volare, nelle giornate soleggiate, percorrendo le montagne alla ricerca della bellezza, della forma perfetta, del quadro ideale dove rifugiarsi dalla noia monotona del mondo. Il resto dei draghi soffriva la quotidianità, appassiva nel non trovare più niente di nuovo da creare, da costruire, ma non lei. Si lasciava affascinare dalle sinuosità degli alberi, traeva ispirazione dall'ondeggiare dell'erba, vedeva nelle nuvole la più perfetta forma d'arte mai concepita dalla vita, e con questo in mente sognava di infiniti mondi e infiniti spazi lontani dalla lenta sonnolenza della sua stirpe.
Così scriveva, nei suoi giorni di adolescenza:
Vedo il mondo attraverso occhi silenziosi, non capisco la necessità di cercare qualcosa che non ci serve,
né la nostra incapacità di accontentarci di quello che abbiamo.
Credo che non vi sia forma d'arte più alta o gioiello più bello dei fiori sbocciati sui prati al mattino,
dei rami ondeggianti al vento di un vecchio ontano,
delle nuvole bianche che scorrono delicate sotto un cielo limpido.
Amava le pietre dure e le gemme. Passava ore ad osservarle allo stato grezzo, scrutandone le superfici sporcate dal basalto o inglobate nell'arenaria, chiedendosi quale fosse la necessità di lavorarle, di dargli una forma diversa da quella che la natura aveva loro concesso. Nelle sue creazioni usava opali, agate, lapislazzuli che gli altri scartavano, costruiva la sua meravigliosa perfezione su ciò che al resto del mondo sembrava imperfetto. Forse la sua natura cagionevole, la sua malattia, l'avevano spinta a vedere forme e colori che semplicemente non esistevano per la quotidianità. Teneva per sé e per i suoi fratelli quei piccoli oggetti poco interessanti, desiderosa solamente che almeno loro approvassero la sua visione del mondo.
Nella sua lunga, seppur breve se paragonata a tanti draghi, vita Neska aveva imparato a fidarsi della sua famiglia e solo di essa, preferendo vivere una pacifica solitudine che rischiare di trovare il rifiuto degli esterni. Col tempo si era convinta che la sua esistenza fosse in qualche modo perfetta, che ogni cosa avrebbe trovato modo e luogo per divenire e trasformarsi, e che tutto ciò che doveva fare era rimanere saldamente legata alla sua famiglia, qualsiasi cosa succedesse, poiché nessun altro, al mondo, l'avrebbe capita come loro. A onor del vero, nella sua prima fanciullezza, non le erano mancati tiri mancini e brutti scherzi da parte dei fratelli, anche se ovviamente le volevano bene e mai avrebbero lasciato che le succedesse qualcosa di male. Durante il suo primo volo venne, per gioco, abbandonata da sola su uno sperone di roccia altissimo da cui aveva il terrore di planare da sola. Così scriveva, ricordando quei momenti.
Mi lasciarono da sola per due ore. Io strillavo e piangevo e gridavo,
ma nessuno sembrava accogliere le mie risposte.
Quando non li vidi tornare credetti mi avessero abbandonata perché inutile,
incapace di tramandare egregiamente il sapere di famiglia.
Ma quando tornarono, ridendo di me e carezzandomi la testa con le lunghe code,
mi resi conto che quello era un gesto d'affetto, una burla atta a consolidare un legame
destinato a sconfiggere il tempo stesso.
Questa era Neska, nel tempo che fu, oramai dimenticato.
Affettuosa, pacifica, osservatrice. Costruiva con ciò che gli altri gettavano, vedeva il bello in ogni cosa.
[ ... ]
Quando la voce del concilio si sparse, Neska si precipitò da suo fratello, per primo, incitandolo a sbrigarsi. Era già stato avvertito dal suo apprendista, ma questo non la dissuase dal petulargli dolcemente contro.
« Hai sentito? Ci stanno convocando, dobbiamo andare, dobbiamo andare! »
La voce squittente, allegra, sembrava quasi voler trascinare con sé tutto l'entusiasmo e la curiosità che serbava dentro. Senza nemmeno attendere la risposta sbatté le ali librandosi rapidamente nell'aria. Era gioiosa, a dir poco, e si sentiva elettrizzata all'idea di prendere parte a quell'adunanza così importante da essere indetta d'improvviso. « Vado a chiamare Sòlse, non fare tardi. »
Fece una piroetta su se stessa e si mosse verso la residenza della sorella. Una volta giunta si poggiò delicatamente sulla finestra curiosando con la testa all'interno della casa. Che lo volesse ammettere o meno, la sua natura pacata e accondiscendente mal si sposava con l'enorme gioia di vivere che serbava nel cuore, e quei piccoli gesti, quella curiosità accentuata, altro non erano che valvole di sfogo. Avvistò Sòlse e, con la coda, colpì debolmente il muro per farsi sentire.
« Stiamo andando al concilio, vieni con noi? »
Allungò il collo per sbirciare meglio nell'abitazione, senza osare così tanto da prendersi un rimprovero.
Quando la famiglia fu finalmente riunita venne il momento di recarsi sul luogo designato, a Verkstæði.
La giovane d'acquamarina non possedeva né la consapevolezza né la bravura, ancora, per costruire un contenitore adeguato alla sua anima, seppur le sue dimensioni estremamente ridotte le permettessero di vivere adeguatamente anche laddove altri preferivano usare forme meno ingombranti. Per la prima volta, dopo tanti anni, riusciva ad assistere ad un evento di quella portata, per di più assieme ai suoi fratelli, non avrebbe potuto chiedere di meglio.