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Il deserto dei pinnacoli, Contest Maggio 2015 - Tempesta. Dall'Abisso.

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view post Posted on 17/5/2015, 13:01
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Dai lembi soffusi dell'orizzonte proveniva un solitario ululato acuto, tutt'altro che rassicurante. Come un maestoso tenore di fronte ad una platea rapita, riempiva di cupo stupore gli echi della tacita vallata. Ai margini del crostone una schiera di palme presidiava dirimpetto l'ultimo avamposto oltre il quale rimaneva una brulla e indifesa pianura. Quella stanca e stentata vegetazione avrebbe in parte smorzato la forza del vento, ma non con sufficiente convinzione da placare la sua naturale ira recondita. Da lì a non molto il tratto di deserto che separava il bambino dal villaggio di Taos sarebbe stato divorato dalla fame obbligata della polvere. In lontananza una muraglia vermiglia di attempato pulviscolo solcava il crostone, spavalda come lo scafo insanguinato di un'inaffondabile veliero pirata. Il cielo, che in realtà non era un cielo bensì una volta - ma il bambino questo dettaglio ancora non lo conosceva - possedeva la stessa sfumatura opaca del cruore smunto delle carogne. Il tono del sangue affetto da un morbo incurabile che ha strappato tutta la virilità dall'ospite malato. Pitturava l'atmosfera illuminandola del sordo splendore di un sole eclittico e morente, e rifletteva quella sua tonalità cerea nei granuli aggrovigliati della muraglia di polvere. A vederla contro quella luce, la gargantuesca onda di sabbia sembrava uno stormo caotico di pettirossi in fuga dalle ombre gelide dell'inverno, che scendevano in una febbrile picchiata suicida. Era uno spettacolo oltremodo mozzafiato, allo stesso tempo tanto meraviglioso e tanto spaventoso.
La sensazione che più si avvicinava a quella provata da Levi in tal momento era la stessa percezione che precedeva i risvegli dai suoi incubi peggiori. C'erano state notti in cui il bambino, scosso da febbri violente, aveva sognato mondi deliranti annegati in sconfinati mari carnivori di sabbia, dove lui, piccolo quanto un granello di quei gorghi mantecati, veniva sommerso e affogato, lentamente e inesorabilmente. Si svegliava allora di soprassalto, stomacato e nauseato per l'impotenza, tremante per la paura e angosciato dall'impareggiabile veemenza della cruda natura della dissennata immaginazione del suo piretico subconscio.
Levi era impietrito, immobile in mezzo al deserto sembrava una delle numerose sentinelle che, slanciate come fanti al comando, custodivano il crostone. Quelle formazioni rocciose di origine calcarea che i più chiamavano binacl. Il respiro era calmo, la gola secca, il cuore tamburellava adagio, i muscoli erano rilassati e gli occhi fermi. La paura attanagliava la sua anima, ammantandola con tanta foga da serrarla in una funesta ipnosi; lo sconvolgimento psicologico subito in quelle poche ore aveva alienato il bambino, e tutto sembrava appartenere ad una dimensione parallela. Un incubo. Il sistema nervoso di Levi si era convinto di star vivendo un incubo. Il bambino osservava il paesaggio da oblò impolverati che parevano non appartenergli. Una passione smisurata della sua anima che desiderava trascinarlo nel quiete equilibrio della pazzia lo aveva persuaso nel credere che quello fosse nient'altro che un mondo irrazionale impolpato dentro una realtà razionale, un mondo della sua fantasia distorta, dove niente aveva una sua logica e tutto era possibile. E lui tallonava quella voluttà come uno scolaro segue animato la lezione di aritmetica, trovando per la prima volta la soluzione concreta ai problemi irrisori dell'esistenza. Di fronte all'implacabile buriana, il cervello del bambino si era spento - black out, baby - nell'attesa che la tempesta inesistente lo raggiungesse, quindi lo braccasse e finalmente lo risvegliasse, spazzando via dal suo cuore il terrore atrofizzante attraverso un denso sospiro capitale, tratto tra le braccia materne delle mura tangibili di casa.

«Papà!»
gridò con voce strozzata,
cercando un primordiale soccorso.

Quando l'onda lo raggiunse, Levi assaporò la concretezza del suo sogno diventare di colpo una certezza, e per un breve momento quella fu una sensazione appagante, di stupore lapalissiano. Poi il vento gonfiò le pieghe delle sue vesti, scompigliò i suoi capelli dorati e serrò il bambino in un abbraccio algido, sconvolgendo la sua innaturale paura interiore. Mentre volava in aria sospinto dalla polvere, notò come il deserto che fino a un attimo prima aveva mantenuto una sua teorica stabilità, plasmò completamente, assumendo le sembianze di una diafana regione onirica. Il mondo sembrava immerso in un gigantesco acquario fangoso, dove ogni bolla di sabbia danzava in una esemplare armonia con la propria compagna. L'universo aveva finalmente trovato l'utopica sintropia bramata nella perfezione di quel tempestoso disordine. Levi lievitava nella polvere con tanta grazia quanto quella di una piuma che piroetta nell'aria. L'avrebbe persino trovato divertente senonché il grigiore spento dello tsunami fosse stato tanto forzato da spalmare sui suoi nervi tesi un incorruttibile velo di inquietudine. Levi volò per un tempo che gli sembrò infinito, volteggiando nell'aria tutt'uno con quel vortice che lo serrava in una morsa da mastino inferocito. Il bambino strepitava, dando fuoco ai polmoni come fossero cannoni impazziti di un vascello militare, ora che anche la paura aveva trovato consistenza. I suoi occhi ardevano, graffiati dai granelli di sabbia, e il suo cuore balenava, sparando fiotti caldi di adrenalina dritti fino alla cima più alta del suo cervello.
All'improvviso Levi urtò con la schiena il profilo frastagliato di un pinnacolo e la sua corsa eterna finì. Perse il fiato per un lungo istante e quell'intervallo gli fu utile per ritrovare parte della sua smarrita lucidità. Quando riprese conoscenza si mosse di scatto, spinto da un puro istinto di conservazione, lottando contro il vento che desiderava banchettare col suo corpo infantile, e si fiondò al riparo, nascondendosi dietro il lato cieco del binacl. Solo allora Levi comprese quanto fosse prossimo al trapasso. La sua pelle era sfatta, scorticata, sanguinante, il volto era un riflesso scheggiato di ceneri estinte, il fiato era ridotto a fiochi ed esigui rantoli sibilanti e la schiena gli doleva così tanto da fargli battere i denti. Intorno a lui, un oceano di polvere gli fiatava sul collo, smanioso della sua vita come uno squalo bianco affamato di un banco di pesciolini indifesi. Il rombo del vento era tanto assordante da fondere le sue orecchie, solenne come il canto indemoniato di una sirena infernale. Levi non voleva morire, non in quel posto ignoto, così tanto lontano da casa. Un tempo il bambino era stato parte di una famiglia che aveva sempre ricambiato il suo amore, e aveva vissuto in un'abitazione grande e accogliente, caldo rifugio dai freddi temporali invernali, ma ormai quei giorni parevano appartenere a un passato tanto lontano da sembrare mai esistito veramente.
Il bambino stava piangendo, solo in parte a causa della sabbia che gli tormentava gli occhi. Non poteva far più niente, il suo destino era già deciso, di questo almeno era certo. Quella tempesta sarebbe potuta durare ore, o addirittura giorni interi per quanto ne sapeva, mentre lui non avrebbe retto altri cinque minuti. Levi si rassegnò all'inevitabile ciclo della vita. L'onda di polvere l'avrebbe travolto, granello dopo granello, come un verme caduto prigioniero dentro una clessidra di vetro.
Ma proprio nel momento in cui il bambino cadde in ginocchio, sconfitto moralmente, e quando tutto sembrò perduto per sempre, i suoi occhi notarono, poco distante da lui, un oggetto metallico, dal contorno geometrico. Un elemento nuovo, uno strumento estraneo, unica entità carica di vita in quell'universo spento. Tutto il mondo, persino la tempesta rabbiosa, sembrava trarre origine da quell'oggetto inanimato e il bambino si chiese come non fosse riuscito ad accorgersene prima. Levi non poté far altro che gettarsi a capofitto verso il pezzo di metallo, sgomitato da una ragione evanescente, intuendo che quella potesse essere la sua ultima, vera chance di salvezza.
La pistola era stretta tra le falangi ingiallite dello scheletro di un uomo, il cui cranio era aperto da due fori dentellati, ai poli opposti delle tempie consumate dal tempo. Quanto più Levi si avvicinava all'arma, tanto più il vento sembrava imperversare, e quando il bambino chiuse infine le dita attorno al calcio di sandalo, il deserto stesso cominciò a vorticare impazzito. Nell'istante in cui Levi cinse l'estremità della pistola, il mondo assunse le sembianze di un bad trip da acidi, e uno stridore squillante riempì la testa del bambino, che si ritrovò di nuovo in ginocchio, a tamponarsi con forza le orecchie e a gridare per il dolore lancinante.


Levi aprì gli occhi. Fu uno sforzo tremendo. Solo un attimo prima stava provando la vomitevole sensazione di strisciare lungo le incrostate tubature del suo inconscio, scivolandovi dentro con immensa fatica, quando, di colpo, aveva percepito la sua anima sbucare fuori dagli abissi vuoti delle orbite del suo sguardo, come un uomo che non sa nuotare spunta miracolosamente fuori dalla superficie dell'acqua, traendo un profondo respiro carico di limpidezza per la sua coscienza ubriaca. Per un lungo istante il bambino rimase fermo dov'era, con un'espressione da ebete disegnata in volto, aspettando che un dolore remoto scemasse dal fondo del suo cuore.
Levi, frastornato, studiò con circospetto interesse il deserto attorno a lui, in cerca di risposte. Per quanto la sua mente riuscisse a mettere a fuoco, di sicuro una cosa era più che certa: la tempesta era cessata, e tanto bastava a placare il suo terrore. Eppure il bambino aveva come l'impressione - un prurito radicato nelle anse convulse del suo cervello - che la buriana non fosse mai esistita realmente. Levi non trovava prove del suo passaggio, la stessa stabilità che aveva permeato il deserto fino all'istante prima che l'onda di polvere l'aveva scombussolato, sembrava immacolata. Ogni granello di sabbia pareva, al bambino, nello stesso immutato posto da dove la tempesta l'aveva poi sorpreso, destando alla sprovvista il riposo ancestrale del crostone. Ma allo stesso tempo Levi non era sicuro di quelle sue idee malsane. Si rendeva conto di quanto esse attecchissero a fondo nella corteccia intricata del fusto imperioso dell'irrazionalità, come dogmi inconfutabili di una setta religiosa, tanto chiari ed evidenti ai suoi seguaci quanto palesi idiozie ai nemici del culto.
Un grugnito alle spalle di Levi lo risvegliò dalle sue inani paranoie, e solo allora il dannato si accorse di stare ancora stringendo l'oggetto metallico che aveva trovato nel cuore pulsante della tempesta. Non vi era però alcuna traccia dello scheletro dell'uomo che aveva custodito la pistola prima dell'arrivo del bambino. Quando si voltò, il terrore tornò ad avvolgerlo. Il demone, a pochi passi da lui, aveva quattro paia di zampe pelose, un corpo viscido ricoperto da riluttanti pustole virulente e due teste ferine, dal volto cosparso di peduncoli sbavanti. Una doppia fila di zanne sporgeva dalle sue mascelle ciondolanti, e ogni suo respiro era accompagnato da un roco mugugno. Il bambino l'aveva soprannominato il Ragno, anche se dell'insetto possedeva solo il distintivo numero di zampe. Il demone l'aveva seguito fin dal giorno in cui Levi si era risvegliato in quel mondo sconosciuto, chissà quanto tempo addietro, ma quella fu la prima volta che il bambino si ritrovò a faccia a faccia con il Ragno.
A Levi sfuggì un grido tremolante, mentre incespicò nell'allontanarsi dal demone. Quando cadde a terra la pistola gli sfuggì dalle mani e di colpo il bambino sentì un vuoto d'impotenza riempire gli angoli bui della sua anima perduta. Il Ragno si mosse allora di scatto, percependo la posizione della sua preda, e si precipitò addosso a Levi, ma il suo attacco risultò piuttosto goffo e impreciso. Il bambino, ora ad un palmo di distanza dalla faccia del demone, poté specchiarsi nelle grandi orbite cineree del Ragno per un intervallo tanto lungo da riuscire a sentire il tempo scorrergli lungo tutto l'arco della schiena, intaccando la sua deliziosa giovinezza. Poi, finalmente, il demone si allontanò, muovendosi lentamente e attentamente, tenendo una delle due teste in aria, come alla ricerca di nuove tracce della preda che, inspiegabilmente, gli era sfuggita da sotto il naso. Allora Levi credette di capire: il Ragno era cieco, non poteva vederlo. Prima il mostro l'aveva attaccato solo perché aveva udito il suo grido di paura. Quella importante scoperta lo rassicurò non poco. Il bambino attese che tra lui e il demone si protendesse un bel tratto di crostone, poi decise di strisciare adagio lungo la superficie del deserto, cercando di raggiungere, quanto più silenziosamente possibile, il pinnacolo più vicino e nascondervisi dietro finché il Ragno non se ne fosse andato.
Appena trovò il coraggio di muoversi, la mano incontrò fortuitamente la superficie fredda del metallo e lo spirito di Levi tornò ad ardere di forza e... qualcosa di nuovo, arse di una sconcertante violenza omicida. Se qualcuno gli avesse chiesto che cosa fosse una pistola e come funzionasse, in quel momento il bambino non avrebbe saputo rispondere, perché non ne aveva la più pallida idea. Eppure, Levi si alzò in piedi in una posa orgogliosa, scaricando il peso del suo corpo sulle gambe divaricate, e protese le braccia davanti a sé, stringendo con ambedue le mani il calcio dell'arma da fuoco, mirando verso la sagoma mostruosa del Ragno. I suoi occhi erano pozzi di ghiaccio famelici, la sua mente era calma e sicura, il suo cuore vivo e fumante.

«Da questa parte, coglione!»
gridò con voce fulminante,
trattenendo a stento l'indice smorzato sul grilletto.
Il Ragno ebbe appena il tempo di voltarsi.
Il bambino provò allora la sensazione impareggiabile di un orgasmo multiplo.


_____


La poca gente di Taos, disseminata lungo la strada principale del paese, si disperse. Uomini e donne corsero a perdifiato, cercando rifugio nell'abitato più vicino. Soltanto una sagoma rimase immobile in mezzo alla via. Il pistolero levò gli occhi accigliati oltre l'orizzonte, in direzione del deserto dei pinnacoli, da dove l'eco di una raffica di esplosioni aveva raggiunto e scioccato il suo paese. Cliff Jefferson sputò un grumo mefitico di tabacco a terra.





Vi auguro una buona lettura o, se state leggendo lo spoiler dopo aver finito di leggere il brano, spero di avervi regalato una buona lettura.
Ho sviluppato il tema della tempesta nei primi 3/4 del brano, ambientando il contest all'incirca 20 anni fa, quando Levi era un bambino di appena 8 primavere ed era stato da pochi giorni esiliato nel Baathos. Ho cercato inoltre di dare forma al testo e farlo essere esso stesso una specie di tempesta. Levi infatti non si rende conto se la buriana c'è stata o meno, se questa era reale o irreale (ambientata nel suo subconscio), frutto del vento o dello sconfinato potere demoniaco insito nella trama della pistola - forgiata dal cuore pulsante di un diavolo, non dimenticatelo. In un certo senso anche le sensazioni emotive di Levi sono tempestose.
L'ultimo quarto di brano è invece narrativo e non ha a che vedere niente col tema principale del contest. Ho trovato un modo - carino spero - per terminare lo scritto e per ambientarlo nel ciclo "Dall'Abisso". Con successo, spero. Grazie per la lettura.

Ps: binacl stando a google translate significherebbe pinnacolo in gallese.

26.5: corretto un errore ortografico


Edited by H I G - 26/5/2015, 11:39
 
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