Mani rigate di rosso,
respiro pesante, vita che sfugge.
Un famelico senso di incompiuto si concretizzò ai sensi di Martin nella forma di visioni di un futuro ormai venuto meno e rimembranze dei sofferti giorni pregressi. La mente viaggiava ad una velocità che le corde vocali cariche di sangue non riuscivano a reggere; dalla bocca uscivano solo versi affogati dai suoi stessi umori. Dal cielo cercavano entrambi un intervento che mai sarebbe giunto,
perché di solitudine era la materia della vita.
E della morte.
La danza di lame, sangue e sogni infranti s'apprestava ad un nefasto epilogo, macabra scenografia di riluttanza, disperazione, speranze di rivalsa fatte a pezzi dal confronto col reale. E come fiotti scarlatti sgorgavano dalle profonde cicatrici di quella guerra di spade ed opinioni; il pensiero di Martin perdeva colore, come la sua carne: di chi era questa battaglia? In nome di quale ragione avevano le sue interiora bagnato il brando di un'altra creatura? E quella figura titanica, nascosta da una selvaggia chioma bionda, lanciò un ultimo sguardo di ghiaccio prima di spirare.
N o i n o n s i a m o u g u a l i
« Cosa vedi in me? »
N o i n o n s i a m o d i v e r s i
In quegli occhi, Martin vide e assaporò il dolore dei secoli.
Il fragore della battaglia tuonava in quella valle fino a pochi istanti prima,
ma in quegli interminabili attimi il mondo parve tacere in solenne lutto.
Esanimi crollarono al suolo, come i loro propositi. La terra tremò con essi.
Non quivi la loro ora fatale sarebbe giunta, non allora la brama di organi delle loro armi sarebbe stata saziata. Perché dei cuori così affini ma così lontani potevano solo trovare ragione fra le urla di agonia, perché avevano ancora un'eternità per rincontrarsi, per duellare ancora una volta. Per ripetere un ciclo che trascendeva il concetto di esistenza stessa, il premio ultimo della loro primordiale condanna. L'anima di Martin sgomitava in quel corpo trinciato per liberarsene, ma prima che ciò potesse avvenire si palesò un'estranea figura, come proveniente dalle pieghe fra le dimensioni, che si frappose fra i corpi macellati dei due rivali. Le sue labbra non articolarono sillabe, ma l'eco del suo spirito riverberò nei cuori dei presenti.
Parole di piombo risuonarono in una, dieci, mille lingue diverse;
così confuse e così distinte.
« Spezza le catene dell'ipocrisia. Purga il regno dai tuoi nemici », disse.
Una pausa che parve eterna, e un galvanico brivido che percorse la spina dorsale di Martin.
« Ho un lavoro per te. »
Il tempo collassò, e con esso lo spazio e la sua geometria.
Le architetture prime del piano dell'esistenza messe a nudo, e il riavvolgersi degli eventi.
Un sobbalzo, e il cuore rianimato di vecchia vita martellò nel petto del abominio, disteso su quel letto di paglia. Sentì l'istinto di lanciare un grido, ma questo si spense in un debole sibilo. Intorno a sé le sagome di un luogo che riconobbe familiare: Pietà in un angolo, vicina allo scrigno con i suoi averi e i materiali da lavoro. La giovane matrigna Calime nell'altro angolo della tenda, abbandonata ad un profondo sonno, non sembrava essersi accorta del disagio del redivivo. Martin giammai si scompose, invero in quest'occasione, mai come in altre, la sua flemma vacillò; non sconfinando ad attimi nella follia. Soglia che, data la sua indole, mai varcò; era un limite dal quale si teneva sempre alla larga anche per motivi professionali. Il mezzodemone portò le mani alla testa, quasi schiacciandosi le tempie, come a voler trattenere qualcosa. La ragione? Erano anni che Martin, sbracciando goffamente nel buio dei propri incubi, delle proprie vacue ambizioni, cercava freneticamente il fine del suo essere. Qualcosa gli stava strozzando il debole respiro, gli lacerava l'anima, aveva dilaniato la serena apatia che, fra le più grame pene e taciute lacrime, per anni aveva poggiato in bilico su una base di fragile cristallo. Avrebbe voluto rendere manifesta quella sua incontenibile sofferenza - semplicemente non ci riusciva. A stento cercava di evadere il soffocamento: in condizioni del genere, come avrebbe mai potuto urlare? Come avrebbe mai potuto chiedere soccorso?
Come avrebbe potuto non essere solo?
Il sublime dell'incompiuto, orrore di mille aghi piantati nello spirito,
è esperienza autentica finché vissuta come tale. Nel proprio abbandono.
« Un sogno … » furono le uniche parole che, scosso, riuscì a mormorare. Espirò profondamente, alzò un sopracciglio cercando di regolarizzare il moto del suo diaframma: « Un incubo? » Sogni meno gradevoli potevano capitare a chiunque, ma il cacciatore era abbastanza sicuro di aver fatto esperienza di qualcosa che valicasse il puro concetto di onirico. Si girò dall'altra parte del sacco nel disperato tentativo di procacciarsi qualche altra meritata ora di sonno. Inutile aggiungere che vani furono i suoi tentativi, dacché fra gli strati del suo cervello riecheggiava insistente una parola. Una meta, una destinazione che egli – senza spiegarsi come – accettò come nota, pur non essendovi mai stato.
Kar'Warid.
Lontano dall'Edhel e dai suoi ritmi, dai suoi cicli di ostilità e bellezza. Mai visitò quel luogo, ma avrebbe scommesso entrambi gli occhi che il suo obiettivo si trovasse ai piedi del deserto del See. Era una sensazione unica, quella di sapere e non sapere esattamente dove volesse andare. Sapeva solo che, qualora fosse arrivato, ne avrebbe acquisito consapevolezza. Le mani tremavano fameliche, il suo animo ridesto si elevava al di là dell'orizzonte schiarito dalla sola luce lunare, e in esso si scioglieva inerme ma quanto mai vivo. S'apprestò al suo equipaggiamento e alle sue cianfrusaglie, iniziò a sistemarle con perizia nei bagagli che avrebbe portato con sé. Si premurò di estrarre dal suo scrigno – senza curarsi troppo del rumore prodotto – tutto ciò che sarebbe potuto, in momento di necessità, dimostrarsi utile. Munizioni, corde, pochi scarti d'artigianato, esche e provviste per giusto un paio di giorni – il resto del cibo l'avrebbe procacciato a modo suo, in guise non sempre meritevoli di lode: questo ed altro impilò solerte nella borsa che avrebbe caricato sulle strette spalle. Calime, destata e turbata dallo sferragliare molesto di Martin, gettò un'occhiata stanca all'esile figura che si apprestava ad abbandonare la tenda.
« Cosa stai … dove stai andando? »
Il demone drizzò il capo, colto in flagrante dalla voce dell'elfa. Si voltò per un istante, praticamente d'istinto, solo per verificare che la voce appartenesse davvero a Calime. Le si rivolse con la sua voce asmatica, fine come il sibilo di un basilisco:
« Io … credo di aver visto qualcosa. »
« Cosa? È nella pineta? »
« No, » s'interruppe pensieroso. Era conscio del assurdo di cui si stava per fare araldo.
« ... credo fosse nei miei sogni. »
Calime alzo gli occhi al cielo, voltandosi dall'altro lato del sacco. Da tempo aveva perso il controllo sulle azioni del figliastro e, ne era certa, anche questa volta avrebbe compiuto qualche scelleratezza. Ora farfugliava di sogni, di visioni. Ma quale cuore avrebbe mai potuto accogliere simili congetture, probabilmente frutto di mere suggestioni e intrinseche paure?
« Da quando sei diventato un Neiru? » sbottò con saccenza.
Un'arteria sul collo di Martin si gonfiò, il suo sguardo si fece severo e la voce cupa.
« Non ho bisogno che tu comprenda.
E non mi sembra che a qualcuno sia davvero mai importato
della puzza del mio denaro. »
« Sei tu che non comprendi, sciocco. »
Martin non proferì oltre.
Nessuna parola dei mortali avrebbe potuto carpire e racchiudere in sé il terrore che gli albergava in corpo,
né circoscrivere e riassumere quello che si manifestò al ragazzo in sogno.
« Mi dirigo più a sud, nel Dortan. »
« Capisco. Buon viaggio, allora. »
Scostò un lembo della tenda, ed uscì senza voltarsi indietro.
Non volle incrociare il viso di Calime rigato dalle lacrime.
Il pellegrinaggio durò cinque giorni, scanditi dalla disorganizzata alternanza di trasporti di fortuna e tratti percorsi interamente a piedi. Ad ogni passo, Martin avvertiva il clima mitigarsi e il calore permeare nelle sue gracili ossa. Quel tepore a cui non era solito abbandonarsi ben presto divenne arsura, e le sconfinate, labirintiche foreste di conifere degradavano in un paesaggio sempre più spoglio e diametralmente ostile. Nell'aria gli aromi di una civiltà reduce di una secolare trama d'inganni, sangue, potere e illegalità; ed irripetibile la cittadina si erigeva a fatica sulle ossa di chi aveva dato la vita per cambiarne il nefasto corso. Negli occhi di chi calcava quelle strade v'era stanchezza, rassegnazione; uomini, donne e mostri d'ogni tipo accomunati dall'odio verso le taciute angherie dei potenti, ma complici dell'omertà di quel nucleo di degrado. Il cacciatore, forse per la prima volta in vita sua, non si sentì oppresso dall'ignorante disapprovazione comune: semplicemente, ognuno era troppo preso dalle proprie losche mansioni per dar effettivamente conto della natura di Martin. Nondimeno fu complice il fatto che, nella penombra dei vicoli, s'aggiravano sicari ben più noti alla popolazione per le loro efferatezze, al confronto dei quali Martin poteva sembrare solo un bandito da quattro soldi. Il giovane si fece largo fino alla piazza principale, guizzando con sapiente destrezza fra la gente riversatasi in quelle strade sovraffollate.
Era lì che la figura l'aveva chiamato a sé. Ma a quale fine?
L'unico martellante pensiero che mai lo congedò fu il ricordo di quella notte.
Quelle immagini, quel dolore non potevano che essere autentici.
Il richiamo di un ciclo eterno, il destino che, beffardo,
dalla penombra sorrideva ed annuiva.
Chi era l'uomo – per quanto nulla avanzava della sua umanità –
che in quella valle lacerò le viscere del demone?
Chi era il figuro che lo richiamò a sé e alla dimensione del reale?
In quella piazza Martin fu sotterrato dai suoi pensieri,
mentre lanciava uno sguardo vuoto verso il mercato che non sembrava curarsi della sua presenza.
Avevano affari ben più concreti da trattare dei dubbi di un folle.