Lithien era diventata la sua oasi di pace, la sua terra promessa. Nei corridoi lunghi, tra stanze alte e torri che si allungano verso il cielo come dita pallide, Ral, inventore itinerante - da pochissimo - già accarezzava l’idea di abbandonare ogni proposito di ricerca esterna ed insediarsi stabilmente nella città magica. Riemerso dal Baathos con Afrah e compagni, per il Mastro bibliotecario non era stato difficile convincerlo a fermarsi qualche giorno, giusto il tempo di ristorare le energie perdute e riguadagnare qualche ora di sonno arretrato, cosa che aveva accettato di buon grado anche se adesso la situazione sembrava aver preso una piega ridicola. Lo slancio con cui il tecnomago s’era lasciato alle spalle l’accademia dove aveva studiato una vita intera era andato via via scemando, giorno dopo giorno soffocato dalla sicurezza che le mura spesse di Lithien gli offrivano. Oggettivamente, di cosa aveva bisogno di più? Le pareti di ogni singolo muro grondavano, quasi letteralmente, conoscenza. V’era racchiuso nella cittadella lo scibile del mondo conosciuto e non, lì, si trovavano libri persino sull’Oneiron, sui piani astrali, sulle dimensioni parallele. Testi antichi e profondi, come quelli sui Daimon di Theras, e racconti banali, cronache, resoconti di viaggi ai confini del continente. Tra tutto questo, interessante fino allo sfinimento, aveva racimolato solo qualche pugno di informazioni circa l’origine dei golem, il suo campo di studio. Aveva scoperto che si rifacevano a T’al, il Dio creatore, suoi costrutti che regolavano il mondo, ma nulla più. Per la sua ricerca era arrivato ad un punto morto e lo sapeva, ma guardandosi intorno non riusciva a trovare la forza di rimettersi in moto, ripartire, per continuare quel viaggio che lo aveva già convinto una volta alla ricerca spasmodica di quella che lui chiamava la scintilla. Quindi sì, aveva deciso di andarsene. Ma senza fretta.
Il bagliore tenue emanato dai suoi palmi ruvidi illuminava un poco lo scaffale su cui la coperta rigida del tomo andava a prendere posto. Il dorso si incastrò perfettamente tra i suoi due vicini, ristabilendo l’ordine. Lo sbuffo di polvere che venne fuori non lo infastidì quando gli andò a stuzzicare le narici sensibili, anzi. Il caratteristico odore pungente della polvere lo affascinava, aveva il sapore di secoli e di storia, non ne avrebbe fatto mai a meno. Così come della solitudine in cui s’era rinchiuso. Erano passati mesi, oramai, da quando Lithien era diventata la sua dimora ed ogni fibra del suo corpo ne era stata assorbita. Acqua, cibo, riposo, non gli erano più necessari tanto il compito affidatogli era gravoso. L’inventario e la catalogazione della - quasi – onniscienza non era cosa da poco. Aveva imparato tanto su questa che era a tutti gli effetti un’arte. I materiali, la collocazione, la gestione di reperti particolari come le pergamene, talmente tanto antiche da potersi sgretolare al minimo tocco se le mani non fossero state adeguatamente protette da un incantesimo particolare che le rendeva quasi eteree. In cima alla torre ovest, Ral aveva quasi finito. Era l’ultimo piano e sembrava incredibile che, alla fine, ci fosse arrivato. Sembrava irraggiungibile vista dal basso, così liscia e slanciata, quasi anonima tra le mille altre che caratterizzavano Lithien, però era quella che gli era stata affidata dal curatore, che aveva bisogno della manutenzione interna che uno con le sue – alquanto scarse – competenza archivistiche poteva gestire. Prese un sospiro e passò al prossimo libro che, stranamente, veniva illuminato da un raggio di sole che penetrava da una finestra che dava su un minuscolo balconcino. Storse il naso. Non il massimo che la luce colpisca direttamente il tomo, per la conservazione. La lunga ricerca di Septimus Heap ed il suo incontro con Alan Watford signore dei Mantoscuro. Lesse divertito. Chissà di cosa parlava! Lo sfogliò senza prestarci realmente attenzione, colpito dalla grafia squadrata e dalle illustrazioni grossolane, che parevano disegnate dalle mani di un bambino maldestro. A quanto pareva il libro era stato scritto dallo stesso Septimus in persona. Che personaggio! Venne interrotto da un rumore di passi. Nemmeno si voltò, a dire il vero, perfettamente sicuro si trattasse del vecchio brontolone, pronto a controllarlo e redarguirlo su ogni minuscola sbavatura nel lavoro. Va tutto bene. Sbottò infastidito accompagnando il gesto con la mano illuminata. Ma non era lui. Era Jace Beleren, il Cartomante.
Il tomo, rilegato malamente, si chiuse con un tonfo sordo. Un favore importante? Da Lui? Al Cartaio? Roba da ridere. Ma lui non rideva, anzi, ed il sorriso abbandonò velocemente il volto dell’inventore, che aveva piacere a rincontrare Jace, ma non in circostanze così seriose. Aveva bisogno di un favore, chiedeva gracchiante dal tavolino squadrato che ogni tanto gli serviva da piano di lavoro. Ossia? Gli chiese perplesso. Non che non volesse aiutarlo, ma l’ultima volta che s’era buttato a capofitto in una sua impresa si era ritrovato per settimane disperso all’inferno. Quindi aspettava ad accettare. Devo affrontare una prova, mi serve qualcuno di competente ma che non sia una persona che mi è devota. Qualcuno di cui devo conquistare la fiducia. Per come è in subbuglio l'Edhel persone del genere si contano sulle dita di una mano. Si tratta di qualcosa di molto rischioso, affrontare una montagna stracolma di sciamani ribelli e rubare una gemma. Cosa volete in cambio, Ral? Il tecnomago si grattò il mento ruvido, pensoso. Guardava serio Jace che gli chiedeva un favore di tale portata. Pareva avere un gusto perverso nell’infiltrarsi nelle viscere della terra infestate da esseri potenzialmente letali. Da quando lo aveva conosciuto non aveva fatto altro che trascinarlo in situazioni del genere. Aveva davvero senso rischiare la vita solo per uno strano sentimento di gratitudine? Tanto valeva chiedere quello che voleva davvero, qualcosa che forse solo lui poteva dargli, qualcosa di quasi impossibile. Cosa voglio? Gli fece infine con tono leggermente beffardo. La Conoscenza, Mastro Cartaio. La via. Fece serio. Quello per cui sono partito. Ciò che crea la vita, la coscienza e tutto ciò che può rendere a tutti gli effetti un golem identico ad un essere vivente sotto qualunque forma, dalla formulazione di un pensiero all'espressione di un sentimento. Il suo sguardo fisso non lasciava dubbi. Lo cercava davvero tutto questo, lo voleva e adesso intravedeva un’occasione. Puoi darmelo? Gli promise tutto ciò che sarebbe stato in suo potere. Ed era quello di cui aveva bisogno, quanto bastava.
Era incredibile come quell’uomo lo sorprendesse. Dalle calde mura sicure di Lithien si era ritrovato su una barchetta minuscola insieme ad un sacco di altra gente, una più strana dell’altra. Jace, dei traghettatori, Cancro – che pareva avere un risentimento abbastanza radicato nei confronti del cartomante – ed un altro uomo, Seregon, gli era parso di capire, che spiccava tra tutti per la mole enorme. Durante il viaggio sulle placide acque del fiume apprese di uomini e sciamani, di Thyrsus puri e di corrotti, di essersi imbarcato in un’avventura che sarebbe finita con l’acclamazione d’un re e che tutto ciò sarebbe dipeso anche da lui. Un sogno ad occhi aperti, un’avventura fantastica, una gemma da sottrarre ad un re potente e vanaglorioso, crudele oltre ogni limite, una storia degna del più bel romanzo che avesse mai letto, adatta al più fulgido eroe che potesse immaginare. Ral si guardò intorno, stranito, mentre le pagaie raschiavano il fondale sassoso e la prua dell’imbarcazione raggiungeva la riva. Non vedeva, lì intorno, nessun paladino armato di tutto punto, rilucente ai raggi del sole, solo gli sciamani straccioni che avevano fatto da traghettatori e cantastorie, Cancro, Jace e Seregon. Come diavolo gli era venuto in mente di accettare? Accanto a quell’uomo enorme che Cancro aveva portato come suo campione si sentiva una formica pronta ad essere schiacciata dal suo stivale. A guardarlo bene e da vicino era certo di risultare agli occhi del Cartomante ben meno prestante ed affidabile, nettamente inferiore in tutto e per tutto e si chiedeva se, come lui stesso già faceva, non si foss pentito di aver fatto ricadere la sua – forse - prima scelta proprio su di lui, con tanti uomini valenti in quel di Theras. La boccetta che portò alle labbra conteneva un liquido arancio, amaro oltre ogni limite e che lo disgustò. Non ebbe il tempo di soffermarsi sui suoi compagni, o avversari che dir si voglia, perché fin dall’interno venne squassato in men che non si dica. Le sue viscere vennero straziate, messe su un banco da macello e dilaniate, le sue ossa triturate, il suo petto esplose ed i suoi occhi schizzarono fuori dalle orbite. Mani e piedi si addormentarono, cadendo e lasciandogli solo dei moncherini sanguinolenti e la lingua gli si gonfiò e lo strozzò mentre provava ad urlare dolore e sangue. Tutto ciò che ottenne fu vomito e lacrime salate, gemiti ed ansimi e quando riaprì gli occhi si ritrovò ad avere la faccia conficcata nel terreno verde ed alcuni fili d’erba a solleticargli le narici che ormai non c’erano più. O meglio, c’erano, ma non erano più quelle d’un tempo. Strizzò le palpebre, infastidito dal sole, guardandosi intorno per poi soffermarsi sulle proprie mani. Non c’erano parole per descriversi, le aveva perse contorcendosi come una mammoletta sul terreno. Le sue lunghe dita, tre per arto, sembravano ridicole e minuscoli – inutili, gli suggeriva una vocina cattiva nella testa - rispetto al palco nero di corna che adornava il capo del fu Seregon. Cancro esibiva una coda da scorpione, Jace due specie di ali scheletriche. Provò a dire qualcosa, ma tutto ciò che provava a fare veniva interrotto da ogni singola percezione, cambiata, mutata, che gli restituiva suoni, immagini ed odori a scatti, inframezzati da secondi di buio e silenzio. Si rassegnò al silenzio, ancora attanagliato dai crampi e dal dolore, per poi seguire quello che era diventato, nuovamente, la sua guida. Strascicava i piedi, Ral, arrancando sul terreno duro ed affondando le lunghe unghie dei piedi nella terra, lasciando dietro di sé solchi profondi che chiunque avrebbe potuto vedere e seguire. In quella condizione, col sole che gli batteva la testa calva e la pelle che pareva gli si seccasse ogni secondo di più, raggiunsero una sorta di radura. Proprio lì in mezzo, alcuni esseri bianchi, aleggianti ed eterei come mante, circondati da scariche elettriche li bloccarono. Che fare? Li avrebbero riconosciuti come loro simili? Anche loro erano Thyrsus o semplicemente bestie infestanti l’ambiente naturale? Nessuno si muoveva, nessuno diceva nulla. Semplicemente ci si osservava, si aspettava la prima mossa falsa, che arrivò di lì a qualche istante dopo, gesto non proprio amichevole e d’accoglienza, sotto forma di scarica elettrica diretta ad ognuno di loro. Il fulmine a lui destinato si bloccò a mezz’aria, brillante e vibrante, smolecolato nel giro d’un battito di ciglia. Impaurito, si rifugiò dietro la sua guida, dietro Jace il Cartomante, colpito invece e leggermente ferito. Perché questi fratelli ci attaccano? Gli chiede con voce alta e sibilante, tremante di spavento e quasi piagnucolosa. Non ottenne risposta, ovviamente, anzi, quasi un rimprovero. Ricordava cosa avevano detto gli sciamani, ma non era stato in grado di controllarsi, autogestirsi, ancora bloccato dagli strascichi della pozione. Approfittò dell’incanto di invisibilità di Cancro, grato e in silenzio, per oltrepassare le bestie, sbuffando aria calda dalle narici fini. Un’ora di marcia fu sufficiente a portarli all’inizio di quella che Ral già sapeva sarebbe stata la fine. Addentrarsi nella montagna era aperto a due opzioni: una più furtiva, l’altra diretta. Inutile dire a lui la sorte riservò la peggiore. Inutile anche dire che rimpiangeva Lithien più di ogni altra cosa.
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