Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Grida dal Cielo ~ Corsa all'Oro, Storie dell'Edhel

« Older   Newer »
  Share  
.Neve
view post Posted on 11/8/2015, 14:43




Tick
Tock
...

Tick
Tock


Le goccioline d'acqua picchiettavano sulla fronte già bagnata.

Non era calore che abbracciava il suo corpo rinsecchito, solo umido ad impregnare quella parvenza d'essere. Lo sentiva appiccicarsi sulla pelle lucida, farsi strada tra le membra e avvolgerlo. Soffocante. Quasi una patina di sporco viscido che non faceva nemmeno respirare quella sua corazza raggrinzita. Boccheggiava e ansimava in quella coltre di vapore acqueo, si agitava con le zampe e con la pancia. Supino come un neonato inerme riverso su quel suolo di lordura. Odiava quel posto. Odiava quella terra fresca, rigogliosa e malata al tempo stesso. Odiava l'erba, le foglie ampollose e lanceolate, gigantesche nella loro apparenza, tali da ricoprire interi individui, sagome o animali in attesa in quel campo di morte. E mentre il cielo si oscurava di impenetrabili manti azzurri e violetti, non una stella intravedevano i suoi occhi bulbosi, le sue iridi sfacciate, aperte al mondo e a quella foresta tanto grande e tanto aliena. Il demonietto si alzò ritto sulle sue quattro zampe, inghiottendo l'aria in un'ampia boccata, quasi a voler espandere tutta la sua cassa toracica rachitica e racchiusa in un minuscolo e debole esoscheletro. Era rintanato in quella caverna muschiosa da giorni, forse settimane, con l'unico ordine di attendere altri ordini. E rimanere lì, fermo, in silenzio. In attesa di cosa poi glielo avrebbero spiegato in seguito. Non aveva protestato quando il Signore delle Maschere aveva preteso la sua immensa e pomposa invasione nelle terre degli uomini di sopra. Anzi, ne era più che fiero e orgoglioso. Lui, inutile Tergan della peggior specie, blando incrocio tra un mammifero e una demonaccia, tra un cinghiavolo ed una specie di femmina senza grazie né virtù. Il più inutile e debole essere del sottosuolo.

A vederlo in quel modo pareva proprio una di quelle tanto temute aberrazioni che spopolavano le terre dell'Edhel. Eppure egli apparteneva alla - non poi tanto - fiera razza dei demoni. Quadrupede, ma in grado di reggersi sulle due zampe anteriori allorché lo volesse e addirittura di utilizzare quelle posteriori per afferrare utensili e corbellerie. Nemmeno un pelo su quel corpo rosa e liscio quanto il culo di un bambino, non una macchia o un neo, solo pieghe obbrobriose sotto gomiti e ginocchia. Nessun capello. Un muso che a guardarlo pareva quello di un suino, con quelle graziose e monche zanne che facevano sembrare la sua bocca bavosa ancora più larga. Due occhi che chiedevano pietà ancor prima di essere sfidati. L'unica cosa carina era forse quella sua coda liscia e scodinzolante. Insomma, un vero schifo. Ma lui era il demonietto più bello della corte, a sentire a mamma. Una gioia. Una vera gioia. Non avrebbe fatto male a una mosca nemmeno se si fosse davvero impegnato. A che servivano quelle sue zampette informi, tanto corte da non riuscire a farlo correre decentemente? O quella bocca priva di denti acuminati, quel corpo grasso e sgraziato? Fosse giunta l'ultima ora della sua vita, o della vita dei suoi compagni, non sarebbe stato in grado neanche di scappare per salvarsi la pelle.

Tick
Tock

...

Tick
Tock


Continuava a cadere, implacabile e solitaria.
Quella gocciolina d'acqua sulla fronte.

Si scostò leggermente, infastidito da quest'ennesima seccatura. Avrebbe voluto ritornare di sotto, divorare qualcosa, anche solo grufolare dell'erba. E invece sotto c'era più morte che vita. Non c'era più nulla da mangiare nemmeno per i predatori. I suoi simili si scannavano tra di loro e poi si azzannavano per le carni e le ossa. Creavano bande malmesse, squadroni di demoni senza capo né coda, senza padroni. Individui che andavano di qua e di là per la sopravvivenza e la supremazia. Nessuno aveva ormai più pace in quel luogo soffocato. Quando erano risaliti sulla superficie per la prima volta, aveva potuto conoscere le ricchezze di quel luogo tanto vasto quanto immaginifico. L'Edhel era un vero paradiso ai suoi occhi. C'erano boschi, montagne, animali e cibo a volontà. C'era tutto ciò che avesse potuto desiderare per vivere. Eppure, tutta quell'arietta fresca e quella strana libertà inaspettata gli stava facendo girare la testa. Vagava inerme e intontito, drogato di quell'etere. Schifato di tanto e inusitato candore.

"Sfgradevole...
Davvero, davvero, sfgradevole..."



1535w1x
Mormorava tra sé e sé, impastandosi la bocca bavosa con quella strana pronuncia sgraziata che si ritrovava fin da cucciolo. Quanti motteggiamenti per questo, quante prese in giro, burle, scherzi di cattivo gusto. Ma la sua mamma la trovava de-li-zio-sa. Come contraddirla? Come deluderla adesso che si trovava alle dipendenze del Sovrano? Continuò a camminare, stanco di quella sosta forzata. Voleva essere utile in qualche modo, aiutare nell'invasione e perché no, prendere a calci qualche essere di sopra. Gli unici incontri ravvicinati con quegli strani individui e animali lo aveva avuto in un modo non del tutto piacevole. Durante una delle tante ricerche di cibo, aveva trovato un nido incustodito con delle belle e grandi uova da succhiare. Ma quando aveva posato le sue zampette su di esse, la cosa non doveva essere tanto piaciuta alla madre che si era precipitata su di lui, starnazzando e beccandolo da tutte le parti. Era fuggito via. Mai più uova e cipollotti, si era detto. Mai più.

Così, mentre zampettava di qua e di là, brancolando nel buio, i suoi occhi socchiusi non riuscirono a scorgere l'ampia sporgenza che si dipanava da sotto i suoi piedi, e inciampò. Cadde sul davanti, con le zampe posteriori impigliate e quelle anteriori che si agitavano convulsamente come le alette di un colibrì. Imprecò nella sua lingua madre le cento e mille divinità del sottosuolo, poi cercò di rialzarsi, ma ancora qualcosa lo tratteneva. Con le zampine prensili che si ritrovava tentò inutilmente di strappar via quello strano impedimento che non lo faceva andare avanti. Era simile ad una liana, ma molto più dura e coriacea, quasi fosse il ramo di un albero. E in effetti si trovava proprio sotto ad uno dei grossi alberi secolari della foresta. Tirò, ancora più forte. Stringendosi a quella strana propaggine, sbuffando e contorcendosi sotto di essa con il muso di un suino rabbioso. Non sarebbe perito per il volere di una inutile pianta, no e poi no. E allora in un ultimo e immenso sforzo, strappò via quella che alla fine forse era una radice ben più tosta delle sue aspettative. La lanciò indietro, sfilacciandola e strappandola in tutte le sue parti. Da sotto di essa, quasi come fosse stato chiamato, un fiotto di sangue vermiglio si riversò sul demonietto, macchiandolo e deturpandolo. Gettò un urlo, in preda al panico, ma nessuno ebbe modo di udirlo. Si scostò via, all'indietro, terrorizzato, con le membra che tremavano e cercavano di scrollarsi di dosso quella patina vischiosa e maleodorante. Non credeva ai suoi occhiuzzi. Era proprio sangue, quello? L'albero intanto cominciava a borbottare, come fosse un vero e proprio pentolone pieno d'acqua bollente. Acqua di pece rossa che continuava a fuoriuscire da quella fessura della radice mutilata. Era ferito, era proprio ferito, per diavolo! Poi, ad un certo punto si chetò. Fermo. Immobile e in silenzio. Robe mai viste in quelle strane terre chiamate Edhel, pensò lui, ma nemmeno nel Baathos. Nemmeno nella più strana e profonda insenatura infernale. Si prese di coraggio, un coraggio che mai avrebbe potuto trovare in circostanze del genere, e si avvicinò. Adesso cauto, adesso preso da una strana e irrefrenabile curiosità.

Camminava pian piano, quadrupede adesso, fino ad arrivare all'imboccatura della radice spezzata. Sporse il testone dentro il buco.
Quello che vide non seppe spiegarlo nemmeno a sua mamma.


Pulsava.

Ammasso di carni maciullate, conglomero di sangue e ossa e cartilagini. Qualcosa di vivo, qualcosa di luminoso in quell'oscurità latente. Lo prese tra le zampe, incapace di credere a ciò a cui stava assistendo. Incapace di spiegarselo. E mentre lo teneva poggiato tra le sue dita tozze, quasi fosse un trofeo da esibire, egli ne aveva paura. Ne aveva paura e meraviglia assieme. Ne tastò piano vene e insenature, ne strinse con delicatezza il centro. Era un po' morbido e contratto allo stesso tempo. Quasi come un muscolo, avrebbe detto. Perché pulsava, pulsava continuamente e instancabilmente. E man mano era forte la sua eccitazione per quella strana scoperta e più quella cosa - no -, quell'essere continuava a pompare. Senza tregua. Lo strinse, ancora più forte a sé, come un neonato. Ne carezzò il capo, come un genitore. Ne baciò il centro, come un amante. Ne leccò i lembi, come un affamato. Lo voleva per lui e per lui solo. E, quasi come se se lo fosse chiamato, si sentì invaso da un'energia stupefacente. Una carica forte, un potere inimmaginabile.

"Quale Merafviglia!
Quale luce abbraffiano le mie membra mortali!"


Diceva, senza capire.
Come se le parole gli fossero state suggerite da qualcuno.

E mentre, di corsa, si allontanava abbracciando quel tesoro. Un grido distante lanciava da lontano.
Tronfio come il canto del gallo al mattino.

"Sono vivo!
Sono vivo!
Sono vivo!"

 
Top
0 replies since 11/8/2015, 14:43   98 views
  Share