Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Fetiales; Furūsiyya

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view post Posted on 23/8/2015, 17:18
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F E T I A L E S
~~o~~
Furūsiyya


{ Masut, sala del trono }


Le giornate da sempre erano scorse placide e sonnolente alla corte del Nu’man Uhl-Qaadir. Il giovane califfo aveva ereditato da pochi anni il trono di suo padre, ma nonostante il peso delle nuove responsabilità, nulla era valso a dissuaderlo dal seguitare la vita frivola che aveva condotto fino ad allora.
La città che presumibilmente governava, Masut, per quanto modeste fossero le sue dimensioni, era un nodo commerciale vivace e prospero. Fondata a ridosso della verdeggiante catena montuosa del Balkar, presidiava fiera il Passo degli Archi Rossi, da cui giungeva la più importante via commerciale della zona. A costruire la sua fortuna erano stati i cantieri per lo scavo del nuovo grande canale navigabile a sud-ovest e per l’ampliamento delle fortificazioni sulle montagne settentrionali, per non parlare delle innumerevoli cave di alabastro e delle miniere di ferro e argento che ovunque mutilavano e crivellavano i costoni rocciosi della regione. E tutte questi stabilimenti e grandi opere d’ingegneria richiedevano sempre e regolarmente una sola, preziosa e insostituibile merce: schiavi. A migliaia.
Masut era, di fatto, un formicaio di mercati e bazar pullulanti di gente, sia libera che incatenata, massicci e organizzati stabilimenti reclusori; persino la sua arena non conosceva rivali in alcuna città nel raggio di quattrocento miglia, e quivi dimoravano ed esercitavano alcuni tra i migliori maestri gladiatori.

Lo schiavismo era compenetrato profondamente nella vita dei cittadini di Masut, tanto che gli schiavi erano presenti in ogni strato sociale, e perfino il califfo Nu'man e i suoi cortigiani ne avevano decine al loro seguito. Era una cosa normale, per tutti lo era sempre stato, e parimenti il giovane sovrano ben poco si curava delle loro condizioni.
In verità ben poco turbava la serena quotidianità di Nu'man, trascorsa beatamente tra lussi e divertimenti. Egli stesso ne era ben cosciente, sebbene non lo ammettesse apertamente: non era tagliato per la vita politica. Durante le udienze e le interminabili assemblee del Consiglio lo si poteva vedere accoccolato sull'alto e prezioso trono sovrastato da un imponente baldacchino di seta porpora, lo sguardo assorto, perso fuori dalla finestra che volgeva ai borghi della cittadina, con le sue torri di arenaria e le cupole bombate d'ottone che la luce riflessa faceva brillare come secondi soli, stagliandosi splendenti sulla bruna catena montuosa all'orizzonte. Presenziava al suo ufficio solo per questioni d'immagine, lasciando le faccende di stato al suo visir e ai consiglieri della Giunta, ma i suoi principali pensieri andavano alla passeggiata pomeridiana tra i portici e i giardini allagati in compagnia della sua sposa, Nadeera, e alla rivincita a scacchi che lei gli avrebbe dovuto. E poi alla cena che come sempre consumava nella sala della musica insieme ai suoi amici e a tante graziose danzatrici, scelte appositamente tra le più belle schiave sul mercato, il tutto al ritmo soave di un'orchestra d'archi, legni e timpani.
Quella mattina, però, ben pochi pensieri sereni furono in grado di attraversargli la mente quando una notizia ben poco rassicurante raggiunse la corte, gettando il Consiglio nel caos ancor prima di iniziare la prima assemblea della giornata.

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«Tutto questo è assurdo, ridicolo!» «Dodici carovane sono sparite e nessuno ha ancora fatto nulla?» «Cosa diavolo stanno combinando gli avamposti di frontiera?!»

«Silenzio in sala, nobili di Masut. Ricomponiamoci e ricapitoliamo l'ordine degli eventi con calma e disciplina.» In piedi al centro della stanza, l'anziano visir Sum Kadhir nelle sue solite vesti sgargianti si sbracciava per ristabilire l'ordine. Attese qualche secondo finché il tumulto nella sala del trono non si fosse calmato a sufficienza, poi si schiarì la voce e ricominciò a parlare. «Nelle sei settimane scorse dodici carovane cariche di schiavi e altri beni di varia natura sono partiti da Adinos, oltre le montagne, alla volta di Masut, ma nessuna di esse è mai arrivata a destinazione. Ognuna è seguita da scorte armate consistenti e preparate, inoltre i mercanti alla loro guida conoscono molto bene la nostra regione. È vero che la spiegazione più plausibile che potrebbe sovvenire alla mente è quella dei briganti, o la comparsa di creature pericolose nel nostro territorio...» Il suo volto si fece cupo. «...ma analizzando la situazione emergono elementi estremamente oscuri. Tutti sappiamo che è compito degli avamposti di frontiera occuparsi dei pericoli minacciano la nostra principale rotta commerciale, ma non riceviamo alcun messaggio da loro da settimane. I mercanti e i carovanieri hanno paura, e già ci è arrivata notizia che molti tra essi hanno già deciso di evitare la nostra rotta e battere altre vie meno pericolose, e lo sappiamo tutti quali saranno le conseguenze.»

«Ci state dicendo che Masut rischia di essere tagliata fuori dalle rotte carovaniere?» «È assurdo! Il nostro mercato andrà in malora.» Altre voci turbate si alzarono dagli spalti della sala del consiglio. La giunta iniziò nuovamente a rumoreggiare.

«Esattamente, miei signori.» Enunciò Sum Kadhir in tono fermo, agitando su e giù i palmi delle mani in ampi gesti cercando di quietare nuovamente gli astanti. «La nostra città rischia di trovarsi sull'orlo di una crisi, forse la più grave degli ultimi cinquant'anni.»

Fu a quel punto che dal lato del trono si fece avanti un uomo dal fisico imponente. Vestiva un'armatura a piastre dorata e i sui capelli e la sua barba nera erano corti, longilinei e ben tagliati. Camminò con passo sicuro fino al centro della stanza, sfoggiando un mezzo sorriso spavaldo, trasudante di pungente beffardaggine.

«Ciò che avete detto mi sembra eccessivo, Gran Visir. Da quel che ho udito, ora come ora la situazione non sembra precludere una soluzione a portata di mano.»

Sum Kadhir sospirò malcelatamente irritato non appena riconobbe quel tono. Gli rispose pacatamente, senza nemmeno voltarsi per guardare l'uomo in faccia.

«Capitano Amrat, voi siete il comandante delle Guardie Reali, non un membro del Consiglio. Vi interpelleremo noi qualora avessimo bisogno di una vostra opinione.»

Amrat ignorò le parole del vecchio, inarcando anzi ancora di più il suo sorriso mordace.

«Invece credo proprio che avrete bisogno del mio aiuto.» Proseguì, rivolgendosi prima al visir, poi alla corte e alla fine al giovane sultano, rivolgendo a quest'ultimo un malcelato sguardo ruffiano. «Sono già perfettamente informato della nostra situazione. Anzi, mi sono permesso di inviare alcuni dei miei uomini migliori in ricognizione. Scommetto che in questo momento saranno già sulla via del ritorno con importanti informazioni sul nostro... "problema".»

Il gran visir si voltò di scatto verso di lui, aggrottando le sopracciglia. «Non dovevate. Non era necessario, ho già affidato a Zuben e ai suoi schiavi guerrieri l'incarico di occuparsi del caso.»

Nell'udire quel nome, il sorriso sul volto di Amrat si spense di colpo, come s’egli provasse un immane fastidio al solo sentirlo nominare. Avanzò lentamente verso il vecchio e avvicinò la bocca al suo orecchio in modo che solo lui potesse sentire.

«Hmpf! Schiavi... non ho mai capito questa nuova moda di mettere le armi in mano a una massa di vermi e addestrarli come bestie da guerra senz'anima. Potevate almeno avvertirmi; il solo pensiero di essere stati messi da parte in occasione di una crisi tanto importante è un disonore per me e i nobili cavalieri della Guardia Reale. Da quanto tempo noi serviamo...»

«Ora basta!» Sum Kadhir, spazientito, si voltò di colpo, le labbra tremanti di rabbia, interrompendo la protesta del guerriero. Non badò ai numerosi consiglieri curiosi che dagli spalti circostanti tentavano di carpire invano il motivo della discussione privata, pur intuendone la natura, giacché tutti da sempre conoscevano il temperamento oltremodo superbo del comandante Amrat.
«Il tuo disprezzo verso gli schiavi guerrieri è ridicolo. Credi forse che Masut sia l'unica città del Bekâr-sehir ad addestrare gli schiavi per la guerra? I mamelucchi sono tra i migliori guerrieri dell'Akeran. Sono ciecamente fedeli al califfato e Zuben è uno dei più grandi maestri addestratori sul mercato. Inoltre essi onorano i sacri codici degli antichi cavalieri del deserto, cosa che dovreste fare anche voi.» Sospirò, cercando di riacquistare la calma. «Io conosco le vostre gesta e apprezzo ciò che avete fatto sinora per il califfato, so anche che eravate il favorito del defunto califfo padre, ma questo non vi permette di dettare legge a vostro piacimento come una volta, non più. I tempi sono cambiati: ora è il Consiglio a decidere quale sia il meglio per il regno e cosa no, per cui moderate la vostra arroganza e restate al vostro posto.»

Amrat non si lasciò intimorire dalle parole del vecchio, ma anzi continuò a guardarlo con un palese sorriso di sfida, quasi divertito. Aspettò finché il visir non gli concesse un minimo spazio per ribattere, prima di rispondergli per le rime.

«Voi inviate schiavi a cercare carovane di schiavi.» Scosse gravemente la testa, abbozzando un'espressione che a stento nascondeva un certo sarcasmo. «Davvero ritenete saggia una cosa simile? Mandare degli schiavi privi di alcun amore verso la nostra città a scorrazzare liberi e armati per le terre selvagge senza nessuno che li controlli? In quanti scapperanno di fronte al pericolo? In quanti torneranno?»

«Siamo già tornati.»


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Una voce roca e profonda echeggiò da un punto imprecisato della sala, anticipando prontamente la risposta del visir, già in procinto di replicare. Al solo udirla, ogni voce nell'aula si zittì; persino il califfo irrigidì ogni muscolo del suo corpo e si aggrappo saldamente ai braccioli dello scranno.
Dall'ombra emerse una figura alta e longilinea, vestita di una minacciosa armatura a scaglie nere a cui erano allacciate due possenti scimitarre, pendenti dalla schiena. Nella mano destra reggeva un grosso sacco di tela. I suoi capelli del colore dell’ossidiana erano corti e ben ordinati, leggermente brizzolati, e il suo mento era ornato da una barba a punta dalla forma così netta da sembrare un pugnale affilato. Un fitto intrico di rughe e cicatrici di guerra gli ricamava il volto, vestigia di decenni di duelli e battaglie passate. Nonostante l'età che mostrava, dalle sue movenze vigorose e la voce aitante e sicura pareva che la vecchiaia non lo avesse mai toccato. Incrociare lo sguardo dei suoi occhi ambrati era però ciò che più faceva gelare il sangue nelle vene: era glaciale, penetrante e, indifferentemente da qualsivoglia espressione il suo viso assumesse, restava smorto, privo di qualunque emozione umana.
Egli era Zuben, il Gran Maestro degli schiavi guerrieri.

«La fedeltà dei mamelucchi è assoluta.»

Rispose l'oscuro figuro ad Amrat, raggiungendo anch'egli il centro della stanza senza nemmeno degnarsi di guardarlo in faccia.

«Non esiste fuga dal nostro credo, non esiste paura al calare della tenebra.
Non esiste vita nella nostra esistenza,
poiché quando un nuovo schiavo guerriero viene alla luce, egli è già morto.
E pertanto non vi è morte che egli tema.

Il cavaliere mamelucco deve essere il guerriero esemplare e il servitore perfetto.
Così recita il codice marziale, così recita il Furūsiyya.
»


Così esordì, e raggiunse il visir ignorando lo sguardo pieno di sorpresa e sdegno del comandante.

«Vostra grazia, sono tornato a fare rapporto.» Disse, passando lo sguardo da Sum Kadhir al califfo, rivolgendo prima a uno e poi all'altro un rapido ma rispettoso saluto marziale.

«Ebbene, dicci. Hai trovato qualcosa?» Rispose il visir, invitandolo a parlare davanti alla corte.

Zuben fece un cenno di assenso col capo, ma non disse nulla; infilò invece una mano nel grosso sacco che portava con sé, ne estrasse fuori qualcosa e con flemma imperturbabile la gettò a terra in mezzo alla sala, in modo che tutto la vedessero. A prima vista l'oggetto assomigliava a un drappo di tessuto consunto di colore marroncino. Alcuni lembi erano flaccidi e stracciati, ma la maggior era invece rigida e più scura, come della consistenza del cuoio.

«C-Cos'è?» Domandò il giovane califfo Numar allungando il collo in avanti per vedere meglio.

Zuben rispose pacato, senza esitazione. «È l'indumento che gli dei hanno donato a ogni essere umano, sire.»

Vi fu un attimo di silenzio, ma appena gli astanti riconobbero su quella massa informe ciuffi di capelli e i tratti somatici di un corpo, con orrore capirono cosa avevano davanti.
Amrat osservò la pelle umana con vivo disgusto, per poi avanzare furioso verso Zuben.

«S-Screanzato! Come osi portare una simile turpitudine di fronte al nostro nobile sovrano?!» Berciò, cercando di sovrastare il vociare convulso che era scoppiato nella sala, puntando il dito contro il guerriero nero, quest'ultimo però non parve minimamente turbato dalla minaccia o dal tumulto che aveva scatenato il suo gesto, restò anzi impassibile e altero sull'attenti di fronte al califfo, come se considerasse scontato che un sovrano dovesse essere cosciente degli orrori che accadevano nel regno.

Il visir fu pronto a frapporsi tra Amrat il guerriero. «Zuben, che significa questo?!»

«Ho trovato le carovane.» Spiegò con compostezza. «Sono state annientate, dalla prima all'ultima, in prossimità della Valle Rossa del Ronan, lungo la via commerciale.» Rispose, tetro. «Non si è salvato nessuno, né uomini, né soldati, né donne. Li abbiamo rinvenuti così, scuoiati come bestie e lasciati in pasto alle fiere selvagge, e i carri dei convogli adornati con le loro pelli. Le guarnigioni dei tre avamposti che presidiavano la vallata le abbiamo trovate nel medesimo stato. Cavalli, merci e vettovaglie sono spariti, e così anche tutti i bambini che seguivano le carovane. Nessuna traccia degli schiavi.»

All'udire quell’orribile resoconto tutta la corte trasalì, facendo calare nella sala un silenzio colmo di paura.

«Cosa? M-Ma è terribile!» Intervenne per primo Amrat, non nascondendo anch'egli un certo sgomento, e parlò a tutte gli astanti. «I miei uomini sono sul posto! Quaranta cavalieri pesanti, pronti a intervenire. Aspettano solo un mio ordine e...»

«Abbiamo trovato anche loro: sono tutti morti.» Lo interruppe Zuben, sempre impassibile.

Il capitano delle Guardie Reali sbiancò a quelle parole, restò per un attimo come assente, incredulo, spiazzato, aprendo e richiudendo ritmicamente la bocca senza riuscire a emettere suono. Si guardò intorno con gli occhi sbarrati, finché non incontrò nuovamente l'odiato sguardo di Zuben: lo guardava freddo, cinico, con quelle due schegge di ghiaccio ambrato incastonate nella maschera impenetrabile che era il suo volto. Fu forse per la rabbia, o forse per il disprezzo che provava per lui, ma nel profondo di quegli occhi gli parve di scorgere un'ombra di commiserazione: fu per lui una sensazione tanto disgustosa da smuovergli furiosamente la bile. Per un istante sul volto del capitano si distorse un'espressione di puro odio per quel vecchio che, fin dalla sua misteriosa comparsa alla corte di Masut, avvenuta due anni prima, di giorno in giorno oscurava sempre di più la sua onorevole immagine.
Ingoiò il proprio rancore e avanzò a passi rabbiosi fin sotto il grande scranno del califfo, lì marzialmente s'inchinò al suo sovrano e congiunse le mani, quasi in segno di preghiera.

«Mio signore!» Proferì deciso, quasi con arroganza, tanto da far sussultare il ragazzo. «Al cospetto della corte la vostra parola è assoluta. Lasciate che me ne occupi io, datemi questa opportunità. Chiunque abbia commesso queste atrocità, pagherà, umano, bestia o demone che sia. Andrò io stesso, al comando di duecento, anzi... trecento soldati. Li sceglierò io stesso tra i migliori della Guardia Reale.»

«Adagio, capitano Amrat.» Lo frenò Sum Kadhir, con cipiglio spazientito. «Non conosciamo nemmeno la natura della minaccia che stiamo affrontando.»

«Io la conosco.»


Tutti gli occhi si spostarono su Zuben, non appena parlò. L'anziano guerriero avanzò a passi lenti verso il trono, fermandosi di fianco ad Amrat.

«La nostra minaccia ha un nome e un volto. E io la conosco personalmente.» Fece una pausa e sqadrò i presenti, come per assicurarsi che nessuno perdesse una sola sillaba del nome che stava per pronunciare.

«Arpiar Melkonyan, meglio conosciuto come "lo Scorticatore",
capo di una tribù barbara delle montagne del Nord.
»


Sicuro delle sue parole, volse lo sguardo prima al visir e poi alle persone togate sugli spalti. «La spietatezza della sua gente è notoria, la sua firma inconfondibile. Non ho idea di che cosa stia cercando nella nostra regione, ma è un avversario insidioso, astuto e senza scrupoli, soprattutto per chi non l'ha mai affrontato.» Disse, facendo un cenno verso Amrat. «Se vogliamo disperdere la sua tribù, bisognerà prima tagliare la testa al serpente, e per riuscirci dovremo agire d'astuzia e con cautela.» Fece una pausa per squadrare con aria grave i suoi uditori. «Posso farlo io. Mi bastano pochi uomini, gli uomini giusti.» Si rivolse infine al califfo. «Mio padrone, indite un bando: nell'Akeran vi sono molti guerrieri abili in grado di aiutarci.»

Il califfo Nu'man ritrasse la testa sprofondando tra i cuscini del trono, quasi desiderasse nascondersi, o probabilmente trovarsi da tutt'altra parte. Quella degenerazione repentina della sua preziosa giornata di quiete già lo aveva alquanto impaurito e confuso, ma nel momento in cui vide tutti gli occhi dei suoi sudditi puntati verso di lui in attesa di una risposta non riuscì a trattenere il panico. Iniziò a guardare a destra e a sinistra o verso il basso, spaesato, come se cercasse invano di sfuggire a tutti quegli sguardi; solo dopo alcuni secondi riuscì a spiccare tremante poche parole, inudibili per chiunque altro non fosse a pochi passi dal trono.

«V-Va bene. Ehm... accontenterò entrambi.»

CITAZIONE

Aspettate il secondo post del qm prima di rispondere.




Edited by Orto33 - 23/8/2015, 18:48
 
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view post Posted on 4/9/2015, 03:26
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{ Masut, Bastione di Granato, alloggi dei consiglieri }


«Da questa parte.»
La voce del guerriero che gli faceva da guida riscosse Jahrir dai suoi pensieri, evitandogli di sbagliare strada in quel labirinto di corridoi che era il palazzo. I passi del nano e dell’umano echeggiavano nei corridoi rivestiti di marmo bianco finemente scolpito in elaborati arabeschi e illuminati da ampie finestre bifore da cui la luce mattutina entrava tagliando l’ombra in fasci netti e delineati. Il guerriero che gli apriva la strada era un uomo di stazza mastodontica, tanto grande e possente come Jahrir non ne aveva mai visti, braccia nerborute e fittamente tatuate tanto grosse da poter stritolare facilmente un toro, pelle scura, capelli lunghi del colore dell’onice raccolti in una miriade di trecce che fluenti gli accarezzavano le spalle ad ogni passo, un volto scultoreo, larghe labbra carnose incorniciate da una barba pulita e ordinata tagliata da una lunga cicatrice. Indossava una sobria ma minacciosa armatura in scaglie di bronzo dipinte di nero, però ciò che più inquietava il nano era senza dubbio l’arma che portava disinvoltamente appoggiata alla spalla: un’enorme tabarzin dalla massiccia lama ondulata, tanto grande da poter tagliare un cavallo in due, che da sola probabilmente pesava quanto un uomo adulto.
Jahrir non riusciva a smettere di guardarsi intorno nell’ammirare tutte le meraviglie architettoniche, le sculture e le pareti affrescate che gli passavano davanti agli occhi. Fu quando la sua guida alzò il braccio per grattarsi la base del collo che il nano scorse un simbolo marchiato a fuoco sulla sua spalla, un simbolo che aveva visto innumerevoli volte e ormai sapeva riconoscere molto bene.

«Ehi, umano.» Ruppe il silenzio. «Hai detto di chiamarti Tolga, giusto? Dimmi un po’, sei uno schiavo?»

Il gigante piegò leggermente la testa continuando a camminare e si limitò a squadrarlo per un istante con i suoi occhi duri e inespressivi, indecifrabili, ma non gli diede nessuna risposta.

Entrando in Masut, quella mattina il nano aveva avuto modo di comprendere quanto bastava su quella città. Per le sue strade era possibile ammirare ogni sorta di persone e merci provenienti da ogni parte del continente, ma nessuno dei quartieri mercantili rivaleggiava con il Bazar delle Grate, il mercato degli schiavi: un immenso complesso di edifici uniti tra loro in cui si sviluppavano dedali di oscuri corridoi e cortili, era tanto esteso da occupare addirittura un buon quarto della città. Ovunque si guardasse si potevano vedere, dai lati della strada affollata al livello del terreno fino alle logge più alte, schiere su schiere di profonde celle con sbarre di metallo in cui era messe in bella mostra un solo genere di mercanzia. Merce viva. Di ogni sesso, di ogni razza e per ogni estrazione sociale: da barbari e briganti catturati e fatti prigionieri a sventurati villici caduti vittima delle scorribande dei cacciatori di schiavi, tutti destinati alle cave o ai cantieri; uomini ben acconciati e di distinto aspetto in vendita a caro prezzo come scribi, contabili, educatori o maestri di palazzo; donne, fanciulle e bambine speranzose di essere comprate come dame di compagnia da qualche nobildonna e di non finire invece smerciate come meri oggetti di piacere in uno dei tanti bordelli che costellavano i bassifondi. Esseri viventi venduti al dettaglio, all’ingrosso o all’asta. Come bestiame.

Bastione%20di%20Granato_zps6pktlpx8


Sopra la fitta rete di strade, torri e caseggiati, il Bastione di Granato dominava l’intera piana. Adagiato sul colle a ridosso della città come un gigante sopito, le sue massicce torri di pietra rossa erano visibili per decine di miglia e l’imponenza delle sue mura era tale da mettere in soggezione anche la più potente delle armate. Nonostante la vivacità del centro abitato, chiunque avesse un minimo di competenza in architettura e urbanistica avrebbe potuto costatare che Masut era stata ideata originariamente non come centro abitato, ma come piazzaforte. Eppure, come una perla all’intero di uno scabro guscio di conchiglia, dietro a quelle muraglie tozze e squadrate il Bastione di Granito racchiudeva splendidi palazzi ricchi di mosaici, statue e fontane, giardini colmi di piante esotiche e fiori variopinti e rigogliosi ogni mese dell’anno.
Era questo il simbolo del potere di Masut. Ultimo fiero vestigio di un regno che anno dopo anno sprofondava lentamente nell’ignavia e nella corruzione, macchiandone i marmi e diroccandone i torrioni.

I due attraversarono in cupo silenzio un altro paio di corridoi, finché il guerriero non si arrestò di fronte a un portone di legno scuro finemente intagliato e vi si pose di davanti, rivolto verso il nano, come a bloccargli il passaggio.

«Il mio padrone vi sta aspettando.» Ringhiò con quella voce che si sarebbe addetta più a un orco che a un essere umano. «Le vostre armi, cüce.» Gli intimò.

Jahrir esitò per qualche istante a quella richiesta. Dopotutto le persone a cui stava per domandare appoggio erano le stesse che non molte stagioni prima avevano mosso guerra al popolo nanico, il suo stesso popolo. Era consapevole del rischio che stava correndo, ma la corruzione avanzava e la cerchia degli alleati si era drasticamente ristretta, al pari delle alternative e del tempo a disposizione. E Jahrir era risoluto ad andare fino in fondo.
Alzò il lembo del farsetto sgualcito color paglia, si sfilò dal cinturone la spada corta e il prezioso martello nanico, baluardo di Qashra, compagno fedele di innumerevoli battaglie, e lo consegnò nelle mani dell’umano.

«Un momento...» Ringhiò il bestione, spingendo indietro il nano con la gigantesca mano d’acciaio, proprio quando stava per risolversi a varcare il portone, e indicando subito dopo i suoi piedi con un ringhio che non prometteva nulla di buono.

«Oh!» Esclamò Jahrir, trattenendo lo spavento. Scoperto, si abbassò ed estrasse lentamente il coltello che aveva nascosto nello stivale, l’ultima risorsa che serbava nell’evenienza nel caso la situazione si fosse messa male, e consegnò anche quello. «Chiedo perdono, l’avevo dimenticato.» Tentò di dissimulare con un sorriso teso stampato posticcio sulla faccia, ma ottenendo in risposta solo un’espressione minacciosa e un truce ammiccamento di avviso, l’occhiata di una belva abituata a schiacciare uomini come mosche. E pronta a farlo in qualsiasi momento.
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«Attento...» Lo ammonì.

Si era già fatto un amico.

Non si lasciò intimorire. Inspirò profondamente di fronte al portone, raccolse tutto il coraggio che gli rimaneva, spinse la maniglia e superò la soglia, sempre pedinato dall’imponente guerriero. La stanza in cui si trovò aveva tutto l’aspetto di uno studio: la luce proveniente dal lucernario sul soffitto illuminava riccamente le pareti affollate da scaffali stracolmi di grossi tomi, pergamene e quaderni rigorosamente ordinati e numerose mensole portanti busti di alabastro e marmo nero raffiguranti illustri personaggi che Jahrir non seppe riconoscere. Lussuosi tappeti variopinti ricoprivano quasi totalmente il pavimento in mosaico ligneo e, sopra di essi, diverse poltrone intorno a un basso tavolino occupavano lo spazio di fronte all’ampio scrittoio stipato di documenti che dominava la stanza. Assiso dietro di esso, un uomo affiancato da due soldati di armature identiche a quella di Tolga, ma dal volto coperto da un foulard nero, scrutava il nano, un vecchio dalla barba bianca come la lana, lunga e riccioluta, la pelle cadente e rugosa. Indossava ampi abiti dai colori sgargianti e un alto copricapo violetto di forma conica.

«Tolga, dammi il suo martello.» Ordinò, dopo aver squadrato per alcuni secondi il nano, fermo in piedi di fronte a lui. Il guerriero avanzò al cospetto dell’uomo e adagiò la splendida arma sulla scrivania, sotto agli occhi del vecchio. Costui la studiò minuziosamente con sommo interesse, accarezzando con delicatezza e rispetto le elaborate decorazioni incavate nell’acciaio nanico. Ad un tratto annuì, quasi estatico, come se l’avesse riconosciuta.

«Jahrir Gakhoor... quale onore. Dunque è vero che siete ancora vivo.» Puntò nuovamente gli occhi verso il suo ospite, rivolgendogli un affettato sorriso gioviale e al contempo divertito. «Vi immaginavo più alto.»

Jahrir rimase interdetto: gli avevano raccontato che il sovrano di Masut era un giovane di nemmeno vent’anni. «Voi chi siete? Ho richiesto esplicitamente di parlare col califfo.»

«Il califfo al momento ha altro di cui occuparsi.» Rispose con disinvoltura, incrociando le dita e sdraiandosi comodamente sullo schienale imbottito dello scranno. «Io sono Sum Kadhir, gran visir di Masut. Potete parlare con me. Accomodatevi.» Lo invitò, mostrandogli con la mano aperta la poltrona più vicina, ma Jahrir non lo assecondò.

«Forse non sono stato abbastanza chiaro. La questione è di estrema importanza. Io non...»

«Sì, sì... è una questione importante, certo...» Lo interruppe con composta deferenza. «La vostra lettera è stata più che esplicativa. E alquanto appassionata, non c'è che dire.» Con la mano destra prese tra l’indice e il pollice un foglio di pergamena semi-arrotolato che si trovava sul tavolo e lo sollevò con flemma, in modo che il nano lo vedesse. Jahrir riconobbe la missiva che aveva inviato al califfo tre giorni addietro, da un’oasi a poche miglia da Masut. «Ma una persona assennata quale voi siete di certo comprenderà le nostre perplessità.» Il suo bonario sorriso scomparve in un lampo, sostituito da un’espressione severa e indagatrice che lasciava intendere da sé che i convenevoli erano finiti.

«Un bel giorno, di punto in bianco uno dei più arditi nemici delle città libere, per giunta noto oppositore del commercio di uomini, si presenta alle nostre porte in cerca di aiuto. Senza esitazione, entra dritto nelle fauci del leone. Non considera che potrebbe essere catturato e trattenuto come prezioso ostaggio per qualche interessante ricatto diplomatico ai danni dei suoi amici nani. Oppure che potrebbe essere semplicemente gettato a marcire in gattabuia, o torturato... o ucciso.» Restò in silenzio per un lungo istante scrutando il volto del nano, scandagliandolo con lo sguardo alla ricerca di un movimento, di un tic traditore, quasi potesse scoprirvi dietro le sue vere intenzioni. «La domanda è: perché noi?»

Jahrir non si scompose; rimase in piedi, altero, affrontando con gli occhi audaci e dignitosi quel potenziale ma ostico alleato. «Credevo di essermi spiegato bene nella mia lettera.» «Voglio sentirlo direttamente dalle vostre labbra, re Jahrir.» Il visir non demorse. «Rispondete alla mia domanda.»

La faccia dell’eroe nanico si distorse leggermente in una smorfia di fastidio. L’Akeran era in grave pericolo, il tempo stava scandendo per tutti, mentre quel vecchio si godeva a dileggiarlo. Abbassò la testa, ingoiò la rabbia che sentiva salire prepotente dalla gola, inspirò profondamente e, deciso a tirare fuori tutto sé stesso, o quel poco che ne rimaneva, rispose.

«Ascoltatemi bene. Non attraversato mezzo continente per essere denigrato in questo modo.» Alzò nuovamente lo sguardo, affrontando l’aristocratico con lo sguardo d’acciaio che solo i guerrieri sanno sfoggiare. «Ho passato una vita sognando la pace per il mio popolo. Dopo la battaglia di Qashra speravo che fosse tutto finito... che il mio tempo fosse giunto alla fine. Per questo ho deciso di ritirarmi, e desiderare finalmente un po’ di pace per me e per mia moglie.» Prese il respiro prima di continuare, con voce vibrante. «Ma ora la minaccia è tornata, e io sono l’unico in grado di fermarla, ma non posso farlo da solo.» Il suo tono parve calmarsi, come se sperasse che l’uomo che aveva di fronte lo stesse ascoltando davvero. «Masut è una piccola città, ma il suo esercito è potente e suoi soldati coraggiosi.»

«Ah, suppongo vi riferiate ai mamelucchi. Sono schiavi guerrieri, non vi disturba la cosa?» Rispose prontamente il visir con tono obiettivo, sempre composto, distaccato.

«Non m’importa.» «Dite sul serio?»

I pugni di Jahrir si serrarono lungo i fianchi, i suoi denti si strinsero. Fece un passo deciso in avanti, verso la scrivania. «Mia moglie è morta, la mia vita è distrutta, ma la mia missione non è ancora finita. Guardatemi bene negli occhi. Lo vedete? Lo vedete il mio dolore? Lo vedete il mio rancore?» La sua voce tuonò nella stanza, schiudendo la stessa passione del medesimo re che aveva guidato l’esercitò nanico all’estrema difesa di Qashra. «Il mio nome rimarrà stampato sui libri di storia finché non avrò rispedito l’ultimo di quei bastardi nell’Abisso a calci in culo, potete starne certo! E sono disposto a farlo con qualsiasi mezzo.»

«Modera il linguaggio. Sei di fronte al gran visir, cüce.» Tolga lo affiancò all’improvviso, fulminandolo col suo sguardo glaciale, ma Jahrir ormai già iniziato la sua battaglia. E l’avrebbe portata avanti fino all’estremo esito.

«Unitevi a me, mettetemi al comando dei vostri soldati, e sconfiggeremo insieme il nemico comune.»

Il visir non si lasciò impressionare, anzi, scoppiò a ridere. «Ahahah... la vostra caparbietà è davvero proverbiale come narrano le leggende. Il sangue nanico scorre fiero nelle vostre vene.» Sospirò, imbastendo una nuova, affettata espressione colma di mestizia. «Tuttavia le vostre motivazioni non bastano. Voi siete un idealista, ma i buoni propositi non sono una merce di scambio, non qui a Masut.» Affermò, quasi fosse veramente dispiaciuto, unendo davanti a sé i polpastrelli di una mano con quelli dell’altra. «Non mi avete ancora dato una buona ragione per accondiscendere alla vostra richiesta.»

«Cosa?!» Sbottò, Jahrir, sconcertato, alzando la voce fin quasi a gridare. «La corruzione è alle porte, e stavolta non ci saranno i nani a venirvi a salvare; siete da soli, e io sono la vostra unica speranza.» «Sappiamo difenderci da soli. Non ci serve aiuto, tantomeno l’aiuto di un nano.»

«Taanach è caduta, e si trova a meno di cento miglia da qui. Voi siete i prossimi.»

«Taanach è caduta molte volte; il Bastione di Granato non è mai stato espugnato.»

«Razza di stupidi...» Non ci vide più. Balzò in avanti e sbatté con violenza i palmi sullo scrittoio, facendo sussultare i mucchi di scartoffie che lo sommergevano e il vecchio ministro dietro di esse. «Vi serve una buona ragione? Ora ve la do io una buona ragione! Ehi, che fate?!» Neanche a dirlo, le due guardie ai lati del visir più lo stesso Tolga non avevano esitato nemmeno un istante a lanciarsi su di lui prima che potesse fare qualunque altra cosa. Lo ghermirono saldamente e lo trascinarono lontano dal tavolo, verso la porta. «Lasciatemi subito, scriteriati!» Jahrir provò a dimenarsi, ma il colosso, sollevatolo praticamente senza sforzo da terra, lo abbrancava da sotto le ascelle con le gigantesche braccia, tanto solide da sembrare ganasce di ferro. E Jahrir non era certo un mingherlino. Sentendosi immobilizzato, cominciò a fulminare a destra e a manca con sguardi colmi di rabbia i suoi aguzzini. «Ma bene, bravi! Sbattetemi pure fuori! Fate come cazzo vi pare! Busserò alla porta di ogni città sul mio cammino finché non troverò un umano abbastanza assennato da ascoltarmi.» Berciò, sbrigliando tutta l’ira repressa finora. «Scoprirete presto cosa striscia alle mie calcagna. Vediamo come lo fermeranno le vostre fottute mura!» Diresse un’ultima occhiata sconvolta, mista contemporaneamente di collera, supplica e compatimento, a Sum Kadhir. «Voi non sapete, non avete visto! Non avete idea di cosa avanza da sud! Diverrete suoi burattini prima ancora di rendervene conto, non avrete nemmeno il tempo di pentirvi per aver ignorato il mio avvertimento!»

Il visir resto a osservarlo con sguardo serio e la fronte corrucciata mentre lo portavano via, quasi provasse soddisfazione nel guardare la disperazione sul volto del nemico di lunga data, godendo della sua miseria. Ma fu all’improvviso, proprio mentre i tre soldati tentavano di spingere il robusto nano a forza – e non senza difficoltà – fuori dalla porta, che l’espressione del vecchio cambiò repentinamente, quasi una maschera fosse caduta dal suo volto. Quasi avesse avuto un ripensamento improvviso.

«Basta così.» Ordinò imperatorio, alzandosi di scatto dalla poltrona e sporgendosi dalla scrivania. «Lasciatelo.»

Le tre guardie si arrestarono sorprese, ma non quanto Jahrir si sarebbe aspettato. Anzi, quasi gli parve che si stessero aspettando di ricevere quel preciso ordine. Tuttavia, non appena allentarono la stretta su di lui, sgusciò dalla loro presa e tornò ad avvicinarsi al tavolo, stavolta cauto protendendo leggermente le mani in un gesto di supplica, deciso a non sprecare quella breccia di speranza che gli parve aver creato nell’animo del visir.

«Credetemi, il tempo che vi rimane è poco e non vi è nessun altro disposto ad aiutarvi all'infuori di me.» Disse, ancora ansante per la lotta, con voce profonda, la più empatica che gli riuscisse. «Ho salvato il mondo una volta. Posso farlo ancora.»

Il visir lo guardò a lungo con espressione interessata, fregandosi lentamente le mani, assorto, quasi stesse ammirando un diamante prezioso appena capitatogli tra le mani.

«Va bene.» Esclamò infine, annuendo tra sé e sé, poi si rivolse alle sue guardie. «Uscite tutti.»

«Siete sicuro, vostra grazia?» Domandò Tolga con aria apprensiva.

«Lasciateci soli.»

L’immenso guerriero si lasciò sfuggire un grugnito di disappunto. Mostrò un cenno di assenso verso il suo padrone e con un gesto nervoso esortò gli altri due soldati – che a quanto pare gli erano inferiori di grado – a uscire, ma non prima di aver lanciato l’ennesima occhiataccia di ammonimento al nano: un’altra corbelleria e probabilmente non sarebbe uscito tutto intero da quella stanza. Se ne andarono chiudendo la porta alle loro spalle. Jahrir e Kadhir ri ritrovarono da soli.

«Vi ho convinto, finalmente.» Sospirò sollevato Jahrir, più a se stesso che all’umano, crollando sfinito su una delle poltrone color porpora.

Il visir inaspettatamente gli sorrise; sembrava quasi una persona completamente diversa, il vecchio cinico con cui aveva parlato pochi secondi prima sembrava non essere mai esistito.

«A dire il vero mi avevate già convinto. L’altro ieri, quando ho ricevuto questa lettera.»

«Ma allora...» A quelle parole, Jahrir protrasse la testa in avanti, confuso e rallegrato dalla sorpresa.

«Spero non l'abbiate presa male. Desideravo solo saggiare personalmente di che pasta è fatto il grande re Jahrir. Perché voi siete il grande Jahrir, dico bene?»

«Ci potete scommettere. Dunque combatterete al mio fianco?»

Il vecchio alzò la mano aperta, come per esortarlo a frenare i cavalli. «Ho piani migliori per voi.» Si spostò verso un mobiletto incastonato tra le librerie, ne aprì l’anta e iniziò a rovistarci dentro. «Un piccolo compromesso che confido gioverà a entrambi.» Ne tirò fuori un vassoio in argento con sopra due calici e un vaso di vetro soffiato colmo di liquido morato. «Un po’ di vino?»

Jahrir fece per rifiutare, ma il visir fu pronto a rispondergli.

«Ehehe... non temete, non è mica avvelenato.»

Riempì i due bicchieri e gliene porse uno. Il nano con riluttanza lo prese e rispose al cenno di brindisi di Sum Kadhir, ma non bevve un singolo sorso; lo tenne mollemente in mano, senza portarlo alle labbra o appoggiarlo. Il vecchio ministro iniziò a passeggiare lentamente per la stanza, come se il movimento gli stimolasse la parola.

«C’è una storia che vorrei ascoltaste.»
Esordì, passando alle spalle del nano.
«L’esercito di Masut risponde agli ordini di una sola persona. Me.» Disse, indicandosi. «Ma non è stato sempre così. Una volta avevamo un generale: era un incapace, un ruffiano arrivista e arrogante. La peggior persona che si vorrebbe vedere a capo di un’armata, in poche parole.» Sospirò. «Poi un brutto giorno il nostro stimato vecchio califfo Abdul-Raafi', pace all’anima sua, passò a miglior vita. A succedergli fu il suo unico erede, Nu’man Uhl-Qaadir, all’epoca era un giovinetto di appena quattordici anni. Poiché era chiaro che fosse ancora troppo giovane per governare, elessero me, il più anziano e saggio tra i membri del Consiglio, come suo tutore e reggente del regno di Masut finché il nuovo califfo non fosse stato in grado di ricoprire il suo ruolo. E sapete quale fu la prima cosa che feci quando salii al potere?» Si concedette un sorso di vino, poi camminò in silenzio fino a raggiungere il fronte della scrivania e vi si appoggiò, guardando il suo ospite dritto negli occhi. «Eliminai tutte le mele marce che deturpavano la nostra corte, a partire dal nostro generale.»

«Lo faceste uccidere?» Domando Jahrir, incuriosito.

Il visir ridacchiò. «No no, certo che no... Lo umiliai pubblicamente di fronte a tutto il Consiglio, e poi lo degradai seduta stante.»

«Be’... suppongo non l’abbia presa molto bene.»

«Affatto. È un tipo che non accetta di buon grado una sconfitta, scommetto che in questo momento getterebbe la madre e la moglie nell’Abisso pur di riuscire a mettermi le mani in torno al collo.»

Jahrir ebbe un brutto presentimento. Cercava forse qualcuno che lo uccidesse sul serio, stavolta? «Un momento...» Agitò la mano, come per dare un taglio alla conversazione prima che battesse strade inutili, pericolose e che non lo riguardavano minimamente. «Ah, no no no... non ho tempo di immischiarmi nei vostri sporchi intrallazzi di corte.»

«Hahahah! Chiedo perdono, devo essermi spiegato male; non è questo il punto.»

«E allora qual è?»

«Il punto è che abbiamo un posto vacante.»

A udire quelle parole Jahrir strabuzzò gli occhi dallo stupore. Intuì dove volesse arrivare il visir, ma non riuscì a intenderne il motivo.

«Governare una città-stato non è una passeggiata, di certo lo sapete anche voi, e io sono troppo indaffarato e troppo vecchio per occuparmi di tutto; mi servono uomini validi a cui delegare le mie incombenze. E voi...» Si avvicinò fino a incombere maestosamente sul condottiero nanico, scrutandolo dall’alto della sua statura. «...re Jahrir Gakhoor, siete senza dubbio la persona più qualificata che abbia mai messo piede nel mio ufficio.»

La svolta fu inaspettata quanto strana, ma la soluzione sarebbe stata comunque più che eccellente per Jahrir. Avrebbe avuto il suo esercito e l’autorità necessaria per muovere guerra ai demoni.

Guardò di rimando il visir, perplesso. «Vorreste affidare un incarico tanto importante a un nano che fino a pochi mesi fa era vostro nemico?»

Sum Kadhir si fece serio. «Io vedo davanti a me solo un nano molto stanco e ferito nell’anima, solo, colmo di rabbia e di vendetta... e con un certo interesse verso la nostra causa comune, dico bene?»

Jahrir sprofondò nella poltrona e ponderò a lungo.

«E sia...» Rispose infine, accettando l’offerta. «Quando saremo pronti per la guerra?»

«Adagio, re Jahrir.»

A quel nuovo, improvviso rifiuto il nano si spazientì ancora.

«Cosa c’è ancora?»

«Discuteremo la vostra carica dopo che avremo risolto una certa questione: i demoni non sono l’unica minaccia per la nostra città, al momento.» Spiegò sbrigativamente Sum Kadhir, appoggiando il calice vuoto sulla scrivania e raggiungendo nuovamente la sua posizione sullo scranno.

«Vi riferite al problema dei predoni?» Sbuffò scandalizzato. «Baathos è alle nostre porte e voi vi preoccupate di una banda di briganti?! Ma è ridicolo!» Sbatté con stizza il bicchiere ancora pieno sul tavolino di fronte alla poltrona, schizzando buona parte del prezioso contenuto d’annata sul mosaico variopinto che ne decorava la superficie.

«Sta al Consiglio decidere cosa è ridicolo e cosa no.» Rispose il ministro con improvvisa fermezza. «Se non erro siete un abile guerriero oltre che un buon condottiero, sono sicuro che col vostro aiuto risolveremo il nostro problema in un batter d’occhio. Consideratela una prova di lealtà verso il vostro... alleato.»

«E va bene... Cosa devo fare?» Sbottò infine Jahrir, disposto ormai a far qualunque cosa pur di risolvere la situazione in fretta.

Sum Kadhir prese una piccola campanella dal tavolo e la suonò. Il guerriero gigante entrò praticamente all’istante – segno che era appena fuori dalla porta, pronto a intervenire in caso di necessità. «Tolga vi porterà dal suo maestro, sarà lui a darvi tutte le istruzioni.»

Il visir e il re nanico si scambiarono gli ultimi convenevoli, prima di separarsi. Se l’unico modo per ottenere ciò che gli serviva era sconfiggere una masnada di banditi, non vi era nulla di più facile; dopotutto aveva affrontato nemici ben più pericolosi nell’arco della sua vita.
Sull’uscio della porta, però, un brivido gli corse lungo la schiena, come un presagio, o un brutto presentimento.

«Ah, un’ultima cosa.» Interpellò un’ultima volta Sum Kadhir. «È solo una curiosità: che fine ha fatto il precedente generale?»

Il vecchio sorrise.

«Oh, lo incontrerete molto presto. È il nuovo comandante delle Guardie Reali.»

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{ Masut, Bastione di Granato, giardini }


Zuben solcò a passi rapidi le ultime arcate del corridoio che portavano al giardino interno della fortezza, facendo tintinnare le scaglie della sua armatura nera e le sue armi a ogni passo. Amrat e alcuno dei suoi luogotenenti erano già presenti sul posto ad aspettarlo per accordarsi sugli ultimi dettagli tattici prima dell’imminente partenza. Ogni bisbiglio tacque appena lo videro imboccare l’acciottolato principale del chiostro. Il maestro mamūluk si guardò intorno, passando in rassegna dei presenti e non appena incontrò il volto beffardo del capitano delle Guardie Reali, intento ad ammiccare ai suoi uomini con atteggiamento irrisorio un gruppetto di persone a uno degli angoli del colonnato che contornava il giardino, comprese che la sua “squadra speciale” era arrivata. Erano in cinque, di cui un nano, sedutosi in disparte sul cornicione.
Avanzò verso di loro impaziente, imbastendo nel poco tempo in cui coprì la poca distanza il terrificante cipiglio di condottiero e spietato addestratore che persino i suoi irriducibili schiavi guerrieri avevano imparato a temere.

«In riga!!» Berciò, con una furia che avrebbe spaventato una tigre, aspettandosi da essi l’adeguata prontezza nell’obbedire al suo ordine.

«Il mio nome è Zuben, Gran Maestro dei mamelucchi di Masut e vostro comandante e referente in questa missione.»

Si presentò, passeggiando lentamente avanti e indietro esaminandoli uno a uno. Sembrava deluso: forse si aspettava di trovarsi davanti sicari esperti, guerrieri professionisti, ranger delle terre selvagge del sud o qualche specie di raro mostro intelligente che si dilettasse a massacrare uomini dalla mattina alla sera.

«Se siete qui, suppongo abbiate letto il bando. Mi sembrava di aver specificamente richiesto gente con esperienza; se siete venuti per farmi perdere tempo o per farmi un brutto scherzo, sappiate che quando m’incazzo neanche Berion in persona desidererebbe trovarsi nella posizione in cui siete voi in questo momento.» Fulminò uno a uno tutti e cinque con quel suo sguardo truce che si sarebbe addetto più a un assassino senza scrupoli che ha un militare.

«Per cui vi concedo trenta secondi. Trenta secondi per spiegarmi come cazzo vi chiamate, cosa ci fate qui e convincermi che non siete analfabeti!»

Non sperava in una risposta soddisfacente, la esigeva.

CITAZIONE
QM POINT
Benvenuti a questo nuovo capitolo della saga di Fetiales! Vi assicuro che scrivere e impaginare questo post dal tablet e con la linea hotspot del cellulare è stato un delirio, per cui vi prometto che poemi così lunghi d'ora in poi non ne farò più (per la vostra gioia). Probabilmente troverete errori e refusi di vario genere: non fateci caso, per favore, alcune parti sono stato costretto a scriverle un po' di fretta. Domani farò un po' di correzioni.
Ordunque, come avete letto, Jahrir si è presentato al Bastione di Granato, il castello di Masut, ed è riuscito a giungere a un accordo col visir Sum Kadhir: se riucirà a sconfiggere i fantomatici banditi, il visir accetterà di assumerlo come generale alle dipendenze del regno. Posizione che, tra l'altro (SPOILER!) un tempo, a quanto pare, apparteneva ad Amrat.

E qui entrate in scena voi! Questo primo post sarà semplice: sarete liberi innanzitutto di descrivere in che modo i vostri pg sono venuti a conoscenza del bando e dei misteriosi assalti alle carovane di schiavi - sappiate che nella regione praticamente non si parla d'altro e che vi sono annunci scritti in molte locande della zona, per cui venire a sapere che il califfo sta cercando gente da reclutare è piuttosto semplice se vi trovate nei paraggi di Masut, altrimenti ovviamente si passa parola anche da mercante a mercante e in questo modo tali notizie possono giungere anche in luoghi più lontani - e raggiungono la città di Masut. Il punto d'incontro per gli aspiranti a partecipare alla missione è il giardino presentato alla fine del post, che potrete raggiungere solo scortati all'interno del castello da inservienti o guardie - liberi di descriverli -, un po' come è accaduto a Jahrir con Tolga.

L'importante è che raggiungiate il luogo d'incontro, dove vi troverete ad affrontare già la prima prova di questa quest: Zuben infatti non sembra per nulla convinto delle vostre capacità e dovrete essere voi a persuaderlo del contrario, oltre a presentarvi, come vi richiede. Come? Stupitelo!
Ah, dimenticavo: appena arriva a mettervi in riga, Zuben nel gridarvi contro fa uso una tecnica psionica di potenza Bassa che non causa danni, ma vi influenzerà infondendovi un profondo senso di timore e soggezione verso la sua persona per questo turno e il prossimo.

Insieme a voi ci sarà anche Jahrir, il quinto membro della vostra squadra. Non si è ancora presentato e non sapete ancora chi sia. Inoltre nel giardino, se avete notato, c'è anche Amrat con dei suoi sottoposti. Prima dell'arrivo di Zuben potrete agire liberamente o parlare con i png presenti, ma questo sempre e perentoriamente previa richiesta in confronto.

Avete 7 giorni per postare, quindi fino alle 23.59 dell'11/9. Per qualsiasi domanda o richiesta, utilizzate il topic di confronto. Buona giocata! :8D:

 
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view post Posted on 5/9/2015, 13:51
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[...]


I

PoV: Vaalirunah

(Bekâr-şehir, città di Masut)



I tempi non erano cambiati.
Le impronte del popolo di scaglie erano da lungo tempo state sepolte dalla sabbia, ma chi dopo di loro aveva calpestato la medesima terra non aveva fatto altro che perpetuare una pantomima dell'Impero. Le città erano mutate, i poteri centrali si erano disgregati, i servi si erano fatti padroni, ma le catene rimanevano le stesse. Che fossero le morse attorno al collo dei deboli o quelle che stringevano il cuore dei potenti; che il loro nome fosse schiavitù o che fosse avidità. Non cambiava nulla. Il creato non sembrava capace di mutare dove più importava, il mondo non sapeva come andare avanti.
Sapeva solo come continuare a girare.

« Cycli aeternam... »

Non era stato più che un sospiro, ma una delle guardie che lo scortava ruotò il capo in sua direzione, insospettito. Vaalirunah però non vi fece neppure caso, poiché la sua mente vagava in quegli attimi e - come solente capitava dalla Riunione - alcuni dei suoi pensieri lasciavano le labbra senza preavviso. I ricordi si riversavano nella sua testa come un torrente in una gigantesca fossa, e finché quelle acque non si fossero definitivamente assestate qualche spruzzo avrebbe continuato ad evadere il letto del fiume. L'involontaria abitudine tendeva ad attirare l'attenzione, e questo poteva essere un male. Il suo aspetto - ne era conscio - poteva già mettere in allarme da solo l'uomo comune; in quei tempi difficili, appendici ossee e occhi dai bordi squamati potevano facilmente essere scambiati come tratti ignobili del seme del Baathos, più che come lascito di una specie che aveva dominato il mondo. Non poteva biasimarli. L'ombra che era calata sull'Akeran era molto scura e profonda, abbastanza da poterlo inghiottire tutto e per sempre.

Ad ogni modo, non aveva ancora chiara idea di come dover affrontare quel che gli sembrava ormai un fatto, ne era certo di doverlo fare; dunque decise semplicemente di ignorarlo. Si aggiustò il corpetto in cuoio, che cominciava a irritargli le spalle, e proseguì nella passeggiata.

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Avanzavano sulla strada polverosa da parecchi minuti, la Scaglia e la sua scorta; un manipolo di uomini dalla barba ordinata che a giudicare dall'uniforme facevano parte della guardia cittadina. Lo avevano preso in consegna quando si era avvicinato loro informandoli del suo interesse circa al problema del sultano, e dopo una generosa e silenziosa camminata erano giunti lì dove l'opulenza di Masut si faceva un passo indietro per lasciare che fosse quella ben più massiccia del Bastione ad accoglie i visitatori. Inoltrandosi all'interno, mise da parte i propri pensieri e si consegnò pienamente alla voce della città. Molto quel canto gli aveva rivelato ancor prima che varcasse le soglie dello sfarzoso castello; le sue labbra unte della carne degli schiavi avevano narrato di come una fortezza diventò arteria pulsante del traffico di esseri viventi, di come uomini saggi e lungimiranti si erano fatti nemici di minor senno e maggior tenacia. Ma fra quelle tante parole che ricalcavano storie che aveva già sentito, in altre epoche e altri luoghi, una in particolare aveva attirato la sua attenzione. Si trattava dell'epopea di un Eroe, giunto fra quelle mura insanguinate a chissà quale tappa del suo destino. Una sorpresa che per più di un verso gli era gradita. Non capitava tutti i giorni di incrociare il passo con uomini capaci di assestare a dure martellate il proprio personale pezzo di marmo nelle fondamenta del mondo.

« Fermo. »

Il tintinnio, che a ogni suo passo l'elsa della sciabola senza più lama causava sfregando contro quella dell'altra spada, cessò per un attimo. Si erano fermati e la pausa improvvisa lo destò dal suo vacuo sonnambulismo. Il tempo era trascorso senza che se ne rendesse conto, intento com'era ad ascoltare ogni sussurro del vento e ogni palpito della terra. La guardia di prima lo stava fissando con sguardo truce.

« Aspetta qui. »

Senza aggiungere altro si dispersero, abbandonandolo sul ciglio ombroso di un giardino. Poteva scorgere diversi uomini in tenuta da battaglia all'interno, e più vicini alla sua posizione altri che parevano starsene in disparte. Fra di essi riconobbe quasi subito il nano. Non aveva intenzione di disobbedire agli ordini dell'autorità del castello, ma visto che il sole - che sferzava a spicchi i fastosi corridoi - lo stava incalzando esattamente fra gli occhi, decise di cambiare posizione e farsi più avanti. Quando emerse dalla penombra il bracciale da donna che portava sull'arto nudo spedì un riflesso dorato al cielo.

« Lunghi giorni e piacevoli notti a voi, signori. »

Salutò con fare cordiale tutti i presenti, presumibilmente attirati lì dal medesimo bando che aveva catturato la sua curiosità; ma riserbò solo al più basso di loro un elegante cenno del capo, al quale non aggiunse però altro. Di tempo per cianciare non ve ne sarebbe stato comunque, dal momento che la figura appena sbucata dai corridoi aveva calamitato appieno l'attenzione di tutti. La voce tonante dell'uomo lo sorprese come un fulmine avrebbe potuto farlo squarciando la volta tersa e silenziosa di quel giorno. Ma non si lasciò intimidire dall'arringa, anzi, ne approfittò per studiare l'aspetto e le movenze di colui che sarebbe stato loro comandante. Indugiò sulla corazza, in particolare le poche ma precise cesellature, e sulle sciabole dall'indubbiamente pregiata fattura - prima di soffermarsi sul suo viso altero, e soprattutto sugli occhi.
Gli occhi di uno spietato - ma sagace - omicida.

« Il mio nome è Ishmael, comandante. »
affermò a voce alta, ma non abbastanza da sembrare maleducato
« E confido che un uomo come lei non abbia bisogno di chiedere per comprendere di che pasta siano fatti i suoi soldati. »

L'Occhio del Drago baluginò di una tenue luce azzurrina e fu l'unica cosa a incresparsi nel suo aspetto. Non si mosse di un millimetro dalla sua peraltro già marziale postura, ne un'ombra di esitazione oscurò il suo viso - neppure quando consapevole di star mentendo almeno su una cosa. In fondo, ricorrere a nomi falsi era stata abitudine del Primo, e in parte della Terza; lo aveva fatto per così lungo tempo da diventare ormai consuetudine. Qualcosa che avesse una pronuncia troppo distante dalle terre in cui si trovava avrebbe potuto sollevare sospetti, o alla meglio, domande, in maniera non molto dissimile del suo aspetto. Tuttavia era piuttosto certo che almeno con Zuben non sarebbe stato un problema. Le sue percezioni difficilmente potevano ingannarlo, e in quell'individuo aveva visto una mente affilata oltre che un braccio forte. Non lo avrebbe mai giudicato sulla base delle apparenze.

« Sono giunto qui per servire, e se mi sarà concesso sarà quel che farò. »

Affermò infine risoluto, agganciando lo sguardo del veterano di mille battaglie. Non aveva intenzione di dilettarsi in pavoneggiamenti pubblici e non l'avrebbe fatto a meno che esplicitamente costretto. Tuttavia non aveva intenzione neppure di mancare di rispetto al leader dei mamūluk; l'autorità della figura di comando era ciò che ispirava e teneva coesi i suoi uomini, e fra le altre ragioni per le quali desiderava non mettere in questione il fatto, non ultima si trovava il desiderio di non fare di Zuben un nemico.






















 Energia. {125%}
 Mente. {100%}
 Corpo. {75%}




Condizioni fisiche. Normali.
Condizioni psicologiche. Normali.

Tratti.
— Levitazione [volo] (5/5)
— Calma Interiore [difesa psionica passiva] (5/6)
— Anima d'Acciaio [resistenza al dolore psionico] (6/6)
— Spiegare le Ali [forma astrale] (6/6 - 6/6)
— Sciabola di Folgore [sciabola magica] (6/6)
— Ispirazione [+1CS in Vigore ad ogni cast altrui di tipologia magica] (6/6)
— Intuizione [riconoscimento illusioni + auspex per talento e classe + auspex per suddivisione delle risorse] (6/6 - 5/6 - 5/6)
— Tecnica [capacità di danneggiare la riserva energetica con attacchi fisici] (6/6)
— Memoria Eterna [capacità di rievocare, modificare, cancellare qualsiasi ricordo personale] (6/6)
— Cosmoveggenza [auspex informativo sul territorio] (1/2)
— Vigore [resistenza alla fatica da consumo energetico] (6/6)


Equipaggiamento.
— Spada lunga ornata
— Scimitarra rotta
— Corazza pettorale in cuoio (armatura leggera)
— Bracciale cerimoniale (a cui sono assicurate mediante laccio la biglia stordente [1], la biglia fumogena [1], e la biglia dissonante [1])
— Sacchetto di sabbia rimodellante (erba rigenerante [1])
— Pozione rossa (erba medicinale [1])

Tecniche passive e attive impiegate.
CITAZIONE
Calma Interiore — l'Imperatore è immune a qualsiasi sorta di sottile influsso psicologico, che sia di natura arcana o dovuto alla semplice dialettica del suo interlocutore; egli difatti non potrà essere spaventato, sedotto o raggirato da alcuna malia mentale passiva. Possiede anche un ragguardevole autocontrollo circa le proprie emozioni e passioni, al punto che molto di rado si lascerà influenzare da esse in maniera preponderante.

CITAZIONE
Intuizione — indugiando sulle forme, le linee e le proporzioni del corpo del proprio avversario, studiandone la postura e le reazioni, la Scaglia sarà in grado di intuire con ragionevole certezza i suoi punti di forza e le sue qualità più evidenti; in termini di gioco, egli ne apprenderà Talento, Classe e Suddivisione delle Risorse. [...]

CITAZIONE
Cosmoveggenza — la terra, l'aria, la natura, ogni cosa - viventi compresi - è percorsa da sottile trame d'energia, cariche di informazioni per chiunque sia in grado di leggerle, e ben disposte a comunicarle a chiunque sia in grado di ascoltare. Focalizzando la propria attenzione a tale scopo, l'Imperatore è in grado di assimilare svariate informazioni dall'ambiente circostante; in termini di gioco, egli può venire a conoscenza dell'attuale situazione sociale e politica del luogo, il nome di individui di potere legati al posto e di eventi accaduti in passato (quest e scene). Conta come un auspex di conoscenza del territorio.

Note.
Eccoci qua. "Ishmael" viene a conoscenza del bando e decide di recarsi a Masut ad aiutare, poiché interessato ad apprendere di più sulla tratta di schiavi e su chi la manipola attivamente in questa epoca. Giunto in città informa le prime guardie che trova del suo interesse, e viene dunque scortato a palazzo sino al punto in cui si ricongiunge assieme agli altri avventurieri. Durante il tragitto assimila diverse informazioni sulla città e i suoi nomi importanti (sfruttando Cosmoveggenza), ma per il momento tiene per se queste sue informazioni. Quando Zuben fa la sua comparsa, egli subisce l'influsso (non utilizzando tecniche attive per difendersene) ma lo ignora per questo turno in virtù della sua passiva "Calma Interiore" (essendo il consumo Basso delle parole di Zuben spalmato su due turni, l'effetto nel singolo dovrebbe essere di potenza passiva). Apprese informazioni sull'uomo impiegando "Intuzione", realizza che il comandante possiede talenti a lui similari (Talento "Stratega", come riferito da Orto via pm) e per questa ragione ritiene che egli sia già in grado di capire chi possa essere lui utile e chi no. Certamente ci sarebbero stati altri modi di "sorprenderlo" (magari mutando in un serpentone gigante X°D o mettendosi a volare, confesso che sarebbe stato divertente) ma il mio pg non è tipo da sbruffonate, quindi ho deciso di evitare. Non ho altro da dire.

Auguro una buona quest ai miei compari e al qm!

EDIT: corretto un errore di battitura.






Edited by Fatal_Tragedy - 6/9/2015, 17:29
 
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Indovino titubante
view post Posted on 14/9/2015, 23:44





S'era messo a scavare non appena aveva intravisto il luccichio dell'oro.
Più l'aveva scoperto dalla polvere e più forte s'era fatto il battito del suo cuore - le mani avevano scavato come fossero dieci, cento e poi mille ancora: non era stato l'inganno di un miraggio, né il riflesso dei granelli di sabbia sotto il sole. Masut, la pepita che aveva trovato nel Bekâr-şehir, era una città cui non mancava quella che ai suoi occhi era la più desiderabile fra le ricchezze. Le sue strade erano battute ogni giorno e ogni notte dai passi di quel tesoro; i quartieri del mercato strabordavano di volti e di uomini, familiari e stranieri, tanto che a molti s'erano messe catene intorno alle mani - e altri di quei corpi li si doveva tenere dentro le gabbie, ché avevano uno squisito valore e soltanto un drappo a vestire le loro nudità. Un piccolo frammento di sogno era in ogni pezzo d'oro che tintinnava nelle tasche del mercante, nella malizia degli sguardi e in ogni grido; il destino di uno piegava ad ogni respiro, e subito dopo un altro seguiva urtandolo col piede.

« Che pensano? » si domandava un uomo,
« Se potessi prender parte ai loro sogni... »

Viaggiare a quel modo era quel che di più simile alla morte potesse provare.
Entrò nella città a piedi nudi e camminò piano, per ore e ore. Che non esistesse affatto non aveva importanza: una trama invisibile, oltre le mura e oltre la carne, era il corso d'acqua in cui avanzarono le sue gambe fino a svanire - a turno annegarono il sesso, poi la vita. Quando ormai era dentro all'altezza dell'ombelico la corrente crebbe con veemenza, troppa perché potesse resisterle. Allora si arrese al suo desiderio e lasciò cadere quel che gli restava del busto; per ultimi scomparvero il volto e le mani, che Masut avrebbe portato con sé alla foce dei suoi sogni. Non rimasero che il sole e la luna a contare i suoi giorni: col corpo fatto a pezzi, Torc'hijen attese pazientemente che gli si mostrasse un'occasione per tornare a scrivere una storia. Quand'ebbe giudicato sufficiente il suo tempo, aprì gli occhi.

. . .


Riconobbe una figura di donna, vestita di abiti scuri e dal colore della terra, che sedeva all'ombra di una tettoia. Unico lembo del suo corpo ad essere scoperto, il viso appariva per contrasto come una maschera pallida, sebbene la sua pelle fosse di una calda tonalità olivastra. Dall'anello che perforava la sua narice pendeva una sottile catenina d'oro, che lambiva la guancia sinistra fino a nascondersi fra le pieghe del velo che le copriva il capo; ne era libera soltanto una ciocca dei suoi capelli castani, che cadeva morbida fin sotto il mento. La donna non distoglieva lo sguardo dallo spazio dei suoi pensieri, come fosse all'interno di una sfera di cristallo che strozzava le luci e i suoni provenienti dal giardino in cui era ospite. In una cornice sbiadita alla sua attesa, v'erano un manipolo di soldati vicino a un colonnato cui il sole abbagliava le armature dorate, riflettendo i solchi e gli stemmi delle ricche cesellature che le disegnavano; senza che dovessero indossare un'uniforme comune, si trovavano nei dintorni alcuni uomini che faticavano a scambiare parole. Provenivano da terre diverse e strade lontane, ma tutti e quattro si radunarono di fronte a colui che avrebbe tirato le fila delle loro vite nei giorni a venire. Il volto della donna si scosse dal voto di silenzio - ai movimenti del suo corpo seguirono le voci discrete dei gioielli che nascondeva. I suoi occhi tagliarono di netto la figura del comandante dall'armatura a piastre scure, che aveva fatto il suo ingresso nel giardino. Districò le gambe dal loro intreccio e camminò sulle suole silenziose fino a prendere il suo posto, accanto agli altri.

« Il mio nome è Merve. »

Sollevò la destra in segno di saluto a Zuben, il comandante: aveva unghie affusolate e smaltate di una tinta violacea; un disegno in hennè muoveva i punti e le le linee intricate lungo il dorso della sua mano. A dispetto della sua figura minuta rispetto alla stazza dei guerrieri, la donna parlava con voce dura e con lo sguardo fisso era in grado di tener testa al suo interlocutore, che pure non le era indifferente per il timore che incuteva con le grida. Incurvò appena le labbra - i suoi occhi giocarono di rimando. Mentre ritraeva la mano fra le pieghe della veste, il tessuto fu perscorso da una danza d'ombre sinuose, così che sembrasse che una moltitudine di braccia stesse muovendosi al suo interno. Il collo della donna piegò verso l'alto con uno scricchiolio, allungando sul suo viso un'esile espressione di malizia. Sottile come l'errore di un sogno, qualcosa di innaturale possedeva il corpo della straniera.

« Vengo da Tanaach. » ... E ho visto coi miei occhi, sembrò dire il silenzio dopo di lei.
« Sarò quel che volete, uomo - una nomade, una spia, un'assassina... »

La perla di turchese affiorò dal filo di una collana,
stretta attorno alle sue vene.




Corpo 75
Energia 150
Mente 75

Abilità utilizzate
abilità razziale, cammuffamento Torc'hijen è in grado di cambiare interamente il suo aspetto, purché rimanga umanoide; l'unico tratto distintivo è una perla di turchese, gioiello che porta sempre con sé. abilità passiva, 6 utilizzi 5/6

abilità personale 2/25 Torc'hijen è in grado di muovere e distorcere il suo corpo a piacimento, ignorandone qualsiasi limitazione anatomica. abilità passiva, 6 utilizzi 5/6

Riepilogo la prima parte del post parla dell'arrivo di Torc'hijen a Masut. Nella seconda metà salto direttamente alla scena nel giardino, in cui l'ombra ha già preso le sembianze di Merve - la quota rosa e il tocco freaky weird shit del gruppo. Durante il discorso, la donna utilizza la sua passiva da contorsionista per muoversi in un modo un po' sinistro, sotto il vestito che le copre interamente il corpo, e impressionare il comandante - nonché i presenti - insinuando in loro l'idea che ci sia sotto qualcosa di mostruoso.

Note avevo un sacco di idee per questo post, ma mi sono ritrovato questa sera con tre ore a disposizione. Stavolta sono rimasto all'essenziale, ma cercherò di recuperare dal prossimo turno in poi. Mi scuso ancora per il ritardo e spero di non deludere le aspettative! ^ ^

Edit: sistemate minuzie.


Edited by Indovino titubante - 15/9/2015, 02:38
 
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Alb†raum
view post Posted on 20/9/2015, 18:17







«Dove andrai, Jorge?»

Il tossicologo trasalì dal torpore in cui era caduto e si portò una mano al cappello a cilindro, come se avesse paura che potesse rotolare nella polvere del deserto. L'uomo dalla pelle scura accanto a lui gli lanciò un'occhiata perplessa, sospendendo quella specie di gioco di cilindri di legno che teneva in mano. Aveva occhi neri, grandi e vacui come quelli di una vacca istupidita, e l'odore che emanava dagli abiti stracciati e luridi era lo stesso del letame accumulato per la fermentazione. Jorge si schiacciò nell'angolo del carro e gli fece un cenno vago per tranquillizzarlo; quello si strinse le spalle, tornando a chinarsi sul proprio rozzo passatempo.

«Sono fatti miei, Rod» rispose con un filo di voce a quella propria, insistente coscienza. Non era la prima volta che ci faceva i conti, non sarebbe stata l'ultima; ma lo snervante sospiro che gli rimbombò nelle pareti del cranio gli fece stringere le mani per il nervosismo come ogni volta. «Non ho bisogno di prediche. Sto facendo la cosa sbagliata? Probabilmente. Sicuramente, anzi. Credo che poche cose giuste inizino con un viaggio semi-clandestino verso l'Akeran».
Una risata gli sfuggì dalle labbra e il nero alzò nuovamente gli occhi per guardarlo, questa volta con evidente preoccupazione. Altri si erano uniti a lui, e persino una donna con il volto nascosto da un velo si permise di squadrarlo un istante, prima che il marito la costringesse a riabbassare lo sguardo verso le assi del carro. Erano occhiate stranite, rivolte a quel vecchio che già sbuffava e rantolava come una caldaia malfunzionante. Jorge si tirò il mantello per sedersi più comodamente sulle assi del carro. Uno stantuffo tese per un istante il tessuto prima di riaffondare. Qualcuno dovette notarlo, perché lo indicò allarmato.
«Avresti potuto invece rendere questo dannato respiratore meno evidente» commentò acido, sapendo benissimo che Rowald non era lì ma a quasi cento miglia di deserto di distanza, probabilmente seduto nel proprio studio a finire un qualche progetto per l'Accademia.

«Sei un illuso se pensi di ricavarne qualcosa da questa follia» replicò la coscienza ancora una volta. Jorge scrollò la testa.
«Abbiamo già fatto questo discorso».
«Tu non ascolti, Jorge. I tuoi figli, tua moglie, cosa penseranno di te?»
«Mia moglie starà facendo la puttana in qualche bordello. I miei figli moriranno di peste e io andrò al loro funerale vestito di seta».
«Sei un mostro, Jorge».

Il tossicolo ridacchiò fra sé e sé. Oh, ora si stava dando del mostro da solo; poi cosa sarebbe successo? Si sarebbe messo a balbettare frasi a vanvera, esclamando come era inutile, come era comunque destinato a morire?
Una leggera fitta lo colse sulla fronte. Lui si portò una mano lì, massaggiando. Lo sentiva. Sacerdoti e medici gli avevano detto che non era possibile, che la woromhabes era piccola, impalpabile da dietro il cranio, eppure lui la sentiva. Gli premeva la fronte per esplodere al di fuori delle ossa, gli succhiava il sangue e lo risputava fuori nero come la pece, denso di liquami fetidi e infetti. Le vene del braccio e delle dita gli pizzicarono, e lui le sfregò con i polpastrelli vigorosamente, poi con violenza, pizzicando, come se avesse voluto spremersi fuori la malattia. La pelle gli divenne rossa. Avrebbe voluto spezzarla e lasciar defluire il sangue. Avrebbe desiderato farsi a pezzi, distruggersi le ossa, spezzarsi i legamenti e lasciare che la woromhabes corresse via, trasportata dai fluidi liberati, e poi ricostruirsi, libero da quel tormento e da quella sensazione di oppressione che gli tormentava la testa.
Si morse un labbro con forza. Portò una mano al bandoliere di boccette che teneva sul braccio, ne afferrò una e la spinse nel buco del catetere. L'ago lo pizzicò appena, una sensazione quasi benefica ormai. Lui poggiò la schiena contro la parete e chiuse gli occhi, lasciando che cianuro, piombo, arsenico e haba carminia gli scorressero nel corpo. Gli sfuggì un colpo di tosse, poi un altro. Bruciava, dannazione se bruciava! Era fuoco, lava nelle arterie e nel cuore. Eppure senza questo sarebbe già morto.
«Quanto mi rimane ancora da vivere?» pensò schiudendo appena le palpebre. Quel pensiero rimase lì fisso per il resto del viaggio.


Quando arrivò a Masut, quasi non ricordava il motivo per cui si fosse recato lì.


«Non è possibile, mi dispiace».
Jorge prese gli occhiali sporchi di polvere e se li pulì con una pezza, accontentandosi del sudore delle dita come detergente. Il sole alto entrava dalle finestre dell'ufficio mercantile e gli pizzicava la pelle al di sotto del vestito nero, ma non quanto il fastidio di star parlando con quell'ottuso mercante.
«Ho detto che se riguarda il denaro non è un problema. Vuole cento monete? Centocinquanta? Le portiamo da un cambiavalute se crede che io sia un falsario». Si piegò verso l'ometto, sovrastandolo con l'alto cappello cilindrico. Quello lo squadrò con indifferenza, reclinando il capo per soffiarsi il naso.
«Non sono previsti viaggi verso le montagne, signore». C'era qualcosa di simile a una risata nella sua voce o se lo stava immaginando? Jorge schiantò le mani sul bancone, innervosito.
«Hai solo questa frase nel repertorio o puoi anche sprecare qualche parola in una spiegazione?» gracchiò nervosamente in quella orrenda lingua del sud che gli ardeva la gola più del sole che picchiava sugli abiti scuri. L'altro scosse la testa fissandolo con severità.
«La prego di trattarmi con più rispetto. Se lei crede che le stia negando il viaggio di proposito è in errore, e mi duole tantissimo comunicarglielo, ma io pretendo che mi si rivolga la parola educatamente!». E così dicendo rinfoderò il fazzoletto nella tasca, mostrando quel paio di baffi radi che parevano peluria cresciuta attorno all'orifizio sbagliato.
«Devo raggiungere Merakh il prima possibile per affari». Jorge mosse le dita appena, stuzzicando il meccanismo retrattile dei pugnali avvelenati come un gatto annoiato si stiracchia scoprendo gli artigli. «Quindi o lei mi spiega per quale diavolo di motivo non è disposto a traspostarmi o mi rivolgerò a qualche concorrente. Pagandolo meglio, magari».
Jorge ghignò, ma il mercante si limitò a stringersi le spalle ridacchiando. «Faccia con comodo, allora. Nessuno oserà mai varcare le montagne di questi tempi».
Le mani del tossicologo si irrigidirono, pronte a saltare al collo di quell'omacciolo impertinente. Alle loro spalle vi era tuttavia solo una porta chiusa a separarli dalle strade di Masut, e urla terrorizzate avrebbero potuto attrarre attenzione... oltre al fatto che non ne sarebbe valsa minimamente la pena per una sciocchezza del genere, bisognava ammetterlo.
«Io...» cercò di ritrovare contegno nel tono di voce, ritraendosi un poco e facendosi piccolo sul bastone da passeggio. «Io mi scuso per il mio comportamento, ma sono veramente di fretta. Se lei potesse darmi qualche informazione di più...»
Il mercante scosse le spalle. «Banditi, nient'altro. Da oltre le montagne non arrivano più carovane, e personalmente non mi sembra un buon momento per sfidarle». Così dicendo aprì un tomo sul banco e iniziò a scarabocchiare qualche conto. Jorge diede un'occhiata di scorcio alle cifre, ma dovette rassegnarsi a non comprendere nulla della disordinata calligrafia mercantile di quei luoghi. «La milizia sta cercando qualche mercenario in grado di liberarcene, ma passerà del tempo prima che si faccia qualcosa. Le consiglierei di mettersi il cuore in pace e lasciar perdere, se il suo appuntamento è urgente. Altrimenti non le rimane che aspettare».
C'era qualcosa negli occhi che il mercante gli puntò addosso che non lasciò trapelare molta speranza. Sfogliò il volume e continuò ad appuntare qualcosa. Jorge non capiva cosa quell'atteggiamento sornione volesse nascondere.
«Non c'è niente che si possa fare?» incalzò , avvicinandosi un poco di più all'uomo. Quello scosse la testa.
«Se vuole arruolarsi può sempre presentarsi ai bastioni di granito... ma mi dica, quanti anni ha lei?»
«Cinquanta». L'altro sollevò gli occhi con sincera ma detestabile sorpresa. Jorge sentì la woromhabes premere, premere forte sulle tempie, e sentì di aver bisogno di altro intruglio, tanto da ucciderlo magari, ma comunque non abbastanza per liberarlo da quel male.
«Mi scusi se glielo dico, ma non li porta molto bene» sorrise l'altro. In quel momento le nocche di Jorge avrebbero voluto privare quel ghigno di qualche dente.
«Me lo dicono in molti» tagliò corto. «La ringrazio per la disponibilità. Ne terrò conto quando avrò bisogno di farmi ordinare qualcosa». Un bel carico di letame di porco, per esempio. Da far scaricare a mano a terra una volta arrivato. Pregustò l'immagine di quell'incapace chinarsi a raccogliere le feci liquide a mani nude, soffocando i conati di vomito mentre stringeva gli occhi gonfi di lacrime di ribrezzo, dopodiché la scartò.
«Di nulla» disse l'altro come se stesse sputando un bolo di catarro. Era tornato a scrivere sul suo registro con fare occupato. «Mi faccia sapere».

Jorge si calcò il cappello a cilindro sul capo nell'uscire nuovamente sotto il sole cocente dell'Akeran. Sollevò lo sguardo sugli edifici e sulle case sopra cui fumeggiavano folate di sabbia. Il rumore sottile del vento si confondeva con quello metallico del macchinario che lo teneva in vita. Le vibrazioni gli percorrevano le ossa come se lui fosse stato uno strumento a corde: il fiato veniva aspirato forzatamente dalle narici in un singulto e poi usciva soffiato via. Tese una mano verso la maschera che teneva nella palandrana, poi la ritrasse, poi la tese ancora. La sfilò da una tasca e se la calò sul volto, coprendoselo con la stoffa aderente. Mentre si allacciava le stringhe di cuoio sulla nuca qualcuno si fermò a guardarlo con espressione stranita, soffermandosi prima di ripartire senza distogliere lo sguardo. Un cane si mise ad abbaiare. La risata di una madre che trasportava un bambino piccolo in grembo si spense, e per un istante il tossicologo credette che si sarebbe messa a urlare.
Era diventato una stranezza, uno di quei saltimbanco menomati che tanto andavano di moda nei salotti di Shirazamar. La maschera tuttavia... la maschera gli diede per un istante la sensazione di essere tornato a essere un uomo. Comandò al suo petto di espirare e inspirare e questo ubbidì, espandendosi e contraendosi al ritmo non più imposto dalla macchina, ma dal suo volere, così come era stato per i cinquant'anni precedenti.
Così come non sarebbe mai più stato senza quella pagliacciata a coprirgli la testa.
Si passò una mano sulla fronte e trovò il ruvido tessuto. Woromhabes, woromhabes... era lì, sotto le sue dita. Quanto distante? Un cranio umano aveva una circonferenza di circa sessanta centimetri, quindi non era distante, no, affatto, non più lontano del tendere delle sue braccia, forse nemmeno del tocco delle sue dita... eppure non si poteva fare niente! Niente come con suo padre, che era morto con solo quella piaga in bocca, quella piaga che veniva tagliata e ricresceva, e alla fine era ricresciuta tanto che il suo stesso corpo si era rattrappito ed era morto, morto di una malattia che non devasta i polmoni o distrugge l'intestino, non uno di quei morbi che causano sanguinamento copioso e fluidi corporei sparsi per la stanza o demenza. No, lui era morto di una piaga in bocca, un errore del corpo.
Woromhabes.
Strinse un labbro fra i denti tentando di distogliersi da quei pensieri, di focalizzarsi sulla realtà, eppure continuava a vedersi a letto come suo padre, quel padre che gli aveva insegnato ad amare l'alchimia e la scienza e che era stato tradito dal suo corpo. Perché woromhabes non era che questo! Un tradimento.
Il corpo umano era orrendo. Metà delle tossine che conosceva funzionavano perché l'organismo sbagliava a usarle. Sbagliava a usarle e uccideva sé stesso perché, invece di convertire in zuccheri il contenuto dei noccioli delle pesche, lo trasformava in cianuro. Quando aveva letto lo studio, suo padre era scoppiato a ridere.
Jorge era rimasto orripilato.

«I bastioni...! I bastioni! Dov'è quel dannatissimo...!» sbraitò all'improvviso, e solo la voce alta riuscì a dissolvere quelle idee morbose. Le mani gli tremavano e nello stomaco un peso insostenibile lo trascinava a terra. Ora più persone si erano fermate a guardarlo, gente che non aveva nulla da fare se non fissare un vecchio moribondo, non era vero? Avrebbe voluto gridare loro di lasciarlo in pace, di sparire, avrebbe voluto dire che stava male, tanto male. Avrebbe voluto dire che era stanco.
Senza fiatare, Jorge si avviò fra gli edifici ignorando gli sguardi che lo seguivano. Il rumore del respiratore sulla schiena lo accompagnò a ogni passo come la sinfonia di un'armonica rotta. Tentò di darsi un certo contegno, ma vestiti e maschera lo rendevano troppo peculiare. Se la sfilò compostamente e la rimise in tasca. Delle guardie avrebbero potuto irragionevolmente insospettirsi, e lui non aveva tempo da perdere per discolparsi. Doveva raggiungere Merakh e doveva farlo il prima possibile, perché la woromhabes non l'avrebbe aspettato, e se poteva risolvere il problema che lo teneva bloccato lì in qualsiasi maniera, allora avrebbe volentieri fornito una soluzione.
Del resto era quello che faceva anche da farmacista, no? Fornire soluzioni.
Soffocò una risata nervosa dietro la mano.

Dovette fermarsi a chiedere informazioni un paio di volte per giungere al luogo d'incontro. La pelle chiarissima e, soprattutto immaginava, gli abiti scuri in quel clima insopportabile facevano sorgere espressioni non troppo convinte sul volto degli abitanti anche se non aveva indosso la maschera. “A Shirazamar così si vestono i padroni” avrebbe voluto urlare loro in faccia. “Sono i servi quelli che si scottano sotto il sole”.
Arrivò al castello che ormai il sudore gli aveva creato una patina trasparente sulla fronte. Si passò un fazzoletto per rinfrescarsi il volto mentre si avvicinava alle sentinelle che stavano di guardia all'entrata della fortezza, una costruzione non dissimile a quelle delle provincie attorno a Shirazamar, con le mura di quel giallastro sopra cui il sole rifletteva impietoso. Soldati di pietra si ergevano ai suoi lati, come per intimare rispetto e cautela. Jorge fissò le fattezze grossolane delle statue e poi quelle dei due uomini, e fu con una certa soddisfazione che notò la stessa rozzezza nei lineamenti del viso.
«Credo che l'abbiano informata male, signore» mormorò una delle guardie, tenendo le labbra strette come se stesse trattenendo una risata. L'altra era leggermente migliore a nascondere le emozioni, però le rughe che le incresparono la fronte erano di inequivocabile ilarità.
«Cosa intende dire?»
«Intendo dire che chiunque l'abbia convinta a venire a Masut con questi abiti deve essere un po' tocco, signore»
«Molto divertente» grugnì Jorge, grattando la terra con il bastone da passeggio. «Ho sentito parlare di un bando di arruolamento per chi fosse disposto a combattere i... banditi? Correggetemi se mi hanno informato male».
«Uh, no».
«Perfetto, i banditi che infestano le montagne. Mi hanno comunicato che questo era il luogo di ritrovo, o sbaglio?»
«Dove vuole arrivare, signore? Il nostro turno finisce fra un paio d'ore e vorremmo che lei ci dicesse il punto prima che ce ne andassimo».
L'altra guardia si era appoggiata al muro e faticava a trattenersi. Jorge doveva essere la prima cosa divertente che vedevano in tutta la giornata... un vecchio addobbato come se andasse a un funerale che si presenta per arruolarsi! Certo... ridicolo. Le mani gli si strinsero sul pomo del bastone.
«Vorrei aderire al bando. O provarci, perlomeno. Sono addestrato nell'uso delle armi e ho fatto leva militare...»
«Quanti anni fa?»
«Cosa dice?»
«Mi scusi, ma quanti anni fa? Se adesso venissero ad arruolarsi tutti i vecchi di Masut che hanno dato servizio militare, domani avremmo la montagna infestata di nonnetti morti. Lei mi crede se le dico che non sarebbe un bello spettacolo?»
«Lei... farebbe meglio a moderare le sue parole» sibilò Jorge, puntandogli addosso il bastone. L'altro rise, ma la mano sull'elsa della spada si serrò appena. Non aveva nemmeno idea che a quel vecchietto a cui stava menando il naso sarebbe bastato girare il pomo per fargli capire cosa volesse veramente dire essere baciati dal sole.
«La prego di calmarsi. Io stavo solo tentando di dissuaderla da un compito che alla sua età sarebbe... perlomeno faticoso».
«Hai l'autorità per rifiutarmi?»
L'altro volse gli occhi al cielo come per pensare, poi scosse la testa.
«Allora portami da qualcuno che ce l'abbia» abbassò il bastone, tornando a puntellarlo a terra. “E se questi deciderà di non cacciarmi, affronterai le conseguenze della tua stupidità” pensò mentre l'altro sollevava le spalle e gli faceva cenno di seguirlo.

Attraversarono i corridoi del castello in silenzio, la guardia a passi veloci e Jorge dietro questa, cercando di tenere il ritmo nonostante i respiri forzati. Si era cavato di testa il cappello e lo teneva in mano quasi con riserbo, mentre qualche guardia di transito gli lanciava un'occhiata di sfuggita. Shirazamar era l'unico dannato posto su Theras dove si vestivano queste cose? Aveva viaggiato, certo, ma era la prima volta che non poteva adottare abiti meno vistosi: ciò che c'era al di sotto del mantello e della palandrana avrebbe dato molto più nell'occhio.
Trovarono il giardino centrale già sufficientemente affollato. Jorge squadrò quelli che sembravano ufficiali piegati su qualche carta o a discutere animatamente fra loro in mezzo alla vegetazione piuttosto spoglia del cortile. Alcuni cespugli dalle foglie graffianti e una vasca di pietra erano le uniche decorazioni di quel luogo. La guardia condusse Jorge in un angolo.
«Aspetti qui l'arrivo del Gran Maestro Zuben. Lui ha l'autorità di cacciarla» mormorò l'uomo nel congedarsi. Jorge fece un segno di saluto con la mano, augurandosi di non rivedere mai più quell'individuo.
Accanto a lui vi erano un ragazzo e una donna dalla pelle scura, con i capelli coperti da un velo e una collanina metallica che le era attaccata al naso. A Jorge vennero in mente i tori, quelli che aveva visto illustrati nei libri, a cui applicano nelle narici un anello di ferro per poterli legare e costringere a muovere, ma non vi diede troppo pensiero. Si appoggiò mollemente al bastone e si rimise il cilindro in testa, guardando stancamente l'agitazione di persone attorno a lui. Era in viaggio da una settimana e aveva riposato solo raramente, quando ci era riuscito e quando i pensieri e i dolori della malattia o dei meccanismi non l'avevano trovato da sveglio, tormentandolo. Si guardò il polso un istante, dubbioso, poi esitante prese una fialetta d'acqua e sale e la inserì nel foro. “Una borraccia sarebbe più pratica” mormorò la voce di Rowald nella sua testa, ma in cuor suo sapeva che non sarebbe stata la stessa cosa. Spingersi sostanze nelle vene era diventata una mania.

Zuben arrivò qualche tempo dopo. Il suo arrivo fu preceduto da silenzio e succeduto da una sfuriata degna di quelle che sua madre era solita a fare quando tornava lurido di fango dalla palude.
Jorge si ritrasse, succube di quell'immagine per un istante. Per un istante il vuoto gli si fece nella mente, e si chiese cosa stesse facendo lì, cosa un vecchio senza neppure più i polmoni avesse da offrire per combattere un gruppo di assassini. Poi ritornò all'anno di accademia militare obbligatoria. Si ricordò della voce dell'istruttore, così dura e poco umana, e si ricordò come ci aveva riso sopra perché quello stronzo beveva di nascosto in servizio e si faceva portare prostitute quando vietava loro di assaggiare solo vino o incontrare le proprie madri. Si ritrasse appena, sostenendosi sul bastone, e si fece coraggio.

«Jorge Louis Joyce» mormorò infine. «Professore di tossicologia a Shirazamar. Esperto in veleni» si premunì di aggiungere, visto che un termine in antico theraniano non era sempre compreso. «Ho anche una sostanziale esperienza in sostanze utili ai fini del combattimento, se può interessare, oltre che un certo addestramento militare. Mi interesserebbe aiutare per... il bene comune». Sorrise appena, senza tentare di figurarsi una scusa più fattibile. Non aveva cattive intenzioni e non aveva necessità di rivelare lo scopo del proprio viaggio.
Masut era, per lui, solo una sosta non prevista.


Energia: 100%
Corpo: 100%
Mente: 100%
Passive attivate: ///

Attive: ///


Note: Jorge si reca a Masut come prima tratta di un viaggio che lo avrebbe dovuto portare in una seconda città tra le montagne, ma il percorso bloccato lo spinge a prestare aiuto perché il problema possa essere risolto più velocemente.
Enoy it :8):
 
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view post Posted on 30/9/2015, 19:46
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Aper army
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{ Masut, Bastione di Granato, sommità del Torrione dei Leoni }


«Quel nano è Jahrir Gakhoor? Il vero Jahrir Gakhoor?»

Il giovane califfo si sporse ancora di più dall’orlo del parapetto merlato, cercando trepidante di scorgere, in mezzo alla schiera di cavalieri che lasciava il castello, quel piccolo nano di cui l’intero Akeran conosceva il nome e le gesta. Il Torrione dei Leoni, il più imponente della fortezza, da cui osservava però era molto alto ed era difficile distinguere chiaramente i volti e le forme dei corpi. Sum Kadhir, al suo fianco, ritto in piedi con una mano stringente il bastone e l’altra pigramente infilata nell’ampio vestito all’altezza del petto, guardava anch’egli l’armata allontanarsi.

«Possiamo davvero fidarci? È stato nostro nemico per anni.» Domandò Nu’man, senza smettere di cercare con lo sguardo l’oggetto della sua curiosità.

«Vi assicuro che non ci darà alcun problema.» Rispose pacatamente il visir. «Per la sua gente sarà anche un eroe, ma io l’ho guardato negli occhi, mio giovane sovrano...» Alzò il mento, convinto dell’affermazione che stava per pronunciare. «...e ho visto un nano disperato. Accetterà qualunque condizione.»

Balkar_zpsnc9xz14n

{ Monti del Balkar, via commerciale }


Sotto il sole di mezzogiorno, le montagne del Balkar brillavano di un rosso intenso, quasi sanguigno, facendo risaltare i picchi innevati che si protendevano imponenti nel cielo come cristalli su uno sterminato mare turchino. Il panorama era magnifico, tanto da far dimenticare per un momento ai soldati ogni pericolo che potesse celarsi lungo la strada tortuosa e impervia che conduceva al Passo degli Archi Rossi.
Jahrir, in sella al possente cavallo sauro che gli era stato fornito, però non si soffermò ad ammirare la splendida vista; pensieri tetri offuscavano i suoi occhi. Scrutava con circospezione e sospetto i singolari individui intorno a lui: la donna dal seducente aspetto alieno, il vecchio in nero dal corpo innestato da sinistri congegni pulsanti e il giovane affabile dalla figura efebica e marmorea che lo aveva cordialmente ossequiato e a cui lui aveva risposto con un lapidario e apatico cenno del capo. Certo non era squadra che chiunque si sarebbe aspettato, tantomeno Zuben, il quale, dopo aver ascoltato con rabbiosa attenzione ogni candidato, si era limitato a squadrare freddamente il nano senza dire una parola, come se non avesse ritenuto necessaria una presentazione da parte sua, come se avesse già ordini precisi per quanto riguardava la sua persona. Per un singolo istante, giurò di averlo visto sorridere, un sorriso glaciale, ferino. Poi ripassò in rassegna i tre uno a uno e si rivolse sbrigativamente a uno dei suoi neri e anonimi guerrieri dal volto coperto.
“Speravo in qualcosa di meglio, ma non possiamo farci nulla ormai, a quanto pare.” Aveva detto, sempre con il suo immancabile umore impenetrabile. “Se sanno combattere come sanno parlare, forse riusciranno a tornare a Masut con tutti gli arti al loro posto. Date loro cavallo e diarie, partiamo tra un’ora.” E così fu.

La lunga linea di cavalieri avanzava lentamente, Zuben, i suoi mamūluk e i mercenari in testa, le copiose truppe di Amrat dietro di loro, quasi il comandante delle guardie reali preferisse che fossero gli schiavi guerrieri ad addentrarsi per primi nella tana del leone, e in coda i carri trainati da cavalli carichi di viveri, materiali e attrezzature per l’accampamento. Gli uomini di Amrat componevano la maggioranza dell’armata, trecento cavalieri pesanti armati di tutto punto; i mamūluk, dotati di armatura più leggera e armamenti che consentivano loro manovre più rapide e una versatilità maggiore sui terreni montani, erano una frazione minima e raggiungevano a stento i cinquanta uomini.
La stretta via malmessa saliva ad alta quota, snodandosi per acrocori scoscesi, straducole scavate nella roccia viva sui fianchi delle montagne, sopra precipizi che cadevano a strapiombo per centinaia di metri, in fondo ai quali si scorgevano torrenti dalle acque impetuose e, occasionalmente, resti scheletrici di carri, animali da soma e uomini, soprattutto schiavi, traditi da una slavina, dagli orli cedevoli della carriera o dalle intemperie che spesso martoriavano quelle terre durante le stagioni umide. Il sentiero che valicava la catena del Balkar era pieno d’insidie, ma ciò non scoraggiava gli intrepidi carovanieri che ogni giorno la attraversavano, per loro il rischio e la morte era il pane quotidiano. Cominciava a fare freddo, i ghiacciai erano sempre più vicini e il sole si avviava lentamente verso ovest, arrossandosi. Nel giro di poche ore sarebbe giunto il buio.

Fu ad un certo punto che si udì in lontananza un grande stridore di uccelli rapaci, il quale si faceva sempre più assordante man mano che la strada proseguiva. Doveva trattarsi di un grosso stormo, insolitamente numeroso. I volti dei soldati e dei due comandanti iniziarono a incupirsi.

«Avvoltoi...» Ringhiò Amrat, scrutando il cielo. «Uccelli del malaugurio, significano sventura.»

«No.» Zuben lo affiancò al galoppo sul suo destriero, i denti stretti in una smorfia rabbiosa. «Significano morte. Hyah! Acceleriamo il passo!» Spronò la sua cavalcatura ed esortò gli uomini a fare lo stesso. I cavalieri di Amrat si mostrarono titubanti, ma si risolsero presto a seguire il vecchio guerriero nero, non ci avevano messo molto a intuire il significato delle sue parole. Un’ombra di preoccupazione calò sui loro volti.

«Cosa? Ma manca ancora un’ora di viaggio al Passo degli Archi Rossi!» Gridò Amrat al Gran Maestro, cercando di stargli dietro al galoppo, ma non ricevette alcuna risposta da lui. Tutto fu chiaro però alcuni tornanti più avanti, dove una scena orribile si parò di fronte agli occhi dei guerrieri di Masut.

La Bocca della Testa Nera, un angusto valico stretto tra due alte pareti di roccia rossa quasi verticali, una delle tappe di riferimento lungo la strada del Balkar. Ai lati della strada, in alto, due avamposti in tronchi di legno collegati da un ponte sospeso ne controllavano l’imboccatura appollaiati sulla sommità dei due costoni rocciosi. Una lunga teoria di carri sostava sulla via, immobile, poiché nessuna bestia da soma era attaccata ai gioghi. Un immenso stormo di uccelli dal capo senza piume, becchi e artigli affilati come pugnali e maestose ali sciamava e schiamazzava furiosamente intorno alla carovana, contendendosi le carcasse che ovunque sporcavano il terreno di sangue bruno oppure cercando di aprirsi una breccia negli strani drappi di colore marroncino sporco che foderavano quasi tutti carri.
Non appena la torma di cavalieri si appressò al sito, con ampi battiti d’ali i grandi uccelli si alzarono in volo. Inizialmente parvero scappare, ma presto si radunarono in un grosso stormo e si avventarono sugli invasori che minacciavano il ricco banchetto che avevano conquistato. La linea di soldati arretrò alla rinfusa di fronte a quella resistenza inaspettata.

«Merda! Sono aggressivi questi bastardi!» Inveì Amrat alzando lo scudo sopra il capo respingendo un’artigliata che gli avrebbe facilmente strappato un occhio. «Non arretrate, canaglie! Sono solo dei tacchini troppo cresciuti!»

Anche Zuben, estratte le due lunghe scimitarre affilate come rasoi, menava fendenti a destra e a manca su ogni rapace che gli capitava a tiro, mutilando ali e colli come fascette di paglia. Si voltò verso i quattro avventurieri. «Liberiamoci di questa seccatura e battiamo la zona.» Gridò, cercando di sovrastare con la voce lo starnazzare assordante. «Qualche traccia probabilmente è rimasta, dobbiamo scoprire qualcosa prima che scenda la sera e proseguire alla svelta: questo non è un posto sicuro per accamparsi.»

CITAZIONE
QM POINT
Scusate il ritardo, ma queste ultime sere sono state da delirio. Entriamo subito nel vivo della quest.

Tutti: Dalla razione di Zuben, non è ancora chiaro se e quanto lo abbiate convinto, nonostante ciò vi assolda nella squadra. Gli inservienti della fortezza di Masut possono fornirvi armi e armature se gliele richiederete (scrivete in confronto) e una cavalcatura, se non la possedete già. Il cavallo conterà come alleato bonus, il quale avrà un numero di utilizzi pari a 4, contati a parte e non cumulabili con quelli di eventuali amuleti elfici o abilità personali. Potrete descriverlo a piacere, l'importante è che sia un normale cavallo.
Pranzate sbrigativamente nella piazza d'armi del Bastione insieme agli altri soldati, la cambusa vi offre zuppa di cereali e pane azzimo. Poi inizia il viaggio! Vi addentrate tra le montagne del Balkar (immaginatela molto simile ai monti Elburz iraniani) battendo la famosa via commerciale, la quale si rivela ben più insidiosa di quanto ci si potrebbe aspettare. Viaggiate per l'intero pomeriggio salendo costantemente di quota. Inizia a fare freddo e il respiro diventa leggermente affannoso (per la cronaca, alla fine di questo post post siete circa a 2000 metri sopra il livello del mare).

Come descritto, vi imbattete lungo la strada in una nuova carovana assaltata, in corrispondenza di un avamposto ben prima del Passo degli Archi Rossi, dove avete avuto notizia dell'ultimo attacco. Zuben vi chiede di esplorare la zona in cerca di indizi. Ci sono 4 punti d'interesse in cui indagare, ma il tempo a disposizione è poco e il sole a breve calerà dietro alle montagne, per cui ognuno di voi avrà il tempo di espolorarne uno solo. Precisamente i luoghi d'interesse sono:
- La carovana
- L'avamposto Nord
- L'avamposto Sud
- Avanscoperta, ossia battere un tratto di strada oltre il luogo dell'assalto


Prima di fare ciò, però, vi trovate di fronte a un problema più impellente: lo stormo di avvoltoi, per nulla bendisposto ad abbandonare il ricco banchetto, vi aggredisce. Potrete riuscire a superarli indenni solo infliggendogli un danno totale pari o superiore ad Alto per cercare di ucciderli o disperderli. Gestiremo la giocata in confronto.

Nefesh: giacché hai mancato il post, nel primo turno di gioco Nefesh, nel tentativo di raggiungere Masut attraverso le montagne, smarrisce la via e vaga per giorni in mezzo al Balkar, soffrendo il freddo e la fame, uscendone provato nel fisico e nella mente: perdi il 20% di ogni tua risorsa. Incontri l'armata di Zuben e Amrat proprio in corrispondenza della carovana distrutta. Svolgeremo l'incontro in confronto.

 
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view post Posted on 16/10/2015, 23:06
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h e l l i s n o w
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[...]


II

PoV: Vaalirunah

(Bekâr-şehir, )



Abbassò la mano, mentre le ultime tremule fiamme si estinguevano dalle sue dita. Lo stormo si era disperso, anche grazie all'aiuto del vecchio che viaggiava con loro, ma la desolazione era rimasta: uomini, donne e bambini deprivati della vita e della dignità giacevano ovunque fra i resti dei carri un tempo probabilmente appartenuti a una comitiva mercantile. Non commentò la scena. Il circo di massacri a cui aveva assistito nel corso di molteplici incarnazioni non aveva più alcun numero da sfoggiare dinanzi ai suoi occhi, non con la pretesa di sorprenderlo. Nel suo cuore tuttavia vi era un'immensa tristezza, e come di solente gli capitava, ad essa vi era legato a doppio filo il desiderio di raccoglimento e solitudine. Alzò lo sguardo sugli avamposti che troneggiavano sugli agglomerati rocciosi del passo, e trovò la propria soluzione.

« Comandante, ho intenzione di fare un sopralluogo agli avamposti. »
annunciò con voce resa aspra dall'amarezza
« Non mi è necessaria una scorta.
Sarò di ritorno a breve.
»

Senza altro aggiungere, condusse il cavallo lontano dai cadaveri e dai rottami.


[...]


Aveva abbandonato il destriero poco dietro, non appena gli era stato difficoltoso proseguire, e aveva concluso il resto del tratto a passo svelto. Giunto in cima si sorprese nel constatare di star respirando più faticosamente del normale; non era stata una scalata particolarmente ripida, ma il fatto che si trovassero ad alte altitudini - alle quali non era molto abituato - doveva avergli giocato un brutto scherzo. Attese qualche istante per riprender fiato prima di addentrarsi nel fortino settentrionale.

La prima cosa che attirò la sua attenzione fu la totale assenza di tracce di sfondamento sul portone principale: sulla superficie vi erano pochi segni d'impatto e la pesante assa di sbarramento era praticamente integra. Facendo spaziare lo sguardo, realizzò che il resto del cortile versava in condizioni decisamente peggiori. Tracce di sangue e di battaglia erano visibili un po' ovunque, il terreno costellato di molteplici frammenti di corazze e armature deturpate. Cercò di ignorare l'odore acre di cose bruciate, e proseguì lungo tutto lo spazio interno del fortino, gettando ogni tanto un'occhiata verso le torri e le palizzate laddove torvi avvoltoi lo squadravano di rimando. Si soffermò solo un attimo a esaminare i resti di quelle che parevano essere a tutti gli effetti le dotazioni della guarnigione, quel che bastava a notare un particolare fra di essi; ciò che aveva inizialmente scambiato per ciarpame, erano invece pezzi di legno rozzemente lavorati in maniera tale da ricordare armi da mischia. Ne raccolse una da terra senza particolare ragione, con qualche pensiero per la testa non ancora pienamente germogliato, e avanzò in direzione dell'edificio decorato con pelle d'animali che più degli altri lo aveva colpito.

Una volta all'interno ebbe la certezza di trovarsi nel maniero del comandante, tant'é che non gli ci volle molto prima di ritrovarsi faccia a faccia con l'ormai deceduto proprietario. La scrivania dietro la quale era stato accomodato il corpo pareva l'unico elemento non brutalmente devastato, ed era chiaro dalla disposizione dei mobili e delle cianfrusaglie rimaste che il locale era stato soggetto a una rapida perquisizione. Allo stesso modo, a giudicare dalle mosche che sguazzavano nelle carni in putrefazione dell'uomo, e dal fatto che la sua testa si trovasse a qualche metro dal resto della colonna dorsale, poteva facilmente presupporre che fosse trascorso un ragionevole lasso di tempo dal decesso. Se ne accertò verificando che la decapitazione non era avvenuta mediante colpo da taglio. Forse era stata l'opera di qualche animale selvatico. In ogni caso, non era niente di buono per lui: le sue arti divinatorie perdevano di efficacia tanto più la decadenza delle carni progrediva; nonostante questo, decise di fare un tentativo. Si avvicinò al cranio spellato e adagiò il palmo della mano su di esso, cercando un contatto più profondo.

Inizialmente non sentì niente, poi un dolore estremamente intenso infiammò le sue terminazioni nervose. Percepì un coltello incidere nel collo e nel ventre, nelle braccia, nelle gambe, inesorabile e terribilmente lento nella sua opera di scuoiamento. La sorpresa fu tanto violenta che ebbe modo di riprendere a ragionare solo in seguito, quando la sofferenza sfumò e alcuni frammenti d'immagine presero posto nella prospettiva passata dell'ufficiale. Con la gradita consapevolezza di non star veramente subendo quella barbarie, giunse anche una grande pietà per ciò che l'uomo aveva patito nei suoi ultimi istanti. Purtroppo, quel poco che riuscì a distinguere in quella teoria di figure sfocate che erano le memorie residue del cadavere, non gli disse niente. L'immagine del suo corpulento aguzzino, barba ispida, faccia menomata, e benda di cuoio su un occhio, non risvegliava alcun ricordo in lui; d'altra parte, il ghigno di sadica soddisfazione che ne deformava i lineamenti lo aveva inquietato. Non aveva dubbi che si fosse goduto quel lavoro tanto quanto la sventurata vittima ne aveva ricavato terrore. Poteva forse essere il capo dei selvaggi?

« ... »

Si rialzò da terra con una certa fatica, quasi rischiando di cedere sulle ginocchia. Si adagiò al muro lì vicino con un braccio e attese che l'impressione residua della pessima esperienza sparisse del tutto. Non era mai facile connettere la propria mente con quella di un morto deceduto per cause violente, ma il Sesto sapeva di non avere scelta. Non aveva praticamente nessuna informazione sui nemici che stavano inseguendo, e non poteva permettersi di entrare in battaglia senza aver prima cambiato la situazione. Più tardi avrebbe anche chiesto qualcosa a Zuben, in occasione del rapporto. Per il momento, mise da parte la questione e prese la decisione di salire nella torre di vedetta del fortino. Desiderava principalmente comprendere fino a che punto fosse buona la visuale dai bastioni, e una volta in cima, a dispetto del fatto che quella fosse a occhio la più bassa delle vedette, si schiarì ogni dubbio a proposito. Trovava improbabile che gli uomini dell'avamposto non fossero stati in grado di individuare in tempo una minaccia incombente, non con una così chiara visione dei dintorni; per quale ragione dunque non avevano neppure tentato di sbarrare il portone d'ingresso?

Con un'altra domanda insoluta sulle spalle, fece la strada a ritroso e si mise a perlustrare le rimanenti baracche, posizionate lungo tutto il perimetro delle mura. Non si sorprese di trovare le dispense e l'armeria svuotate d'ogni bene di valore; non si aspettava piuttosto di trovare i dormitori trasformati in una sorta di grottesca camera funebre: le numerose salme dei soldati di Masut giacevano accuratamente predisposte sulle lettighe, tutti rigorosamente privati dell'abito che la natura aveva loro fornito alla nascita. Il puzzo era così forte da strozzare, tant'é che la Scaglia fu costretta a lasciare i locali piuttosto rapidamente. Non credeva vi fosse altro da vedere, in ogni caso, ne pensava vi fossero superstiti. Controllate le stalle, venne però contraddetto da un piccolo gatto, che sbucando da uno degli angoli gli si fece incontro - presumibilmente affamato. Il giovane biondocrinito sedette sui talloni e gli offrì parte delle sue riserve di cibo, per guadagnarne la fiducia; e non appena il micio abboccò la striscia di carne secca, lui se lo prese in braccio con delicatezza. L'animale non oppose resistenza, così se lo portò di fuori.

Era quasi pronto ad andarsene quando l'occhio gli cadde su uno dei focolari spenti, o per meglio dire, su ciò che pareva rimanerne fra i resti. Colto da un sospetto, il Sesto si fece più vicino maneggiando le ceneri con cura fino a che non scoprì ciò che vi era celato: incuneati nel cuore del falò, riposavano reliquie di uomini e nani. Teschi e ossa annerite e dimenticate.


[...]


Si era appena lasciato alle spalle il secondo fortino, quello direttamente arrocato alla parete rocciosa, con qualche idea più concreta per la testa. Non aveva trovato segni di scontro aperto questa volta, solo alcune chiazze di sangue in prossimità dei letti e degli sgabelli della mensa - e una mezza freccia sull'assito della torre d'osservazione primaria. Quel che bastava per fare alcune supposizioni, che a presto avrebbe condiviso con gli altri; aveva giusto inquadrato Zuben durante la discesa, e non appena questi si fu liberato dal resto dei suoi interlocutori, si fece avanti con discrezione - il gatto ancora sotto l'incavo del braccio.

« Comandante-- »
iniziò canalizzando l'attenzione
« --ho appena concluso un sopralluogo ai due forti. »

Non nascose il proprio turbamento, mentre adagiava il suo nuovo compagno a terra.

« Questo animale è l'unico soppravvissuto. Il forte a nord è ridotto a pezzi, hanno depredato tutto ciò che vi era di valore e scuoiato i soldati: li ho trovati sulle brande dei dormitori. Nel cortile erano presenti tracce di falò spenti; fra le ceneri ho intravisto frammenti d'ossa, teschi umani e anche nanici. Non ho idea del perché li abbiano cremati. » porse al suo ufficiale comandante l'arma improvvisata che aveva raccolto al cortile del primo fortino « Oggetti come questi erano disseminati ovunque all'esterno. Dopo la strage potrebbero essersi accampati lì dentro per qualche giorno in attesa delle carovane, ma non ne sono sicuro. »

No, non ne era sicuro, ma pensava fosse andata in quel modo. Lo stato delle salme dell'avamposto pareva essere decisamente peggiore di quello dei corpi dei mercanti, segno evidente che le mattanze si erano compiute in momenti diversi. Non poté fare a meno di farsi la medesima futile domanda che sempre lo assaliva al ciglio delle stragi: perché? Che cosa poteva alimentare il macabro desiderio dei loro nemici? La sua coscienza suggeriva in maniera quasi istintiva la risposta più ovvia - una vendetta contro Masut, una qualche tipo di ritorsione - ma la sua esperienza spingeva invece alla confutazione della più logica conclusione. Perché in fondo agli uomini non era necessario un motivo.

« Non riesco a capire come sia possibile che questi uomini non abbiano visto arrivare la minaccia. » alzò il capo verso i bastioni che spiccavano come artigli dalle montagne « La visione dalle torri è decisamente buona, su alcune addirittura abbastanza da rilevare movimenti con ore d'anticipo. » fece una breve pausa, come per riflettere « In quello sud ci sono meno tracce di resistenza, meno sangue e distruzione, la maggiorparte nei pressi dei giacigli delle guardie. Sulla torre ho trovato alcuni segni che lasciano presupporre che la sentinella sia stata eliminata con una singola freccia. Se devo quindi azzardare un'ipotesi, potrebbero avere scalato la parete rocciosa su quel lato di notte, eliminato le guardie e attaccato l'altro avamposto sfruttando il ponte di collegamento. Questo spiegherebbe come mai il portone d'accesso al forte nord non sia stato sfondato, e come mai i soldati non abbiano avuto tempo di reagire. Tuttavia... »
riportò gli occhi sul comandante, serio
« Mi riesce difficile credere che uno o più uomini siano stati capaci di risalire quel tratto in scalata; è decisamente troppo ripido e privo di adeguati appigli. Inoltre l'arciere che ha eliminato la sentinella doveva avere una mira eccezionale, prendendo in considerazione gli angoli sguarniti del parapetto e i punti di tiro possibili che aveva a disposizione. »

Diede tempo a Zuben di assimilare le informazioni che gli aveva appena fornito prima di proseguire:

« Ho altro da riferire, ma prima voglio farle una domanda.
Mi è sembrato di capire che lei conosce bene questa gente: che ne pensa della situazione?
»























 Energia. {110%}
 Mente. {100%}
 Corpo. {75%}




Condizioni fisiche. Normali.
Condizioni psicologiche. Normali.

Tratti.
— Levitazione [volo] (5/5)
— Calma Interiore [difesa psionica passiva] (5/6)
— Anima d'Acciaio [resistenza al dolore psionico] (6/6)
— Spiegare le Ali [forma astrale] (6/6 - 6/6)
— Sciabola di Folgore [sciabola magica] (6/6)
— Ispirazione [+1CS in Vigore ad ogni cast altrui di tipologia magica] (6/6)
— Intuizione [riconoscimento illusioni + auspex per talento e classe + auspex per suddivisione delle risorse] (6/6 - 5/6 - 5/6)
— Tecnica [capacità di danneggiare la riserva energetica con attacchi fisici] (6/6)
— Memoria Eterna [capacità di rievocare, modificare, cancellare qualsiasi ricordo personale] (6/6)
— Cosmoveggenza [auspex informativo sul territorio] (1/2)
— Vigore [resistenza alla fatica da consumo energetico] (6/6)
— Destriero [alleato bonus] (4/4)



Equipaggiamento.
— Spada lunga ornata
— Scimitarra rotta
— Corazza pettorale in cuoio (armatura leggera)
— Bracciale cerimoniale (a cui sono assicurate mediante laccio la biglia stordente [1], la biglia fumogena [1], e la biglia dissonante [1])
— Sacchetto di sabbia rimodellante (erba rigenerante [1])
— Pozione rossa (erba medicinale [1])

Tecniche passive e attive impiegate.
CITAZIONE
Fiamme Spettrali — a comando, fiamme dai bagliori violacei e dai riflessi argentati origineranno dal corpo del Sesto - propagandosi in forme adeguate alle circostanze; una volta a contatto con il loro bersaglio, esse non intaccheranno la sua carne bensì il suo spirito, che si vedrà corroso ad un'intensità proporzionale allo sforzo immesso. Le conseguenze del danno spirituale possono passare da stanchezza e debolezza, alla perdita della volontà di combattere, in ultimo anche di quella di vivere. La tecnica è di natura magica.

Consumo: Variabile (energia); Danno: Variabile (energia).

Utilizzata a: Medio (10%)

CITAZIONE
Comunione Forzata — un tocco di mano sarà sufficiente al Frammento per strappare all'avversario i segreti che desidera celare, i suoi obbiettivi, i suoi pensieri, i suoi ricordi: ogni cosa verrà assimilata e rivissuta dalla divinità come fosse propria, seppur solo per un istante. Una tecnica che può essere sfruttata anche sui cadaveri, ma che in questa evenienza potrebbe dare risultati incerti e frammentati, a seconda del tempo trascorso dal decesso del bersaglio. La tecnica è di natura psionica.

Consumo: Basso (energia).

Note. Ho dovuto descrivere in maniera superficiale gran parte della perlustrazione perché altrimenti veniva fuori un wallpost da spararsi nelle gonadi. Per il resto, niente da segnalare in più di quanto detto in confronto, a parte che ho modificato qualche parola qua e la senza snaturare il senso dei discorsi.





 
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Alb†raum
view post Posted on 22/10/2015, 17:20







Jorge scavò nei cadaveri con la punta del bastone da passeggio, scostando una testa mezza incastrata sotto un busto per vederla meglio. Il lato esposto al sole era smangiato e graffiato dagli artigli dei rapaci: i fasci di nervi giacevano come vermiciattoli attorno al moncone del naso, e una massa scura di sangue raggrumato e cervello sporgeva dall'orbita. Nell'altra, una lunga freccia dal pennaggio arrossato e spiumato dall'ammassarsi di bestie. Il tossicologo contrasse le labbra per lo schifo e si chinò a estrarla. Aveva avuto una ricca istruzione riguardo ad autopsie su morti assassinati, soprattutto in una città come Shirazamar dove l'Accademia raccoglieva per le strade e nei cimiteri abusivi i cadaveri da sezionare nelle lezioni; tuttavia, giorni di imputridimento e quei dannati avvoltoi avevano mandato in fumo qualsiasi prova rilevante... a parte quelle frecce.
Un movimento dei tendini e un coltello scattò fuori dal bracciale. Lo infilò nella polpa nerastra con lentezza, facendo pressione con la punta come quando praticava incisioni per l'inserimento di cateteri. Strattonò piano la freccia perché non si spezzasse, ma questa rimase testardamente piantata.
«Merda» sussurrò, mentre un filo di sudore gli scendeva sulla palpebra dietro le lenti della maschera da minatore. Aveva diverse volte estratto lame o punte metalliche rimaste impiantate nelle cosce di qualche ladro che non poteva presentarsi a un sanatorio, ma mai salde come in quella situazione e in ogni caso mai in quel punto così scomodo. Contorse un poco l'asta, la sentì tendere fino quasi a spezzarsi, la mollò. I fluidi schizzarono a pochi millimetri dalla giacca. Imprecò e si scostò di scatto. Si controllò la mantella rigirandola in continuazione per essere sicuro di non essere sporco di quella miscela di veleni: l'ultima cosa che voleva era beccarsi un'infezione per estrarre un'arma che aveva già fatto il suo dovere.
Ringraziò il cielo che i rapaci avessero spezzato parte dell'osso nella loro frenetica ricerca di carne, perché alla fine dovette estrarre tutto il frammento di cervello assieme alla punta per non perdere la preziosa prova. Pulì la lama e poi la freccia nella polvere del deserto, poi l'aggiunse alla propria già nutrita collezione che aveva poggiato lì affianco. Ne osservò la punta rigirandosela fra le dita – ovviamente protette da guanti – e si sfilò per un istante la maschera per evitare il riverbero, tornando per qualche istante a quel dannato respirare forzato che lo aveva quasi ucciso durante il viaggio.
A forma di foglia. Le diverse lezioni di balistica che aveva seguito durante la naja avevano incluso qualche accenno alle frecce, ma la polvere nera era stata comunque l'argomento principale. Lanciò un'occhiata all'ammasso di corpi e uno poi agli avvoltoi – non seppe bene perché, forse per morbosa curiosità, forse per il gusto di sentire ancora una volta le proprie viscere contrarsi di scatto, di paura e disgusto. Alcuni rapaci morenti si contorcevano in preda agli ultimi spasmi indotti dal gas nervino, altri giacevano in mucchi di fuliggine e ossa che chiazzavano di nero il terreno, inceneriti dalla fiammata evocata dall'altro mercenario. Si annotò mentalmente di evitare di ritrovarsi in una discussione assieme a lui – o assieme a tutto il resto della banda, per quello che contava.

Zuben era affacendato a dare ordini alle proprie truppe. Jorge rimase per un istante ad aspettare che finisse di dare istruzioni prima di avvicinarglisi. Il vociare dei gruppi di ricerca e il rumore delle armi non gli permise di sentire ciò che veniva detto, ma dopotutto cosa gliene importava? Lui era lì per una ragione specifica, precisa. Qualcosa che forse avrebbe potuto aggirare semplicemente con qualche settimana in più di deserto, a ben pensarci, ma non era nello stato per perdere tempo.
Si portò una mano capo prima riluttante, poi deciso. Lui stava morendo, sì, stava morendo. Sarebbe morto. Strinse gli occhi per scacciare via i pensieri, quelle voci, ma quelle strillarono. I volti di Lenja e Karen balenarono nella sua mente, poi i loro corpi esplosero come fiamme sinuose e i capelli in volute di fumo. Erano più belle di ogni altra donna che avesse mai visto, letali più del veleno con cui aveva ucciso il loro padrone.
Vita e morte. Già, esattamente quello di cui aveva bisogno.

Porse le frecce al capitano dei mamelucchi chiedendo delucidazioni, ricevendo in risposta della richiesta uno sguardo torvo. Zuben aveva quel carattere notevole e quell'ampiezza mentale di chi trascorreva la propria vita agitando armi e valutando ogni persona che si trovava di fronte in base alla rapidità con cui avrebbe potuto ucciderla. Così Jorge si stupì poco quando lo stesso Gran Maestro riprese in mano i proiettili con aria dubbia, ammirandoli come gioie da donare alla moglie.

«Be’, dunque... Punta a forma di cuneo: alta capacità di perforazione, ottime per penetrare le corazze. Punta a forma di foglia: provocano ferite larghe e profonde, gravi e molto difficili da curare. Si utilizzano principalmente contro nemici privi di armatura. Punta seghettata o barbuta: stessa funzione delle precedenti, a seconda della loro foggia; l’unica differenza è che sono molto più difficili da estrarre dalla carne.»

Ne afferrò alcune che avevano la punta simile alla schiena di un istrice, con lunghi aculei di ferro e legno che spuntavano. Alcuni erano rotti, altri cavi, con ancora pezzetti di carne lacerati a riempirli.
«Uhm... queste non infliggono ferite letali. Sono fatte apposta per ferire e provocare dolore senza uccidere, ad esempio per spaventare i cavalli e farli imbizzarrire.»
Ne parlava come se fossero stati strumenti artistici, o come il professore di alchimia spiegava le reazioni principali della kemà. Jorge seguì con lo stesso fascino delle lezioni di una volta.
Aah, tipico degli Aramani. Queste sono ideate per reggere paglia intrisa di pece da incendiare, o per contenere involucri ricolmi di sostanze particolari». Se la passò sotto il naso con la grazia di un perito. «Polvere da sparo... hanno usato fumogeni, a quanto pare».
Jorge ricostruì a mente l'accaduto. Fumogeni, poi frecce da ogni dove. Prima quelle a forma di punta, per far imbizzarrire i cavalli e portarli al di fuori della nube, poi le punte penetranti sulle guardie, infine quelle larghe sul seguito. Non c'era mai stata intenzione di lasciare qualcuno in vita, solo quella di recuperare merci, metallo e cavalli.
E schiavi, visto che...

«Oh, cazzo! Santi dei del cielo!»
Jorge si voltò e realizzò che no, non erano voluti andare a caccia di schiavi. Il suo stomaco si contrasse e gli acidi e quei due bocconi che si era sforzato di inghiottire a pranzo gli risalirono in gola. Cinque anni prima, una ventina di sopravvissuti fra i rivoltosi delle miniere a Shirazamar erano stati inchiodati nella pietra viva dopo aver loro tagliato le palpebre. Jorge vi era andato guidato da morbosa curiosità e se ne era fuggito pieno di disgusto e rancore verso sé stesso.
Qualcosa di simile lo attraversò quando non riuscì a togliere lo sguardo da quel mucchio di manichini di sangue rappreso che giacevano scuoiati nelle loro migliori vesti.
Jorge guardò gli insetti che zampettavano in quelle pile di carne marcia, le larve bianche che ne facevano banchetto sbucando con le teste glabre dalla fibra rossa e le uova giallastre incastonate. Il fruscio di quelle bestie gli attraversò la schiena. Si erano accorte che anche lui era carne marcia. Si guardò i guanti con cui aveva maneggiato i cadaveri e li sfilò lanciandoli nel mucchio di corpi in una frustata di ribrezzo.
«Questa non è nemmeno crudeltà; questa è dedizione. A Shirazamar i predoni avevano assaltato una decina di carovane, qualche anno fa. Uccidevano passeggeri e portatori, rubavano la merce e se ne andavano. A volte compivano un paio di riti, prendevano qualche scalpo o chiedevano un riscatto; ma la maggior parte delle volte si limitavano a seppellire i corpi e qualche volta anche i vivi.

Quindi la domanda è: cosa causa tanto odio da far spendere ore di lavoro in questo orrore? A meno che non sia opera di stregoneria»

Si voltò verso Zuben, sperando che la maschera bastasse a celare l'orrore che gli serrava il petto. «Masut ha qualche ragione per avere nemici tanto feroci?»
L'altro ridacchiò.
«Una persona comune l'avrebbe chiamata pazzia. In fondo per certi versi è il volto malato della devozione».
Si fece improvvisamente serio.
«Non si lasci fuorviare dalle concezioni della società civilizzata, signor Joyce. Questi non sono uomini come voi; sono barbari sanguinari, selvaggi delle montagne, dediti alla guerra e al saccheggio sin dai tempi antichi». I suoi occhi erano diventati incudini e le frasi che pronunciava erano il battere del maglio sopra il ferro. «Provengono da territori impervi e pericolosi e sono addestrati a combattere sin dall'infanzia. Crescono guardando le proprie tribù scannarsi a vicenda per il territorio o per le risorse, ed esaltandosi ascoltando storie di antenati massacratori e seminatori di terrore. Il sangue, la morte e la sofferenza per loro sono la quotidianità; nelle loro terre la vita vale poco, molto poco. Soprattutto quella del nemico».
Il suo sguardo si sofferma sulle gabbie che qualche suo uomo si stava premurando a sgombrare. Il volto di quelli impegnati nel lavoro implorava silenziosamente che fosse piuttosto ordinato loro di pulire una latrina con la lingua.
«Vuole una risposta alla sua domanda? Masut è una città di schiavisti, e Arpiar una volta era uno schiavo. Questo da adito a svariate ipotesi, non trova? Ma le consiglio di non riempirsi troppo la testa con storie di culti sanguinari o folli visionari in cerca di vendetta. No... quello che a noi sembra l'opera di un pazzo assassino, per loro è un monumento alla vittoria, la firma di un grande capo, e un monito per i suoi sfidanti. Se ha mai avuto a che fare con gli orchi, immagino abbia conoscenza di usanze molto simili».
No, non con gli orchi. Jorge si ricordò gli sguardi dei morenti alle porte di Fleh sah'lah, quegli occhi privi di palpebre spalancati forzatamente mentre si contorcevano in avanti, la lingua secca e sanguinante fuori dalla bocca e il corpo contratto in un singolo spasmo. Le guardie armate di spada e fucile loro a fianco ricordavano silenziosamente la condanna capitale che vigesse su coloro che avessero tentato di dare loro da bere; ma anche queste erano pallide, col volto al di sotto del cappuccio disfatto dal caldo e tormentato dalle urla dei morenti.
Un monumento alla vittoria della giustizia.
La decina di soldati che era morta nella sommossa almeno lo aveva fatto senza troppo strazio.
«Sporadicamente. Mi basta avere a che fare con gli uomini». Ghignò forzatamente, cercando una scintilla di umanità negli occhi del Gran Maestro e non trovandola. Allora fissò nuovamente il macello, alla ricerca di qualcosa che potesse esprimergli emozioni diverse dalla noia. «Ma a fare filosofia spicciola non serve un dottorato di ricerca».

Si diresse verso i corpi nelle gabbie scavalcando i resti macellati sulla strada. Uccidere quei condor era stato un dannato errore: avrebbero potuto pulire quel carnaio. Anni di sperimentazioni di veleni e autopsie non lo avevano preparato a guardare così da vicino uno spettacolo simile.
Frugò fra i corpi con il bastone, poi si spinse a chinarsi e cercare nelle tasche. Avevano simboli, rune, monili rituali? Niente di tanto stereotipato. Niente di niente, meglio dire. Si ritrasse un istante per dare un'ultima occhiata.
Tutti adulti, realizzò. Eppure schiavi bambini dovevano essercene stati; tanti, se non parecchi. A Shirazamar ricordava l'orrido ma estremo proficuo commercio che si faceva dei figli degli sconfitti o dei debitori. Al mercato una volta aveva dovuto coprire gli occhi a Elize mentre passava loro accanto una bambinetta con i capelli intrecciati di perline accanto a un signore compassato.
Perché quella bambolina dagli occhi spenti e macchie viola sul collo non era sua figlia.

«I vostri selvaggi hanno forse qualche tipico rito di sacrificio di vergini? Perché qui non vedo bambini. O forse, più materialmente, hanno voluto portarsi qualcosa da fare all'accampamento».
Zuben non parve gradire l'umorismo. Brontolò qualcosa riguardo al suo comportamento e infine una spiegazione piuttosto vaga sui barbari che abitavano quelle contrade.
Jorge rimase in silenzio a pensare ancora, accompagnato dal suono degli stantuffi. Un gruppo di banditi si spinge così oltre da non temere una ritorsione del governo. Non lascia superstiti. Nessun bambino. Nessuna traccia di magia; non che ci avesse sperato, visto il grado di istruzione di quelle bestie. Eppure l'idea del rito lo stuzzicava, perché per evocare un Afrit serviva una creatura vergine da fornire come corpo materiale allo spirito, e perché aveva visto Lenja e Karen con i propri occhi. Con una ricompensa del genere, qualunque capo sarebbe stato tanto audace.
Scosse la testa portandosi una mano al capo. No, fuori strada. Ma allora cosa aveva scoperto? Che erano bravi arcieri? Nulla di nuovo. Crudeli e sanguinari? Una storia tanto ripetuta che manoscritti di mille anni prima la riportavano già.
Allora cosa aveva ricavato? Che dei cadaveri, dopo innumerevoli giorni esposti al sole e alle bestie, marciscono?
Si passò una mano sulla fronte imprecando.


Energia: 90%
Corpo: 100%
Mente: 100%
Passive attivate: ///

Attive: Nevralgic Poison
[Variabile offensiva psionica (5/25): Consumo: energetico variabile, nube di veleno di potenza variabile che causa danni fisici da danni ai nervi che si manifestano in un dolore diffuso in tutto il corpo]

Usata a consumo medio


Note:Fatto. Ho riassunto anch'io buona parte, altre parti ho provato a integrarle con il background per non renderle semplici descrizioni morbose. Scusate il ritardo.

Enjoy it :8):
 
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view post Posted on 22/11/2015, 15:32
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Jahrir Gakhoor
furūsiyya

— pretending —

syaEZtk


Jahrir non aveva mai imparato a cavalcare. Non c'erano selle adatte alle sue gambe corte, non andava d'accordo con gli animali e montare a cavallo gli provocava forti vertigini. Ai tempi della Riunificazione, in molti avevano insistito perché superasse quelle difficoltà. Avevano magnificato l'utilità di saper condurre un destriero al galoppo fra le prime linee, di viaggiare agevolmente da un punto all'altro dell'Akeran e trasportare grandi pesi, ma nulla era riuscito a convincerlo. L'abitudine di allevare cavalli apparteneva alle tradizioni delle città libere e, in quanto tale, Jahrir l'aveva sempre disprezzata. "Schiavizzano gli animali così come gli uomini" pensava. "Le mie gambe sono sempre andate benissimo."
Ciò nonostante, la realtà aveva deciso di ferirlo con la propria ironia.

Insieme a Zuben e al suo esercito di schiavi, il gruppo stava lasciandosi Masut alle spalle. Il sole rosso stagliava l'ombra delle colline circostanti sul Bastione di Granato: l'impressione era che la mano di un Dio stesse per chiudersi sulla città. Jahrir si teneva stretto ai fianchi del mamelucco e passava lo sguardo stanco sul suo esercito, sussultando per il trotto del cavallo. Duecentocinquanta cavalieri sollevavano la sabbia del Bekâr-şehir, più un numero doppio di schiavi. Quest'ultimi arrancavano a piedi nudi sulla roccia, incespicando nei propri stracci e lasciandosi trascinare dalle catene d'oro che li tenevano legati ai carri.
Schiavi. — disse il ricordo di Shaelan, nella sua testa. — Proprio tu, che hai liberato la nostra razza da questa piaga. — La voce di lei non lo abbandonava mai.
Ho la mia armata. — le rispose Jahrir, aggrottando le sopracciglia cispose. —Nient'altro ha importanza.
Qualcosa vi turba, mio Kahraman?
La voce di Zuben era secca e ruvida come la superficie di una pietra. Come se i suoi padroni lo avessero preso a calci sulle corde vocali in gioventù. Lo metteva a disagio.
Nulla.
Cavalcarono per un minuto in profondo silenzio. Zuben non era bravo a parlare, così dovette spendere diverso tempo per cercare le parole adatte.
Non avete ragione di nascondermi nulla, mio Kahraman. Vorrei che mi vedeste come un vostro confidente. Imparare a capirci sarà di fondamentale importanza, sul campo di battaglia.
Ma che cosa avrebbe dovuto rispondergli? Che ogni giorno che passava sentiva quella guerra appartenergli meno? Che rimpiangeva la Riunificazione, dove vi era una linea netta fra amici e nemici? Che temeva di stare vendendo il proprio orgoglio per una causa altrui? Che la morte di Shaelan lo stava rendendo pazzo?
Mi ero ripromesso di non cadere vittima dei vostri complotti di corte. — ammise invece, rifacendosi alla più concreta delle sue preoccupazioni. — Eppure eccomi qui, a capo di un esercito di disperati e con sulle spalle la promessa di favorire il mercato degli schiavisti. Proprio io, che ho passato tutta la vita a combattere questo male.
Zuben attese ancora, costringendo Jahrir a dare un colpo di tosse per spingerlo a rispondergli.
Il visir Kadhir è un uomo astuto, mio Kahraman. Non vi avrebbe lasciato andare senza la promessa di un futuro più luminoso per Masut.
È un demone. Come tutti gli schiavisti.
Ah! Se fosse davvero un demone, allora dovremmo convincerlo a scendere in battaglia al nostro fianco.
No, lasciamolo pure dov'è. Ho il sospetto che non sappia neppure da che parte impugnare una lancia.
Il mamelucco abbaiò. Stava ridendo. Quindi cambiò discorso.
Non dovreste lasciarvi turbare dai contratti di un damerino, mio Kahraman. Il visir si crogiola nella convinzione che dopo la sconfitta dell'Ahriman torneremo a Masut in catene, come cani addestrati, ma dimentica che le promesse possono essere spezzate con grande facilità. — indicò la pianura davanti a sé, voltandosi a guardare Jahrir per la prima volta. — Le parole sono vento.
Ciò implica la sconfitta dell'Ahriman. — sottolineò Shaelan con tono scettico. — E di Giano, Alexej, e tutte quelle forze soprannaturali che stanno intralciando la nostra vita, a prescindere dal desiderio di una manciata di schiavi. — Jahrir la ignorò: non serviva ricordarglielo.
Parole forti. — continuò, invece. — Hai già dimenticato il Furūsiyya?
Zuben rispose atono, ripescando dalla sua memoria una frase che vi era rimasta impressa a fuoco.
La fedeltà dei mamelucchi è assoluta. Non esiste fuga dal nostro credo, non esiste paura al calare della tenebra. Non esiste vita nella nostra esistenza, poiché quando un nuovo schiavo guerriero viene alla luce, egli è già morto. E pertanto non vi è morte che egli tema. Il cavaliere mamelucco deve essere il guerriero esemplare e il servitore perfetto. Così recita il codice marziale, così recita il Furūsiyya.
Non vi è morte che egli tema. — sussurrò Shaelan. — Vedremo.
Ma il califfo Nu’man non ci comanda più. — continuò Zuben. — Siamo stati ceduti a un ben più grande condottiero. Seguiremo i vostri ordini fino alla morte, mio Kahraman, e poi ancora oltre, attraverso i luridi confini del Baathos, se così vorrete.
Spero di non dover ricorrere a tanto. Abbiamo alleati potenti.
E nemici altrettanto temibili.
Al termine di questa battaglia, farò di voi degli uomini liberi.
Dovessi inimicarmi l'intero Akeran e i suoi maledetti contratti.



CITAZIONE
La quest viene chiusa a causa dei ritardi prolungati. Jahrir porta a termine il favore promesso al visir e al califfo, e in cambio ottiene un esercito di schiavi da utilizzare contro l'Ahriman. L'ultima battaglia si avvicina.
250G a tutti i partecipanti. Sono molto spiacente per l'interruzione dell'avventura.


Edited by Ray~ - 23/11/2015, 10:20
 
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