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A s c e s a, Contest Agosto 2015 - "Unione"

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Lunatic ( )
view post Posted on 31/8/2015, 15:58




A s c e s a

Le cave sembravano non finire mai. Saliva, saliva, arrampicandosi per cunicoli sempre più ripidi. Era così diverso dai corridoi ben lavorati della Profonda, dove avrebbe potuto camminare comodamente senza nemmeno chinare la testa. Improvvisamente si spiegava le mani callose degli ultimi peoni che aveva incontrato. Lei invece aveva i palmi ricoperti di tagli. A forza di aggrapparsi alle rocce.
La sua ascesa era una follia, lo sapeva. Erano forse secoli che uno della sua razza non vedeva la superficie. I resoconti non parlavano che di neve e ghiaccio; un clima invivibile. Per questo si era diretta a sud, allungando di molto il viaggio sottoterra.
A Cernaborg non sarebbe potuta restare.

« Non c'è niente lì per noi. »

Digrignò i denti. Se l'avesse ignorata abbastanza, pensava, la visione se ne sarebbe andata. Invece era più tenace di un verme bianco. L'essere continuava a danzare ai limiti del suo campo visivo, saltando sulle rocce come se non avesse peso. Era ... un coniglio. Anche se non aveva la faccia, cancellata da una specie di runa violacea.
Ciale era perfettamente consapevole di essere malata. La visione la seguiva da quando aveva sbattuto la testa, fuggendo da tre segugi corrotti che la stava inseguendo. La condanna di morte del Re che gravava su di lei. Al suo risveglio, non aveva trovato il suo corpo martoriato dalle zanne degli animali.
C'era solo stato quel piccolo esserino nero. La manifestazione fisica della malattia che le stava mangiando il cervello.

« Siamo quasi in cima. Anche se non ti piacerà quello che troverai. »

Malattia o meno doveva continuare. Il tentativo di raggiungere la superficie sarebbe stato abbastanza per farla ritenere pazza, a Cernaborg, anche senza parlare dell'allucinazione. Ma nella città Profonda non era rimasto nessuno. Al suo risveglio l'aveva trovata disabitata, oggetti sparsi a terra come se appena caduti dalle mani dei precedenti proprietari. In una casa aveva trovato una pentola posata su un fuoco basso; la zuppa all'interno era evaporata, lasciando residui bruciati sul fondo. Al centro cittadino, la reggia. Gli spindalai delle guardie abbandonati ai cancelli d'ingresso. Non era entrata.

Invece era andata a prendere le sue cose ai quartieri dell'Inquisizione e aveva lasciato la Profonda. C'erano altri posti - villaggi, piccole comunità - in cui sarebbe potuta andare.
Ma qualsiasi cosa si fosse appropriato dei Lagomorfi nella sua città, poteva certo farlo di nuovo con i sempliciotti della periferia. Non era sicuro. Doveva spingersi oltre.




«Questi sono per la permanenza. Cibo, vestiti, qualunque cosa di cui abbia bisogno. E il vostro silenzio.»

Il Lagomorfo aveva preso i soldi come si prende un animaletto ferito. Le mani a coppa, lontane dal viso, come se temesse che il sacchetto potesse animarsi e morderlo in faccia. Non osavano controllarne il contenuto; non mentre lei li guardava. La femmina, compagna del contadino, continuava a lanciarle occhiate di sfuggita, per poi ritrarsi altrettanto velocemente.

Avevano paura. Doveva sperare che continuasse anche quando le monete fossero finite, anche quando quei due paesani avessero scoperto che Cernaborg era una città fantasma e quando l'economia fosse andata in frantumi. Anche lì, a quella distanza dalla Profonda, conoscevano bene cosa volevano dire le sue vesti nere e violacee, l'arma lunga e scura che portava a fianco. L'Inquisizione era sparita insieme con la città, ma non potevano saperlo.

Ciale lasciò ai due un attimo di tregua, allontanandosi. Sentì il muoversi delle monete nel sacchetto, alle sue spalle. Dovevano aver deciso di controllare i soldi ora che erano fuori dal suo sguardo gelido. I pregiudizi sullo stigma di Kjeld erano molto vivi, nelle periferie.

Scosse la testa. Volesse il re, Efyil non era stato colpito da quella disgrazia. Non sarebbe stato mai un khal-co-nhar, come lo era lei; però comunque nessuno avrebbe acconsentito a prendersi cura di lui. Sedeva su una panca, assorto a guardare la coltivazione di funghi luminescenti. Aveva uno sguardo malinconico.

« Piccolo. » Aveva la voce troppo rauca.

« Te ne stai andando, mamma? » Si paralizzò. Lui sapeva. Qualcosa le risaliva in gola: un groviglio di rovi e sassi. Un peso. Si sforzò di muoversi, accucciandosi di fronte a suo figlio per guardarlo negli occhi. « Non posso rimanere. »

« Dove vai? » chiese. Il tono di voce si sarebbe meglio adattato ad un perché?
« Devo trovare un posto dove possiamo vivere. »
« Qui non va bene? » Perché?
« Questa non è casa nostra, Efyil. Non possiamo restare per sempre. »
« Ma c'è tanto spazio qui ... » Perché?
« Per un piccolo come te, forse » Ciale si sforzò di fare un'espressione amichevole. Puntò l'indice sul naso del bambino e spingendo all'indietro la punta. Efyil si ritrasse, scuotendo la testa e sorridendo. La sua voce era ancora troppo roca, però.
« Ma non c'è abbastanza cibo anche per la mamma. Non possiamo chiedere ai signori di darci tutto quello che hanno, no? Sono già stati molto gentili a ospitarti qui. »

Quel pensiero sembrò dargli una pausa. Annuì lievemente.

« Potresti sempre ucciderli e rubare loro la casa. »

La bestia era sempre con lei. Allucinazione o meno, ci aveva già pensato. Ma non sapeva come tirare avanti quella coltivazione di funghi da sola, e comunque, quelle caverne rimanevano troppo vicine a Cernaborg. Non poteva portarsi suo figlio in un viaggio verso l'ignoto, ma nemmeno sarebbe stato saggio fermarsi lì per molto tempo.

« Credi che gli sgherri del Re siano ancora sulle tue tracce, Inquisitrice? »

Ignorò quel commento. Non aveva tempo per discutere con il sarcasmo di un prodotto della sua immaginazione. La creatura saltò sul recinto ai margini della coltivazione, camminando sul legno sottile con l'equilibrio di cui nessun coniglio dovrebbe essere dotato.

« Quando tornerai? »
« Presto, piccolino. »
Ciale abbracciò il figlio, stringendogli la testa contro il suo collo, mentre gli mentiva.






I giorni poi erano stati un turbinio confuso di veglia e sonno. Interminabili scalate nel primo periodo e sogni che la vedevano annegare nel buio nel secondo. Era fuggita dalla fattoria, dai due contadini che tastavano le monete con i denti per verificare che fosse davvero oro e dagli spettri dei perché di suo figlio. Qualcuno diceva che i colpiti dallo Stigma di Kjeld non potevano piangere, perché le iridi azzurrine rappresentavano la crudeltà della dea dei ghiacci e quindi, qualsiasi lacrima si sarebbe congelata prima di uscire. Ciale non aveva pianto, eppure, si sentiva come se dei piccoli frammenti di ghiaccio dovessero uscirle dagli occhi. Quando si era girata abbandonando il suo piccolo, seppur per il suo bene e con la promessa di tornare, era stato come togliersi una scheggia dal ventre. Un compito che aveva preferito fare in fretta e col minimo rumore possibile, ma non per quello faceva meno male.
Le ricordava un'altra situazione. Quando aveva mentito a Efyil a proposito della morte di suo padre.

« Tornerai. »

Disse, inaspettatamente, la visione. Il tono più basso come a essere rassicurante, una promessa. Per una volta non si fermò a mettere in discussione le parole dell'allucinazione, le ascoltò e basta. Negli ultimi giorni la temperatura nel tunnel era aumentata gradualmente, così come la luminosità. Qualche volta un vento caldo spirava giù dal condotto, portandosi dietro granelli di roccia. Ciale non sapeva che farsene di quelle informazioni: secondo il suo popolo, solo il profondo sud di Theras era abitabile e libero dai ghiacci. Aveva cercato di dirigersi lì, ma le mappe dei cunicoli che aveva erano vecchie e inaccurate.

La salita terminò in uno spiazzo più ampio, come una gola. Si sentiva stanca, ma non poteva permettersi il lusso del sonno. Si fasciò le mani sanguinanti e cercò di capire dove fosse l'uscita: un muraglione di roccia le ostruiva la vista.
Girato l'angolo, lo vide. La cava si apriva in un'enorme bocca, facendo entrare la vastità del paesaggio circostante.

« Khit !» Imprecò.
Di fronte a lei giaceva un'immensa distesa di sabbia giallastra, puntellato solo da enormi creste di pietra. La luce del sole la investì come uno schiaffo in pieno viso e dovette puntare gli occhi al suolo.
Dovunque fosse sbucata, aveva molto da imparare sulla superficie.




Primo tentativo di scrittura con Ciale, non mi aspetto che sia niente di che. Un paio di doverose precisazioni:

  • "la visione" con cui Ciale parla è il demone di Laplace, la creaturina che sta in cima alla scheda di cui ancora non ho avuto tempo di scrivere. Diventerà col tempo un compagno animale/alleato: per ora comunque la nostra Inquisitrice crede sia solo un parto della sua testa, e tanto basta.

  • Efyil (che invece nella scheda c'é, asd) è invece il figlioletto della protagonista. L'ha dovuto lasciare a due paesani perché non si fida a portarselo dietro, nell'ignoto.

  • La popolazione dei lagomorfi ha vissuto per lungo tempo sottoterra, per cui la conoscenza del mondo di Ciale è molto limitata. Questo si vedrà qui così come in molti altri post a venire.


 
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