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La parabola di Isaan e Adnan, Avidità ~ Corsa all'Oro

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view post Posted on 14/9/2015, 22:22
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Ագահու ~ La parabola di Isaan e Adnan ~ Պատմու


(Isaam, Adnan, Principe, Majid, sacerdote.)

Chiunque abbia viaggiato per le terre d’Aramania, tra le sue sconfinate valli circonfuse da imponenti cordigliere montuose, sicuramente ha avuto modo di conoscere il grande altruismo e la cordiale ospitalità dei popoli nomadi che la abitano. In queste lande desolate e selvagge, i locali hanno imparato che i veri valori necessari per sopravvivere nelle stagioni più ostiche è l’aiuto reciproco e la condivisione delle risorse. Conflitti e diverbi tra i clan sono rari, e sovente si risolvono in prove di abilità, duelli simbolici o battaglie rituali dettate dall’antica tradizione comune e che ben di rado si concludono nel sangue.
Un detto aramano recita: “l’avidità è un ago di ghiaccio che acceca gli occhi dell’uomo all’alleanza e all’amicizia”, e a sostegno di questo proverbio vi è una parabola, narrata spesso dagli anziani della tribù ai più giovani, per dissuaderli dai pensieri malvagi indotti dall’invidia e ammonirli. Questa è la storia di due fratelli, Isaam e Adnan della tribù dei Zeronyan.
Io, Tyrion Felding, trovatore itinerante dei Ragni del Leviatano, ammetto di non aver messo piede nell’Akeran – o almeno non ancora –, né tantomeno nella regione dell’Aramania. La storia che vi racconterò mi fu narrata a Ladeca da un medico e tuttofare proveniente dal lontano Sud, un certo Dottor Azad, membro di quel popolo tanto affascinante ormai, purtroppo, scomparso proprio a causa dell’insaziabile cupidigia degli uomini.

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Tanto tempo fa, una tribù scese dalle montagne a nord dell’altopiano. Questo clan si chiamava Zeronyan, a differenza dei popoli delle valli, i suoi membri provenivano da territori oltremodo ostili, dove il valore degli uomini si misurava sulla forza e l’egoismo. Le popolazioni delle montagne erano barbari sanguinari, avvezzi alla guerra e alla vista del sangue, e così erano anche gli Zeronyan. A guidarli erano due fratelli, Isaam il maggiore e Adnan il minore, l’uno possente e impavido, l’altro più esile di corporatura ma agile e astuto. Entrambi ambiziosi e crudeli fino al midollo, e quest’aspetto era probabilmente l’unica cosa che condividevano, giacché il loro rapporto di fraterno aveva ben poco. Sarebbe corretto dire che erano acerrimi nemici condividenti il medesimo accampamento e le medesime provviste.
Qualche anno prima, il loro padre morì senza designare un erede che guidasse la tribù; metà degli Zeronyan elesse come propria guida Isaam, successore legittimo in quanto figlio maggiore, ma l’altra metà ritenne che il giovane Adnan sarebbe stato un comandante ben più abile e saggio del fratello. Fu così che il clan si spezzò in due, e la rivalità tra i due crebbe pericolosamente.
Fu quando giunse la stagione fredda che il popolo delle montagne abbandonò le sue terre brulle per recarsi a valle, dove il clima era più mite, la cacciagione abbondante, così come anche le ricche tribù pacifiche da saccheggiare. Al pari di ogni popolo nomade, essi viaggiavano dove il vento li portava, ma il vento che guidava i passi degli Zeronyan era una tempesta di morte e terrore. Si spostavano rapidi sui loro possenti cavalli di montagna dal lungo pelo, devastando e razziando qualunque sventurato villaggio di nomadi gli capitasse a tiro e catturando come schiavi i sopravvissuti.
In pochi mesi percorsero centinaia di miglia, fino a raggiungere e superare i confini delle terre selvagge e addentrarsi nei territori di un popolo sedentario civilizzato. Gli Zeronyan avanzarono spavaldi, poiché le città dei nomadi si muovono insieme ai loro cavalli e così i loro confini. Giorni e giorni di viaggio passarono, finché non scorsero in fondo alla valle qualcosa d’insolito. Un insediamento circondato di muriccioli e fitto di casette di legno fumanti, da lontano si poteva notare una grande animazione per le strade. Si trattava di una piccola base commerciale di frontiera. Isaam e Adnan inviarono esploratori in avanscoperta per studiare la possibile preda e quando essi tornarono, riferirono di carri placcati in oro e guarniti di tendaggi di seta passamanati di gemme e metalli preziosi e carichi di immense ricchezze. Persuaso quelle parole, Isaam non aspettò oltre e comandò immediatamente la carica.
La guarnigione che presidiava il villaggio, nonostante fosse numerosa e ben armata, fu colta impreparata dall’assalto fulmineo e inaspettato e dalla furia sanguinaria dei cavalieri delle montagne, pertanto soccombette presto. Per gli Zeronyan fu una cuccagna: dilagarono per tutte le strade, entrando nelle case, depredando i carri mercantili, facendo razzia del bestiame, trucidando ogni uomo e violentando ogni donna che incontrarono. Isaam giunse infine di fronte al convoglio di cui i suoi uomini gli avevano accennato: carri e carrozze finemente decorate, rivestite completamente d’oro, degne di un dio agli occhi di un barbaro delle montagne. Era la cosa più splendida che il guerriero avesse mai visto. Le guardie corazzate che lo scortavano si strinsero attorno alla carovana, la paura brillò vivida nei loro occhi non appena si scoprirono circondate da ogni lato dall’orda di selvaggi e in schiacciante inferiorità numerica. Fu allora che una persona spuntò da una delle vetture più sontuose. Un cavaliere giovane e di nobile aspetto, vestito di un’armatura di puro argento minuziosamente cesellato e incastonato di pietre preziose, un capolavoro plasmato dalle mani dei maestri fabbri nanici, attirò gli occhi del capo barbaro come null’altra cosa aveva mai fatto sino ad ora. L’uomo scese dal suo nascondiglio, avanzò lentamente verso i suoi assalitori con le braccia alzate e iniziò a parlare con voce risoluta, sebbene vibrante di terrore.

«Io sono il Principe Kasut Um’labar, figlio del maharaja del regno di Modur. Vi prego, prendete pure tutti i miei tesori, prendete me come ostaggio, mio padre vi darà tanto oro e platino quanto il mio peso per riavermi indietro, ma vi scongiuro: non fate del male a mia moglie e ai miei figli!»


Il coraggio del giovane di sangue blu avrebbe mosso gli animi dei più, ma il cuore di Isaam era fatto della stessa pietra delle aspre montagne degli altipiani d’Aramania, granitico e inclemente al pari di quello di un demone. Era un uomo d’azione, impulsivo, ignorante in merito di trattative e affari di politica. Gli unici pensieri che affollavano la sua mente in quel momento erano diretti esclusivamente alle formi sublimi del metallo lavorato e alle gemme luccicanti di quella corazza, degna di un re, di un conquistatore, del più grande dei khan. Senza remora raggiunse il Principe Kasut, gli mozzò la testa con un singolo e possente colpo della sua sciabola e iniziò a strappare la splendida catafratta del suo cadavere. Allo stesso modo, i suoi uomini assaltarono il convoglio, trucidarono senza pietà l’intero seguito del principe e, insensibili alle strazianti urla di disperazione, strapparono dalla carrozza i suoi due figli e li squartarono di fronte agli occhi della madre, per poi gettare quest’ultima insieme alle altre donne con cui si sarebbero sollazzati in seguito.
Adnan si avvicinò alle spalle del fratello e, posati anch’egli gli occhi sull’armatura, una grande invidia lo pervase. Desiderò ardentemente di averla tutta per sé.

«Fratello.» Lo chiamò. «Ricordi quando promettesti che avremmo diviso il bottino in parti uguali?»


Isaam si volse ad Adnan, e nonostante questo cercasse di mascherare la sua bramosia nel suo sguardo, essa non sfuggì agli occhi del fratello. In fondo lo conosceva da una vita, e nulla del suo atteggiamento era in grado di sfuggirgli. Si erse in piedi, mostrandogli un ampio sorriso gioviale.

«Ma certo, caro Adnan. Tu e i tuoi uomini avrete la vostra parte. Divideremo il bottino equamente, ce ne sarà in abbondanza per tutti.» Il suo volto si adombrò. «Questa armatura però spetta a me: sono il fratello maggiore, e questo splendore è degno solamente del capo legittimo, cioè me.»


Attimi pieni di tensione passarono mentre i due si studiavano, guardandosi come lupi che si contendono la medesima carcassa di cervo. Improvvisamente Isaan scoppiò a ridere, come per sdrammatizzare, e indicò le casse piene di preziosi di cui i carri del principe erano carichi.

«Suvvia, fratello. Guarda. Nessuna tribù d’Aramania ha mai accumulato una tale ricchezza. D’ora in poi vivremo nel lusso; niente più liti o discordie, nuoteremo insieme nell’oro.»
Allargò le possenti braccia, come per abbrancare tutto il favoloso bottino che avevano accumulato in quell’unica sortita.
«Faremo un grande banchetto per festeggiare. Noi macelleremo il bestiame, mentre tu e i tuoi uomini andrete a prendere l’acqua al fiume.»


Adnan fu sul punto di rispondergli, era chiaro che l’ordine del fratello puzzava di menzogna: sicuramente Isaan e i suoi avrebbero approfittato della loro assenza per imboscare la parte buona dei viveri e della refurtiva e lasciare gli scarti a loro, ma non desiderando scatenare l’ira del fratello, obbedì in silenzio.
Il fiume distava circa a cinque miglia di distanza. Adnan e la sua masnada lo raggiunsero in breve tempo e iniziarono a riempire d’acqua le ghirbe e a caricarle sui cavalli. Il giovane spingeva i suoi compagni a fare in fretta per tornare indietro al più presto onde impedire che il fratello avesse il tempo di giocargli qualche tiro mancino. Fu in quel momento che Majid, uno dei suoi più fedeli amici e consiglieri, nonché uno di più scaltri e subdoli, gli si avvicinò.

«Se temi che tuo fratello voglia ingannarti, perché non ucciderlo?»

Adnan strabuzzò gli occhi.
«Sei fuori di senno? Isaam è forte come un orso, vispo come un falco e i suoi uomini sono più numerosi di noi. Come speri di riuscirci?»

Majid sorrise diabolico.
«Avvelena le ghirbe d’acqua che spettano a loro e li vedremo morire dal primo all’ultimo contorcendosi come vermi.»


La proposta dell’amico lo spaventò, ma al contempo fece crescere in lui una malvagia euforia. Decise che non si sarebbe abbassato a eseguire un altro solo ordine da quell’inetto di suo fratello. Diede istruzioni ai suoi seguaci, e loro si mostrarono ben felici di eseguirle: presero le borracce destinate alla gente di Isaam e vi disciolsero all’interno tutto il veleno di vipera nera che portavano con sé, una tossina letale con cui gli Zeronyan erano soliti bagnare le proprie frecce.
Tornati al villaggio, trovarono inaspettatamente la loro parte di carne macellata separata e ben ordinata e la cricca di Isaam già intenta a banchettare allegramente e a divertirsi con le donne prigioniere da lungo tempo. Essi accolsero l’acqua con vorace apprezzamento: strapparono di loro iniziativa le proprie ghirbe dai fianchi dei cavalli e, assetati, iniziarono a bere avidamente. Sotto gli occhi bramosi e trepidanti di Adnan, entro pochi minuti la scena predetta dall’amico Majid accadde sotto i suoi occhi, esattamente come l’aveva descritta: Isaam e i suoi uomini iniziarono improvvisamente a sentirsi male, per poi improvvisamente gettarsi a terra premendosi il ventre in preda ai più atroci dolori, le bocche schiumanti, gli occhi rivoltati in direzioni innaturali. I soldati di Adnan, i quali non aspettavano altro che quel momento, scattarono e assalirono di sorpresa i pochi indenni che non avevano toccato l’acqua e li trucidarono. Il ragazzo rimase a guardare a debita distanza il fratello morire rapidamente, il quale continuò a fissarlo fino agli ultimi deboli guizzi di vita con quello sguardo da tigre, ferita ma ancora in grado di uccidere. Attese finché il possente guerriero non smise di muoversi, poi gli tolse l’elmo scintillante del principe da capo, gli strappò l’armatura di dosso e sghignazzando in mezzo a quell’acquitrino di morte la indossò a sua volta.

«Il capo è morto!»
Gridò ai suoi compagni alzando la spada esultante.
«Facciamo nostro il loro bottino; meno siamo e più ce n’è per tutti.»


Tutti non se lo fecero ripetere due volte. Conclusa la razzia misero mano alla carne che tanto gentilmente gli uomini di Isaam gli avevano lasciato e iniziarono a banchettare e a cantare truci canzoni di gloria e massacri, sognando vini pregiati, gioielli e tante donne quante non ne avevano mai viste in vita loro. Ma la beatitudine durò poco.
Iniziò con un lieve intontimento, per poi tramutarsi in una lancinante fitta all’altezza dello stomaco. Non passarono che pochi istanti e tutti i barbari, compreso Adnan, a loro volta caddero riversi a terra in preda alle convulsioni. Il nuovo giovane capo, incredulo, non ci mise molto a comprendere che il suo caro fratello gli aveva giovato il medesimo scherzo, avvelenando la carne. Probabilmente passò gli ultimi istanti della sua miserabile vita ingiuriando contro gli dei, o riflettendo sulla sua ingenuità, o ancora immaginando come sarebbe potuta andare diversamente se fosse rimasto invece sempre accanto al fratello in amicizia, senza invidie, senza rancori, come quando erano bambini, ma questo... non avremo mai modo di saperlo.

Quando il giorno successivo la guardia di frontiera giunse all’insediamento commerciale, essa si trovò dinanzi un villaggio devastato, un sparuto gruppo di sopravvissuti non poco confusi e un mare di cadaveri. Nel momento in cui domandarono spiegazioni sull’accaduto, ottennero in risposta che la maledizione di Zoikar si era abbattuta sui barbari per punirli dei loro crimini. Fu allora che il sacerdote del borgo – il quale era riuscito miracolosamente a nascondersi – avanzò di fronte agli altri e iniziò a parlare di fronte a tutti.

«Non sono stati gli dei a compiere questo eccidio. L’avidità dell’uomo, il seme della discordia, la faccia malata del desiderio, essa è la vera latrice di morte che ha condannato questi disgraziati. Siano maledetti!»



PS: nota inutile, il Dottor Azad di cui si parla all'inizio si tratta proprio di Vahram.
 
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