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Arboreum, Corsa all'Oro

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Liath
view post Posted on 18/9/2015, 22:00






La fitta vegetazione lasciava che solo pochi pallidi raggi raggiungessero il sottobosco, attraversando il fogliame delle gigantesche conifere e creando spettrali filamenti di pulviscolo danzante nell’aria immota.

Si chinò per superare un ramo basso e scavalcò un cumulo di rami secchi, facendo attenzione a non calpestarli. Il suono, nella quiete spettrale della foresta, era morte. Il fumo di un falò, una parola detta a voce poco più che sussurrata, un passo su un terreno non sicuro: era una logorante danza senza fine insieme all’incappucciata con la falce.
Non era stato così, all’inizio. Qualche mese prima era partito da Ladeca, lasciando gli affari in mano a Hikkam, il suo socio, con la scusa di gestire alcuni accordi commerciali a Lithien. Lo scopo era un altro, ma aveva ritenuto più sicuro non spargere la voce.

Aveva assoldato un nutrito gruppo di uomini degli accampamenti meridionali, oltre l’Erynbaran, abbastanza superstiziosi da chiedere doppia paga per quel lavoro.
E insieme a loro, Lucius Gadwen: cantastorie, avventuriero, contaballe e inarrestabile bevitore, incontrato in una fumosa osteriaccia di Ladeca mentre era impegnato in una dissertazione sui misteriosi tesori delle foreste stregate degli elfi. Il resto della marmaglia era troppo ubriaco anche solo per ascoltarne una parola, ma Adrian aveva faticosamente ricacciato i fumi dell’alcool per avvicinarlo.

Sepolto sotto anni di sporco, alcool di pessima qualità e altre sostanze non del tutto legali – e soprattutto senza un buon pasto da tempi immemori – si celava uno studioso mediocre nato e invecchiato pochi anni prima che il suo sogno tornasse, letteralmente, alla luce.
Nelle sue farneticazioni più lucide garantiva di aver predetto la venuta dei grandi draghi, i Creatori, o come li chiamava lui “gli Artefici”, decenni prima. Ormai però era solo un vecchio malandato, ai margini di una società in preda a convulse rivoluzioni. Eppure, qualcosa aveva fatto gelare il sangue al mago. Un riferimento a una città dei cieli, a un luogo ormai dimenticato, allo stesso tempo fuori e dentro il loro piano dell’esistenza. Un luogo sacro, un tempio creato e consacrato agli dei.
Di quali dei parlasse – se di entità extraplanari o dei Creatori stessi – non era stato chiaro. Tuttavia garantiva di aver trovato un codice in una lingua sconosciuta che permetteva di sincronizzare un portale verso quel luogo.


Adrian non si era mai interessato troppo alle comunità elfiche di Theras. Aveva sempre schivato tutti i trattati di antropologia dell’Edhel come una vera e propria piaga, e a posteriori si era reso conto di quanto grossa era la differenza tra le sue aspettative e la realtà.

Gli Arshaid si erano rivelati una rigida e difficilmente avvicinabile civiltà arboricola, capace di sferzanti e inattaccabili pregiudizi verso esseri della propria razza, figurarsi verso un uomo. Così il tentativo di approccio verso uno dei loro villaggi arborei era stato lento ed estenuante; esattamente al contrario delle sue aspettative, gli uomini dei villaggi limitrofi alla foresta si erano rivelati più un motivo di scontri con gli elfi, e invece il vecchio Lucius – ripulito in parecchi sensi – era stato un fondamentale traduttore e mediatore.

Con la scusa di una spedizione commerciale, si erano addentrati nel folto di quei boschi così diversi da quelli più civilizzati del Dortan. Non gli era mai capitato di svegliarsi di soprassalto nella notte, sondando il buio come se si fosse trattato di un’entità dotata di vita e intenzioni proprie. Eppure, lì, persino le ombre degli alberi sembravano inquietantemente innaturali.
Cercando di dare la colpa alla sua fervida immaginazione – e così ignorando tutto ciò che sapeva su Velta e la sua Bianca Signora – aveva proseguito imperterrito insieme alla sua truppa, capitano di ventura di un gruppo di disperati male in arnese.
Avevano attraversato i territori di molti villaggi, fino ad arrivare alla meta dopo settimane di cammino. Tra tutti gli Arshaid che incontrarono, quelli vivevano nel territorio più settentrionale e, a loro detta, più vicino a dove un tempo sorgeva la torre e l’infausto gorgo. A dispetto del luogo si rivelarono molto amichevoli – per gli standard Arshaid -, e Adrian era stato quasi pronto a scommettere che quell’avventura si sarebbe risolta in maniera a dir poco noiosa.

A contraddirlo per l’ennesima volta, Lucius mostrò infine per quale motivo avevano portato con loro due muli carichi di esplosivi: una grossa fetta dello Shaogal Crann e l’intero corpo del vecchio esplosero in uno spettacolare gioco pirotecnico.
Adrian sfruttò i brevi istanti di esterrefatto sgomento degli elfi per raccogliere il tomo bruciacchiato da dentro una cavità dell’Albero Padre. Nei minuti che seguirono scomparì dalla circolazione grazie ad alcuni trucchi magici, mentre gli Arshaid si dedicavano con meticolosità a preparare complessi e a tratti interessanti riti per sacrificare gli altri terrorizzati uomini della scorta.

Ormai erano passate due settimane da quello sventurato giorno. Aveva vissuto di frutti e radici, scampando all’avvelenamento solo grazie alla sua magia. Non aveva avuto tempo per dedicarsi allo studio dell’antico manoscritto, anche se la curiosità lo tormentava più della fame e della sete.
Gli elfi gli stavano dietro. Ne era certo.
I mormorii maligni della notte erano accompagnati da fruscii e passi felpati. E di giorno era raro che non scorgesse sagome in agguato dietro agli alberi più lontani.
Ormai quasi sperava che uscissero allo scoperto e lo finissero una volta per tutte.
Ma quello era esattamente il loro intento: farlo sentire braccato fino a portarlo allo stremo e alla follia.
Ci stavano riuscendo.

Aveva iniziato a parlare – sussurrare – da solo, ripetendo brani tratti da ballate epiche studiate quando ancora viveva presso l’accademia, a Lithien.
Iniziava a provare nostalgia e rimorso. Se ne era andato per allontanarsi da quel luogo così rigido con l’intenzione di imparare attraverso l’esperienza, non dalle parole di uomini morti secoli prima. Eppure, quella vita che un tempo aveva ritenuto severa e insignificante ora era così maledettamente attraente.

Continuava a camminare, senza seguire un reale percorso ma verso il confine più vicino della foresta, a nord. Le vaghe nozioni di cartografia apprese a Lithien lo avevano aiutato a sfruttare le mappe che aveva con sé per triangolare la propria posizione dalle rare alture che riuscivano a superare le fronde delle conifere. Ironia della sorte, forse la salvezza sarebbe arrivata proprio dal luogo da cui era scappato anni prima.

Doveva fuggire quanto più in fretta gli permettevano le sue gambe. Non solo per la sua vita, ma perché sentiva di aver trovato un tassello fondamentale. Un libro così vecchio da esser stato sepolto insieme al seme di uno degli alberi sacri dell’Edhel, e che forse era la chiave di volta di un disegno proveniente da altri piani dell’esistenza.





Il post originale era molto più lungo, ma ho optato per dividerlo in due. Quindi mi sono trovato a dover scrivere un finale-non-finale; se da una parte mi lascia con un forte senso di insoddisfazione, dall’altra mi permette di continuare direttamente da qui. Fyi (sempre che qualcuno voglia leggerlo ^^”), questo post procede lungo una “campagna” personale, strettamente collegata alla città dei cieli solo accennata all’inizio. Le vicende si svolgono subito dopo Z, perciò sono rimasto volutamente nebuloso sull’accaduto.
Riguardo allo stile, devo ammettere che è stata una sperimentazione: non mi era ancora mai capitato di fare wallpost “narrativi” di questo tipo, e in effetti non è venuto un granchè. Se da una parte mi ha intrigato dilungarmi sui dettagli, dall’altra ho una sensazione di incompletezza non dovuta solo al finale.
Riguardo ai riferimenti agli Arshaid e ai Creatori, ho cercato di documentarmi più approfonditamente possibile, ma soprattutto sui draghi ho preferito non dilungarmi per paura di aver interpretato male alcune parti dell’ambientazione.
E poi fa molto Avatar :look:


Edited by Liath - 18/9/2015, 23:55
 
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