L’uomo aprì gli occhi a fatica. La testa gli doleva, e non ricordava chiaramente come mai si fosse addormentato. Ricordava di aver cenato con alcuni impresari, di aver discusso con loro nuovi progetti per la capitale, di aver tentato di pagare meno la materia prima. Ricordava di aver pensato che sarebbe stata una bella notte per fare un giro al bordello, visto che aveva molti soldi in tasca.
Il vino era buono, il tramonto rosato. Ma lui avrebbe giurato di non essersi addormentato.
Cercò di sollevarsi, senza riuscirci. Il mal di testa si fece più intenso, mentre si rendeva conto di essere disteso su un pavimento freddo e umido, con la luce che filtrava da sopra di lui, indiretta e lattiginosa. Una parola si fece strada nella sua mente ottenebrata.
Rapimento.
Sebbene non ne comprendesse il motivo. Non era abbastanza ricco – non ancora – perché qualcuno potesse avere interesse a rapirlo. Non aveva dei veri nemici, non ricordava di aver ostentato la propria ricchezza né i propri vizi.
Cercò di nuovo di alzarsi, riuscendo ad intravedere nella penombra delle corde che gli stringevano le caviglie. Cercò di chiamare aiuto, sebbene la voce uscisse strozzata dalla bocca impastata.
Per un po' non successe nulla, ma lui era certo che qualcuno lo avrebbe udito. Ladeca era una città nuova, trafficata, piena di spie pronte a guardare e sentire ogni cosa. Qualcuna si sarebbe avvicinata e lui le avrebbe offerto un buon prezzo per riportarlo a casa. Si accorse di sudare freddo, ancora più freddo di quella cantina lurida. Come poteva essere così lurida, dopo così poco tempo dalla nascita della città?
Un cigolio, più simile a un grido di dolore che ad un cardine male oliato, annunciò l'ingresso di un visitatore. Ne udì i passi, soffocati come se provenissero da stivali morbidi. E poi la vide: niente più che un pastrano rosso e un cappello dello stesso colore dalla falda abbastanza ampia da nascondere il volto.
“Ehi, tu puoi...puoi aiutarmi. Ti pagherò se mi lasci andare. Molti soldi”.
Dalla figura in rosso non provenne alcun suono. Le mani rimasero premute nelle tasche. Si chiese se fosse uomo o donna. Non era alta, ma nemmeno minuta. Il corpo era celato dagli indumenti e non c'era nella sua postura alcun vezzo.
“Non mi interessano i tuoi soldi. Niente di personale, ma non prendo denaro da quelli come te”.
Anche la voce non aveva alcuna connotazione. Pareva anzi stentorea, come se la figura non fosse abituata a comunicare. Si chiese se ci fosse speranza, cosa volesse. Ma speranza, per quelli come lui, ci doveva essere per forza. Nessuno lo avrebbe rapito senza l'intenzione di chiedere un riscatto. Fortunatamente la sua famiglia avrebbe potuto permetterselo.
“Ho molti, molti soldi. Pensaci. Dimmi cosa vorresti. Posso darti quasi ogni cosa tu voglia”.
La figura di nuovo non fiatò, ma si piegò sui talloni. Era quasi alla sua altezza, ma il cappello era ancora inclinato sul volto, gettando ombre ancora più fitte. La luce colpiva di sbieco gli stivali di cuoio di quello. o quella. Sconosciuto.
“Sarebbe molto stupido se ti avessimo preso per questo. Saremmo solo dei criminali. Ma noi non siamo cattivi”.
Fece una piccola pausa, molleggiandosi sulle punte dei piedi.
“Non nel senso che intendi tu. Noi ci occupiamo dei nemici del Vero Ordine. Nessuna somma di denaro può comprare la giustizia”.
Si alzò in piedi, volgendogli le spalle. Ora la luce era come un'aureola lattiginosa attorno a quel corpo che pareva più alto, più incombente. Non solo doveva essere un uomo, ma un uomo imponente, gigantesco, che avrebbe potuto fargli di tutto. Lacrime salate gli bagnarono le guance.
“Senti, ti sbagli, io...io non ho fatto niente di male! Davvero! Davvero, lo giuro!”.
Questa volta la figura rise, una risata rauca che moriva nel fondo della gola.
“Nel mondo ci sono gli innocenti. I colpevoli, come te. E quelli come me. Noi non siamo né innocenti né colpevoli, ma il destino ci ha dato una forza superiore, quella di mondare il continente dai cattivi. Di farlo per coloro che non si meritano di soffrire”.
La figura allargò le braccia. L'uomo si disse che non poteva aver sentito davvero parole del genere, che quel discorso era delirante. Si disse che doveva essere un incubo.
"Sulle nostre spalle ricade il peso di questo peccato, perché gli altri ne siano salvati.
Vedi? È tutta colpa di quelli come te. Non avresti dovuto rovinare questa città, l'alba della sua promessa”.
Lui scosse il capo, freneticamente. Avrebbe voluto ribattere, ma Cappotto Rosso non gliene diede il tempo.
“Non avresti dovuto sfrattare quella donna per costruire una villa sulle macerie della sua casa. Non dopo che ti eri fatto promettere, che le hai strappato ciò che aveva di più prezioso”.
Si girò verso di lui, che aveva gli occhi sgranati, una pupilla minuscola come una punta di spillo.
“Ora quella donna è incinta, ma nessuno alleverà il suo bambino. Nessuno le restituirà la dignità che le percosse dei suoi familiari le hanno tolto, la casa che le hai rubato, l'ingenuità che le hai strappato. Nessuno la renderà più come quelli che l'hanno abbandonata”.
Sospirò.
“Non ti ricordi nemmeno di lei”.
Lui scosse il capo. Più velocemente. Con più forza. Erano state più di una, più di uno, ma come poteva lui ricordarli tutti?
“Non ti ricordi di nessuna di loro. Dei loro volti”.
Di nuovo una pausa di silenzio.
“Non è colpa mia, vedi? Anche se io non ci fossi, il Vero Ordine sarebbe già stato ferito. Io posso solo fermarti, ma l'equilibrio è ormai perduto”.
Si voltò di nuovo, dirigendosi verso la porta. Le mani, guantate di rosso, erano abbracciate dietro la schiena. L'andatura era improvvisamente lenta, come se il discorso avesse stancato il suo sequestratore. Ora pareva più piccolo, curvo come un vecchio centenario.
“Ehi, aspetta! Mi dispiace, ok? Possiamo...parlarne?”
Il tutto per tutto. L'ultima speranza.
La figura aprì la stessa porta scricchiolante. Una porta che non poteva vedere. Uno scalpiccio precedette i bambini. Erano tre, cenciosi, anonimi. Ognuno aveva in mano un lungo coltello, la lama pulita che pareva appena arrotata. Luminosa nella poca luce, contrastante con il buio nei loro sguardi.
La porta cigolò di nuovo.
“Aspetta! Ti prego! Parliamone!”
Ora la voce era divenuta folle, impellente. La porta si fermò, lui sospirò. Forse il denaro...alla fine era la chiave di tutto.
“Siate rapidi. Niente tortura, niente brutalità.
Non siamo come lui.
Al resto penseremo dopo”.
La porta si chiuse con un tonfo. La figura poggiò la schiena contro il ferro arrugginito, spogliò il grande cappello, sentì la frescura del metallo sotto i capelli. Chiuse gli occhi, chiudendo fuori il mondo e inspirando profondamente.
Era difficile fare la cosa giusta. Ma doveva resistere.
Per ottenere la salvezza propria e del mondo non doveva lasciarsi condizionare dall'emozione.
Espirò con lentezza.
Era necessaria freddezza. Razionalità. Il cuore non poteva mettere piede nel suo piano.
Se avesse continuato a quel modo lentamente avrebbe sopito quella debolezza. Se lo era detto guardandosi nello specchio, occhi negli occhi.
Nessuna.
Tortura.
Non questa volta.