koneko no baka ·· - Group:
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| G E R M O G L I
Hold me to light, let me shine. Come hold me to the floor and say it's alright. Come hold me 'neath the water's skin until I'm new again.
il Rospo e la Trottola Anche quel giorno, l’astro dorato si sollevava sopra le cime dell’Erydlyss imponente, destando la foresta e la ragazza nella casa di pietre argentate. Quando albeggiava, era sempre come una sorpresa per la vita ancora addormentata e ignara dell'estate e del suo trotto spedito. Tutto pareva tremare d'un colpo, lasciando piante e creature stordite come quando il sangue non giunge in fretta abbastanza al cervello poiché ci si alza all'improvviso. E così accadeva al terminare d’ogni notte, da molte lune a quella parte. Ma l’aurora restava muta come la giovane e la precarietà di quelle mattine lasciava tra le sue labbra il presentimento che molto ancora mancasse al raggiungimento di quella che sperava essere una sorta di pace.
Gettare il viso fuori dall’inferno bollente del Baathos e saggiare l’aria frizzante e pura che penetrando nei suoi polmoni incontrava quella pestifera e infetta, le aveva lentamente ustionato la gola e il petto, liberando la strada - fino ad allora sbarrata - ai pensieri neri e pesanti che aveva accumulato. Ricordava di essersi guardata attorno, nella frescura della notte e aver pensato a quanto avrebbe voluto potersi sciogliere e diventar nulla, proprio come Zeyd - fuggendo - aveva fatto. Ma al contrario, appesantita dal rimorso, rimanendo a giacere lì su quel terreno brullo e accidentato. Senza guardare i visi altrui s’era incamminata, aveva salutato, aveva stretto le dita tremanti attorno al manico della lanterna e s’era dileguata. Silenziosa come la neve, pesante come l’inverno. Aveva incontrato i boschi, le vette, era tornata a casa. Il manto della solitudine l’aveva abbracciata, trascinandola nel sonno che le mancava, cullandola come una madre, annebbiando i sensi. Ella non aveva protestato, non s’era ribellata a tutto questo, poiché mai prima le era successo che le emozioni l’avevano stretta così tanto alla gola e fiaccata al punto da spingerla a preferire quell’incoscienza al respiro. Ma al seguente calare delle stelle, la vita era andata avanti, tra i sospiri increduli e sgomenti di Lodjur che infine si trovava a scrutare il vero negli occhi.
Mai prima d’ora a Eloise era capitato di aver a che fare con tanta cruda e orrenda realtà. Al sopraggiungere del giorno, ella sgranava gli occhi vibranti e allarmati, facendoli correre lungo braccia e dita, dal bacino fin’alle punte dei piedi, tormentata dalla paura che ogni notte, ogni volta che non avesse guardato, un pezzetto di lei sarebbe sparito, com’era successo coi suoi familiari. Certo era un pensiero più che irrazionale, ma scoprire di non essere umana l’aveva vestita di amarezza e indicibili paure, incubi perpetui e momenti di singhiozzi. Al chiudersi delle palpebre, la ragazza si circondava di visi conosciuti colmi di un affetto che mai aveva provato sulla sua pelle. E allora si dannava, scuotendo la testa e correndo nei boschi, convinta d'esser in grado di rimuovere dai ricordi le parole dell'elfo, il suo disprezzo nel rivelarle quella sua pecca involontaria che dalla nascita si portava dietro. Si torturava di domande e futili pensieri, inadeguati ragionamenti ai quali mai avrebbe potuto trovar risposta qualora avesse fatto appello solamente alle sue forze. Ma ora che aveva appreso d'esser sola al mondo, a chi avrebbe potuto chieder aiuto? Quando si poneva tali domande, strane fitte di bruciante dolore le attraversavano per lungo la schiena, scendendo dalla nuca fin alle ultime vertebre. Ricordavano quelle che avevan preso a scuoterla il momento in cui s'era resa conto di Sorcio steso a terra, le sue stesse mani gettate accanto a lui come attaccate a invisibili fili di un burattinaio. Pure sforzandosi, riusciva a rimembrare poco dei momenti precedenti, come non fosse stata lei ad attaccarlo, come fosse stata lei la marionetta tra i due. Quel pensiero la confondeva parecchio, lasciandola perplessa e piuttosto rivoltata al'idea d'aver potuto fare una cosa simile. Ma era come se i conti non tornassero, dunque nei suoi giorni di silenzio preferiva glissare su quella parte di riflessioni, soffermandosi invece nelle orbite elusive delle sagome eteree accanto a lei, incapace di distogliere da loro gli occhi delusi e amareggiati in maniera quasi infantile. Avrebbe voluto poter rovesciar loro addosso tutte le sue domande e le sue incomprensioni, tutti quei perché che ancora non trovavano voce a colmare i loro vuoti. E sotto le loro membra pallide, a fiotti irregolari come i battiti dei loro cuori, correva lo stesso sangue che ancora costringeva Lodjur a respirare, mangiare e vivere. Ma non loro. Loro non mangiavano, non respiravano, non vivevano. Loro erano tutti morti.
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Quando l'ora giunse, al nascere dell'ultimo giorno di quel verno di farfalle, quando anche le stelle avrebbero potuto cadere dal cielo, il desiderio di correre incontro al destino s'era fatto carne. Quando finalmente quell'alba ebbe un sapore diverso, la Silente aprì gli occhi colmi d'una strana calma. Nella cucina inondata di luce i muri erano stati spogliati dei quadri, i vasi dipinti privati dei fiori odorosi, le finestre sgomberate dalle tende finemente orlate. Il corpo della ragazza, abbandonato in un innaturale sonno su una sedia di legno volta verso il davanzale e il suo squarcio di vetro sulla radura, s'era mosso d'un poco al sollevarsi delle palpebre, come una corolla che s'apre al chiarore. Non ammise a se stessa d'esser stata lei ad aver fatto tutto ciò, l'innervosiva sapere che i sogni la muovevano nella realtà fisica privandola della coscienza che guardando il mondo con occhi desti avrebbe avuto. Adagiato sulle gambe pallide un pezzo di carta vissuto di pioggia e miglia, recava insipidi e grattati i segnacci d'una mano frettolosa. Tra le dita - ora schiuse un poco - reggeva la trottola di legno, dove il nome non più sconosciuto campeggiava come invitandola, come sorridendo.
Pur avendo calcato così tanta terra senz'arrestarsi un solo giorno, le gambe e il petto mai l'avevano richiamata per attenzioni misericordiose. Quando infine fu in fronte a un imponente pianta - un maestoso albero che certamente anni, forse secoli aveva veduto - seppe d'esser finalmente giunta. E il momento fuggente e glorioso spinse la sua mano a sfiorar la rugosa corteccia dell'arbusto, seguendone i solchi che la la linfa creava mangiandosi il legno. La freschezza e verdura dell'estate incorniciavano il grandioso dipinto, l'albero e la ragazza come un solo essere. Senza fermare la corsa delle sue dita sulle grinze legnose, scese fino ad affondarle in quella che pareva essere una piccola conca artificiosa, di forma circolare. Conica. Scostò dunque i polpastrelli e con un unico fluido movimento li portò alle labbra, pensante. Ma la risposta la illuminò pressoché istantaneamente poiché già in principio era stata la ragione della sua partenza. Da una tasca del mantello estrasse la trottola, guardandola sfuggevolmente un'ultima volta prima di inserirla delicatamente nella fessura. E non appena lei fece questo, per incantesimi o meccanismi segreti, le poderose radici dell'albero si sollevarono senza sforzo alcuno, rivelando alla ragazza una piccola entrata dalle assi di legno colme di nodi. Fu come a non pensarci nemmeno quando Eloise ne afferrò quasi bruscamente la maniglia, come se la curiosità avesse potuto divorale il torace in un attimo, come se il mondo fuori dalla porta facesse improvvisamente paura, come una fuga. La tirò verso sé, rivelando un'interno in penombra che scendeva un poco in scale di pietra e sputava in uno stretto corridoio.
L'umidità ombrosa del corridoio terminò pressoché subito e i passi silenziosi e - or più - cauti di Lodjur la condussero alla luce di un'altro minuscolo uscio privo di porta. Ella vi si addentrò piano, ritrovandosi in una piccola stanza illuminata da poche candele. I muri di legno erano coperti con numerosi dipinti di differenti dimensioni, raffiguranti paesaggi variopinti e cieli stellati. La vera e unica pecca era forse stato l'utilizzo di colori e materiali scadenti a ottenebrare il genio della mano che li aveva creati. Il pavimento lievemente accidentato reggeva solamente un grezzo tavolo, un paio di sedie, un'instabile branda. Qualche cuscino era gettato malamente su di essa, con lo stesso dispiacere che dei funghi potrebbero dare a una corteccia crescendogli addosso. Un quartetto di logori scaffali ornava una delle pareti, altrimenti spoglia di pitture. Eloise perse lo sguardo - per quanto potesse - tra quelle meraviglie mascherate di equivoca scalcinatezza, per poi passarlo involontariamente al tavolo, spinta dall'udire il lievissimo suono di ossa tremanti. Mosse qualche passo in quella direzione, lentamente. Poi si abbassò fino a toccare con le ginocchia il pavimento. Posò le mani sulle gambe e piegò la schiena, voltandosi con mortale calma. I suoi occhi sgranati e curiosi incontrarono quelli ancor più grandi e neri di un altro piccolo essere che al vederla sobbalzò sbattendo la testolina sul legno sopra a lui. Le sottili gambette storpie e malferme tremarono un poco. Ma al contrario degli occhi della ragazza, i pozzi scuri della creatura vibravano di innocente terrore e vaga meraviglia. Come a dover contenere quelle spropositate cavità scure, il viso dell'esserino era largo e liscio, di una strana tonalità colorato, oliva chiaro spento. Coronavano questo capo una coppia di minute, quasi graziose corna, nascenti dalle tempie. Dopo qualche secondo di silenzio osservatore, durante il quale la ragazza mantenne un confuso silenzio, l'ampia linea che solcava quel viso piatto e impaurito si mosse, lasciando cadere parole che rimasero a mezz'aria, sospese per un poco.
« V-voi, siete forse Eloise? »
La ragazza sbarrò gli occhi per la bruciante sorpresa, poi li richiuse in due strette fessure trasudanti di curiosità cieca. Era più che certa di non aver mai visto quel viso prima di allora. « Sì... » rispose dunque, esitante. E la creaturina parve risollevarsi, forse un poco illuminarsi, lasciando uscire un lungo sospiro. « Oh! » soffiò con la sua vocina fievole « Sono felice che non sia un altro demone affamato! ». Poi ridacchiò « E ancor più contento che voi ci abbiate trovati! ». Con un gesto poco fluido s'allontanò dal tavolo ergendosi e mostrando ancor più apertamente il suo fisico emaciato e fragile. Ma il sorriso sul suo volto era talmente radioso che edulcorò la misericordia infelice che Eloise aveva finora provato nei suoi confronti. « Io sono Ranocchio, lieto di fare la vostra conoscenza signorina. » proclamò giovialmente sforzando arti e giunture rattrappite in un inchino sorprendentemente elegante. La ragazza allargò ancora il sorriso che prima le gote le aveva dipinto di luce, ricambiando la riverenza con il capo, che abbassandosi fece ricadere i lattei capelli in avanti. Poi quella contentezza immateriale nuovamente si placò ed ella tornò quasi seria. « La mappa di Anguilla mi ha condotta qui, ma giungendo ho trovato solo te. Lui dov'è? » si guardò attorno pronunciando quelle parole, forse temendo, forse sperando che il giovane demone avrebbe potuto balzar spavaldamente fuori da qualche angolo in penombra, da qualche fitta e densa nuvola di polvere oscura come quella che li aveva celati l'un l'altra stretti nelle viscere della terra. « Ah, » esclamò il ragazzetto distogliendo Eloise dai suoi pensieri insolitamente tiepidi, « è andato a cercare un po' di cibo. Gli avevo detto che non era necessario, che potevo resistere ancora, ma non ha voluto ascoltarmi. Ha la testa dura, quel mattacchione! » e rise un poco. Si mosse poi in modo vagamente sgraziato, dirigendosi verso una delle credenze malmesse accantonate in un angolino ombroso di quel loculo. Aprì svariate antine cigolanti, parlando « Ma intanto, se volete, potete aspettarlo qui. Gradite del the? Ne ho uno alle erbe del Maktara, davvero delizioso! » Un alieno senso di delusione avvolse in spire confuse la testa della giovane, che parve farsi leggera, d'ovatta. Le parole del gracile demone le giungevan di continuo, come onde lunghe e tranquille. E fu forse quel senso di debole apatia che le permise di realizzare la stanchezza che addosso si portava. Lasciò cadere le spalle e abbassò il capo « Per cortesia, davvero ne desidero una tazza. » sospirò piano. Poi guardò altrove, lasciando correr lo sguardo fugace giù dagli spigoli arrotondati dal tempo dei mobili e di nuovo in su sui dorsi dei libri in lingua comune e demoniaca ivi riposti, sulle porosità delle pergamene istoriate di quelli che avrebbero potuto essere incompleti dipinti, sulle giare colme a metà di pennelli e matite, su certe piccole scodelle ammaccate nelle quali pugni di terra rossiccia e scura giacevano tranquilli. Ma più d'ogni altra cosa si lasciò certamente incantare dalla moltitudine di maschere che da quei ripiani l'osservavano. Come una freccia la trafisse il ricordo di Zeyd dal volto coperto, le nere voragini della sua facciata di cuoio a mostrare un poco le croci sulle palpebre. Espirò con un brivido, nella sua immensa vulnerabilità e mosse qualche passo, visibilmente a disagio per la vicinanza del piccolo demone. Trovarsi in una porzione di mondo ristretta al punto di poter esser chiamata casa assieme a un'altra anima pensante e dotata della parola insinuava in lei lo sconveniente bisogno di fuggire, come un animale selvatico avrebbe fatto di fronte a un avventuriero. « Anguilla si prende cura di te, dunque. Come l'hai conosciuto? » esalò cercando di controllare i battiti frenetici del suo cuore e mostrare disinteresse. Fallì. « Si, spesso. » sorrideva mentre parlava, « Io non posso muovermi fuori, in superficie. E nemmeno posso andare giù, o gli altri demoni mi divorerebbero. ». A quel punto parve rabbuiarsi, preso da oscuri ricordi. Il suo tono cambiò, spingendo Eloise a voltarsi verso di lui « Anguilla l'ho conosciuto proprio laggiù, qualche anno fa. Mi ha difeso da alcuni tipacci che volevano farmi a fettine. Diceva che gli davano fastidio i loro brutti musi, che voleva fargliela pagare per qualcosa di personale, ma in realtà so bene che l'ha fatto solo per proteggermi. ». Un colpo di tosse lo fece fremere tutto, riempiendo l'albina della già nota mesta compassione. Voltò la testa. « Non ha mai voluto nulla in cambio. E' un caro amico, anche se non lo ammetterà mai. » rise, Ranocchio. E anche Lodjur si lasciò andare a un sorriso, guardando a terra. I capelli di luna le nascondevano il volto. Sentiva gli occhi del piccolo su di lei, così non si mosse più. Ed egli s'avvicinò quasi subito, porgendole una tazza di terracotta sprovvista di manico e dal bordo in parte sbeccato. « Ecco, state attenta che scotta. » ma il gesto la riempì di gioia riconoscente ed ella non si curò di aspettarsi tra le mani l'oggetto bollente e come per incantesimo, le sue dita non percepirono il calore seppur divenendo rosse all'estremità. « Grazie. » mormorò lasciando intravedere il suo sorriso a Ranocchio. Guardò il liquido che nel recipiente pareva scuro come la notte, soffiò sulla sua superficie volubile e poi parlò. « Conosci il mio nome nonostante non ci siamo mai incontrati. È stato lui a parlarti di me? » non seppe nemmeno lei perché preferì non nominarlo. « Oh sì! » annuì il ragazzetto, tirando un piccolo sorso di bevanda. Il suo tono era giulivo, divertito, « Mi ha parlato tanto di voi, tutti i giorni. ». Una delle sue manine corse svelta a coprire l'ampia bocca, celandola solo a metà, « Ma forse non avrei dovuto dirvelo, uh uh! » subito ilare assunse un'espressione maliziosa, senza sforzarsi di trattenere una risatina. Le guance di Eloise presero a pizzicare ed ella chinò ancor di più il capo, come se il gesto sarebbe bastato a fuggire dall'imbarazzante attimo. « Fra quanto sarà di ritorno? » si trovò a domandare a fil di voce. E come a risposta di quella mezza preghiera celata, una cacofonia stonata al silenzio del rifugio sotterraneo invase l'aria. L'albina drizzò la schiena e le spalle, come una lepre all'udire di svelti passi. E a contrastare quel fracasso la sola vocetta briosa di Ranocchio che sentenziava.
« Parli del diavolo... »
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