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La Gelida Marcia - Primi Passi, Contest Gennaio [Gelo][Edhel]

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view post Posted on 13/1/2016, 20:11
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Cavalier Fata
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La Gelida Marcia ~ Primi Passi.
« Questa è la notte in cui incontreremo i nostri fantasmi. »

« Oggi fa freddo fuori, Allegra, non trovi? »

Sebastien, il proprietario della locanda dove avevo appena finito di esibirmi, mi si avvicinò con aria serena, aiutandomi a sollevare la custodia del mio violino sin sopra il bancone. Era un uomo gentile, di bell'aspetto per avere quasi cinquant'anni, faceva poche domande e pagava sempre puntualmente. Mi puntò addosso i suoi occhi piccoli e scuri, aspettandosi una qualche battuta tagliente come mio solito, ma quella sera non ero dell'umore per lasciarmi andare troppo.

« È inverno, credo sia normale che faccia freddo. » risposi atona, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
Mi guardò di traverso, allungandomi un piccolo sacchetto di cuoio tintinnante.
« Non siamo in vena di fare due chiacchiere eh? Venti monete, come concordato. »
« Scusa. » dissi, colpevole di non aver badato alle mie reazioni. « Oggi è l'anniversario della scomparsa di una persona a me cara. Non sono dell'umore per le battute. »
Abbassò lo sguardo, passandosi una mano sulla barba incolta. « Ah... sono un idiota, non badare a me. Grappa? Offre la casa. »
Sorrisi. In fondo non era una cattiva persona. Certo era un alcolizzato, andava sovente a prostitute e probabilmente aveva più figli illegittimi che dita in ambedue le mani, ma era comunque un uomo che sapeva quando non toccare certi argomenti.
« Volentieri. Devo andare al Lago e bere qualcosa mi terrà sveglia. » versò un bicchierino di liquore e lo tese nella mia direzione. « Al Lago? A quest'ora? Sta nevicando, ti prenderà un accidente se esci adesso. »
Bevvi tutto d'un fiato la grappa, senza sentire assolutamente niente, ma per non fare una strana impressione inscenai un colpo di tosse sommesso. Non mi sarebbe servito a niente contro il freddo, non contro quello che sentivo dentro, perlomeno. Avevo smesso di provare qualsiasi cosa molto tempo addietro, niente aveva più sapore o calore. Niente tranne la musica.
« Non preoccuparti, vecchio, so badare a me stessa... » dissi, calcandomi sulla testa un cappello rosso a tese larghe. « ...se non mi vedi tornare vuol dire che ho trovato un lavoro migliore. »
Dissi, scherzando. Poco prima di uscire dalla porta lo sentii borbottare.
« E io dove la trovo una che suona in questa bettola se crepi?... »
Mi chiusi la porta alle spalle, addentrandomi nella notte.

L'aria fredda e la neve che cadeva fitta m'investirono facendo sì che un brivido scivolasse lungo tutta la mia schiena. Cinque anni. Cinque anni che ogni volta, in quel giorno, andavo al Lago a porgere i miei omaggi, come una specie di sacro pellegrinaggio in mezzo al ghiaccio per adempiere ad una non ben identificata promessa. Non ero certa di cosa mi spingesse a farlo, sentivo solamente di non riuscire a farne a meno, sentivo di doverlo fare. E non mi importava del freddo, dei banditi, del caos che imperversava nel Dortan, nulla di tutto quello avrebbe potuto tangermi, nemmeno volendo. Il mio nemico era tutt'altro, era il gelo che portavo dentro di me. Cinque, lunghi, anni li avevo passati a suonare nelle taverne di ogni città, più o meno piccole, ora nella capitale, ora per un barone, ora in una locanda da quattro soldi, tutto quello di cui avevo bisogno era suonare ed essere ascoltata. Volevo avere la certezza di non essere diventata invisibile, di avere ancora qualcuno che mi vedesse, che sapesse della mia esistenza. Ma non avevo vissuto un singolo giorno, mi ero semplicemente limitata a fare in modo di continuare a esistere. Però non mi bastava più.

Nella strada per il Lago di Renna, una piccola cittadina ai confini della Roesfalda, non c'era nessuno. Il fango ghiacciato scricchiolava ad ogni mio passo, mentre l'oscurità della notte inghiottiva ogni cosa che non fosse raggiunta dalla luce della luna crescente. Avevo mentito a me stessa abbastanza tempo, fingendo che tutto potesse aggiustarsi e che, un giorno, le cose sarebbero tornate normali. Non sarebbe successo, semplicemente, perché i miracoli non accadono alle persone normali, ai musicisti, ma agli eroi. Serrai la mano sulla maniglia della custodia per violino, fermandomi un istante a guardare il cielo. Quante volte mi ero fermata nella stessa posizione a chiedermi perché fosse capitato proprio a me, a chiedere a Dio quale era lo scopo di quella punizione, ma nemmeno una volta mi era stata data risposta. Ero da sola, e da sola avrei dovuto trovare le risposte che assediavano il silenzio lasciato dalla musica. Ripresi a camminare, abbassando la testa sin a guardare solo la neve accumulatasi sul sentiero. Nemmeno il mio vestito rosso riusciva più a spiccare in mezzo a tutto quel bianco. Non potevo continuare a vivere in quel modo, a pellegrinare ogni anno verso quel posto per aspettarmi che qualcosa cambiasse. Avrei solamente voluto che quel senso di vuoto sparisse, avrei voluto sentirmi bene anche quando non stavo cantando o suonando, non chiedevo nient'altro, eppure niente e nessuno sembrava riuscire a soddisfare questa banale richiesta. Avevo letto migliaia di libri sull'argomento e tentato infiniti rimedi, ma nessuna soluzione era servita ad alleviare il mio dolore. Quindi non mi restava altro che continuare a tornare a casa, ogni anno, nella futile speranza di trovare qualcosa, qualsiasi cosa di diverso dall'anno prima. Stupido, vero?

Morire mi aveva aperto gli occhi su molte cose, aiutato con tante altre e donato l'eternità per esplorare il mondo e conoscerne ogni segreto, ma lo scotto da pagare era stato troppo grande. Non che avessi chiesto io di essere annegata, ma nel male ero riuscita a intravedere del bene, ero riuscita a vederci del positivo. Almeno sino all'arrivo di quella sensazione angosciante. Alzando lo sguardo sulla strada vidi la sagoma di qualcuno appoggiato sullo steccato di un campo. Aveva i capelli grigi e lunghi sin alle spalle e restava immobile tirando ampie boccate da una pipa. Mi fermai davanti a lui, alzando la tesa del cappello, abbassatasi a causa della neve, per guardarlo bene in faccia. Era un uomo anziano, avrà avuto settanta anni a dir poco, con occhi azzurri penetranti e una folta barba. Mi guardò, soffiando verso l'alto una nuvoletta di fumo acre, dall'odore pungente.

« È la tua notte? » domandò. « Sì. » risposi, senza pensarci troppo.
Scosse la testa, sconfortato. « Povera anima, mi dispiace. » Alzai una mano come a fargli sapere che non importava.
« Non si preoccupi, non è la prima volta. »
Sorrise, portandomi una mano sulla spalla per accarezzarla dolcemente.
« Fa freddo stasera, non trovi? »
« Sì, signore, fa molto freddo stasera. Vorrei essere a casa. » ammisi, candidamente.
Abbassò nuovamente lo sguardo, portandosi alle labbra rugose la pipa.
« Mi dispiace piccola. Non ti trattengo oltre. »

Si ritrasse, continuando a fumare silenziosamente mentre io, dopo averlo salutato con un cenno del capo, ripresi a camminare. Non era il primo e non sarebbe stato l'ultimo della mia specie che avrei visto quella sera. Mi voltai di scatto, per guardarlo di nuovo, ma non c'era già più. Sospirai.

La chiamo Gelida Marcia.
La strada che tutti gli spiriti devono fare, ogni anno, nel giorno della propria morte, per cercare qualcosa che li liberi dalla dannazione. Ne ho conosciuti dozzine, alcuni visibili, altri invisibili, veterani di guerra e bambini, donne e uomini, giovani e vecchi. Tutti, ogni anno, compiono lo stesso viaggio per poi tornare, inesorabilmente, indietro a mani vuote.
Durante il tragitto continuai a pensare alla mia vita prima di tutto quell'incubo. Non era bella, rinchiusa tra le mura di casa e addomesticata, come un cane, a suonare e cantare per il diletto dei miei padroni. Eppure avevo tre pasti caldi al giorno, un tetto sopra la testa e un letto per dormire. E mia madre. Avevo sempre accanto mia madre, a ricordarmi che per quanto le mie orecchie fossero appuntite e i miei lineamenti elfici rimanevo pur sempre sua figlia, a prescindere da ogni cosa. E adesso? Non avevo più niente. E non sapevo nemmeno se lei sapesse che fine avevo fatto, sepolta in una tomba d'acqua sul fondo del lago. Forse era meglio che non sapesse, che pensasse che fossi fuggita con qualche spasimante, rifugiandomi oltre le montagne... sapere della mia fine le avrebbe spezzato il cuore e, di conseguenza, avrebbe distrutto anche quel poco che rimaneva del mio. In quel momento vidi i tetti delle baracche dei pescatori, ancora qualche minuto e sarei arrivata.

[ ... ]

L'acqua mi avvolge come un sudario, la sedia a cui sono legata mani e gambe è pesante, di ferro battuto, ed in pochi istanti diventa una zavorra che mi spinge in profondità, nel freddo e nero fondale del lago. Mi agito, provo a urlare, ma tutto quello che vedo sono una miriade di piccole bolle che portano via da me gli ultimi istanti di vita che mi restano. Mi dimeno con tutte le forze che ho, tiro così tanto forte da sentire l'articolazione del polso tendersi e spezzarsi, ma non serve a niente, le catene non cedono. Guardando verso l'alto non trovo più la luce delle fiaccole, solamente l'immagine indistinta della luna che va scomparendo sotto migliaia di litri di acqua nera come la notte. Sento il petto scoppiare, non voglio morire, continuo a tirare, spingere e scalciare per liberarmi, ma sono troppo debole, troppo stanca per riuscire a liberarmi. Se non fossi sepolta da una tomba d'acqua avrei le guance rigate dalle lacrime, per la paura e per la disperazione. Non posso fare a meno di chiedermi perché è toccato a me e non ad altri, perché devo essere io a morire in quel modo brutale. Non sono religiosa ma prego comunque perché quell'incubo finisca presto, per non sentire più ogni fibra del mio corpo gridare alla ricerca di ossigeno, ma non c'è nessuno che ascolti le mie suppliche. Non voglio morire. È l'unico pensiero che ho nella testa, l'unico che mi sembra valga la pena avere. Poco a poco sento le forze scemare, il dolore al petto allontanarsi, il freddo tutt'intorno che s'insinua nelle mie ossa. Ho le palpebre pesanti, i pensieri confusi, mi sembra quasi di essere tornata in superficie. Poco a poco tutto si fa scuro, silenzioso, mentre i battiti del mio cuore rallentano sino a fermarsi. Non penso più a niente, non ci sono già più. Quello che rimane di me non è altro che un fragile corpo pallido con lunghi capelli scuri mossi debolmente dall'acqua. Lì, da sola, per il resto dell'eternità.


La superficie del lago era immobile, velata da un sottile strato di ghiaccio che rifletteva la mia immagine distorta. I ricordi dei miei ultimi istanti riaffiorarono vividi, pungenti, sferzando la mia anima come una frusta spinata. Non esistono parole per descrivere quella sensazione, quel dolore insopportabile che si prova vedendo la vita scivolare via dalle proprie labbra. Chiusi gli occhi, sforzandomi di non piangere, di dimenticare una volta per tutte quell'orrore, ma la gelida marcia non perdona, non dimentica né fa dimenticare.

« Fa freddo stasera, non trovi? »

Una voce, pacata, mi raggiunse. Aprii gli occhi di scatto, solo per vedere una donna, molto giovane, venirmi incontro camminando lentamente lungo la banchina innevata. Era un soldato, o almeno così credetti visto che indossava un'armatura con i simboli di un regno che non avevo mai visto prima. Alta, fulva, dagli occhi color del grano e dalle fattezze troppo graziose per sembrare una delle tante mercenarie al soldo dei nobili, alzò una mano per salutarmi.

« Sì, signora, fa freddo stasera. »
Risposi. Un altro fantasma sulla strada di casa.
« È la tua notte? » domandò, come il vecchio di poco prima, ma senza darmi il tempo di rispondere aggiunse. « Certo che è la tua notte. Posso sentirla persino da questa distanza. »
La guardai senza capire troppo bene di cosa parlasse. « Perdonatemi, non credo di capire. ».
« La tua tristezza. » aggiunse, facendo qualche passo nella mia direzione, sino a fermarsi al mio fianco. « Ti sei mai chiesta perché vieni qui ogni anno? In questa data? Cosa speri di trovare? »
« Sì, ma... » non sapevo cosa rispondere. « No... io non lo so. Vengo qui e basta. »
Lei si avvicinò a una panca di legno e, dopo esservisi seduta, mi invitò a fare altrettanto. Non avendo niente da perdere e non volendo restare da sola accolsi di buon grado quell'offerta. Non l'avevo mai vista, sembrava essere così tranquilla rispetto a tutti gli altri, priva di malinconia. Era come se fosse riuscita laddove tutti noi continuavamo inesorabilmente a fallire da tutto il tempo del mondo. Si accorse del mio sguardo perplesso e sorrise amichevolmente.
« Nessuno sa perché continuiamo a fare questa cosa... » disse, indicando con l'indice la superficie del lago. « ...tornare dove siamo morti. Io sono morta qui settantaquattro anni fa, di polmonite, durante l'inverno, ma questa è la prima volta che torno in quasi dieci anni. »
« Perché non sei tornata prima? » le chiesi, curiosa. « Perché non sarebbe cambiato niente! L'ho fatto per i primi vent'anni, ogni volta, tornavo qui e guardavo per tutta la notte la superficie del lago ma non succedeva niente! Riuscivo solo a ricordare i colpi di tosse, la febbre, il tremito... niente che valesse la pena rivivere per tutti quegli anni. »
Non risposi subito. Impiegai qualche istante ad elaborare quello che aveva detto, riuscendo a stento ad immaginare un'eternità sentendo quel peso dentro di me.
« Quindi non c'è... » finì lei per me. « No, non c'è "cura". »
Rimasi in silenzio.


Avrei dovuto continuare a esistere in quella maniera per sempre, probabilmente, né viva né morta, consapevole di essere condannata ad un limbo infinito di solitudine e amarezza. Non ero una ragazzina, sapevo bene che cosa aspettarmi dopo la morte, cioè nessuno sano di mente si immagina di superare indenne un trauma del genere, ma non pensavo di doverci convivere cent'anni, se non di più. Col tempo non sarebbe rimasto niente di me, della mia passione, della mia essenza. Mi sarei ridotta ad un guscio vuoto che vaga per i campi nella notte, spaventando i contadini e terrorizzando i bambini nelle storie di fantasmi. Una fine che non avrei augurato a nessuno.

« Guardati. » interruppe i miei pensieri, rivolgendosi nuovamente a me. « Ti dai già per spacciata. »
« Non dovrei? Sono morta del resto. Sono morta e non posso farci niente! Chiunque sarebbe triste, volevo dire... »
Alzai un poco la voce, ma la frustrazione non era poca e l'idea di dover passare tutta la vita a vagare non mi aveva esattamente rallegrata.
« Che caratterino... » ridacchiò la donna. « Tu hai ancora una scelta: puoi tornare qui ogni anno e rivivere la tua morte ancora e ancora, spendo che non ti servirà a nulla, oppure andare via e vivere la tua esistenza altrove, secondo le tue regole. »
Sospirò.
« Non sto dicendo che ti farà meno male questo giorno, anzi, sto dicendo che se qualcuno ti vuole pugnalare il tuo compito è quello di tirarti indietro, non aiutarlo a centrarti il cuore. Capisci cosa intendo? »
Abbassai lo sguardo fissandomi le scarpe bagnate dalla neve. « Che se continuo a tornare qui prima o dopo questo posto mi farà impazzire? »
Batté due volte le mani con un sorrisetto furbo sulle labbra. « Ma che creaturina intelligente. Ora fa un favore a te stessa: alzati, prendi il tuo violino e sparisci da questo posto. Va dove ti pare, gira il mondo, ma non tornare. »
Mi alzai lentamente, non del tutto convinta, ma andare via da lì era pur sempre meglio che continuare a rimuginare inutilmente su qualcosa che, a prescindere, non mi avrebbe portato che altro dolore. Mi inchinai verso di lei prima di allontanarmi.
« Posso sapere il tuo nome? »
Mi guardò, e nei suoi occhi vidi qualcosa di orribile. La stessa espressione che avevo io, poco prima, riflessa nel ghiaccio.
« Non ho avuto qualcuno che mi dicesse di non tornare qui prima che fosse troppo tardi. » si sforzò di sorridere. « Non ricordo più chi ero prima. »
« Fai in modo che non accada anche a te... » « Allegra. Mi chiamo Allegra. » « ...Allegra. »
« Ci proverò. »

Mi inchinai ancora, girando poi i tacchi per incamminarmi lungo la strada da dove ero arrivata. Non so perché ma mentre mi allontanavo ebbi come l'impressione di sentire quella donna piangere e una forte stretta al cuore mi colse. Non volevo fare quella fine. Non volevo finire per l'eternità a non ricordare altro che la mia disgrazia, dimenticandomi ogni cosa bella, ogni speranza, ogni gioia. Avrei preferito gettarmi nelle fiamme dell'inferno che piangere da sola ogni notte.

[ ... ]


Quando rientrai nella locanda Sebastien era già andato a coricarsi, al suo posto c'era il figlio, ben più che trentenne, a versare da bere agli ultimi rimasti. Mi sedetti al bancone appoggiando la custodia del violino accanto a me.

« Mi porteresti un bicchiere di vino, Lorenzo? »
Il barista ridacchiò sotto i baffi.
« Fa freddo stasera, eh? » disse, poggiandomi davanti il bicchiere pieno quasi sino l'orlo.
Lo guardai, annuendo lentamente.
« Sì fa... » mi fermai, osservando la bevanda ondeggiare lentamente dentro il boccale.
Mi scoprii a sorridere distrattamente.

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« No, non fa così freddo. Non stasera. »

 
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