| Alb†raum |
| | Jorge era a tavola e tagliava un pezzo della bistecca che aveva davanti. Non c'era piatto e la carne ancora cruda gocciolava sangue man mano che ne incideva la molliccia superficie. Si portò il boccone alla bocca e lo innaffiò con un sorso di acqua fangosa dal proprio calice di vetro scheggiato. Un dolore bruciante: si era tagliato le labbra. Tamponò il sangue con un tovagliolo, e quando lo allontanò si trovò di fronte al corpo di suo padre, sdraiato su un tavolaccio di ferro; un uomo con la barbetta bianca e due guanti che gli arrivavano fino a metà braccio stava aprendo il cranio con una piccola sega, spargendo polvere d'osso e schegge. «Guardi» disse l'uomo, infilando le mani dentro il teschio e cavando fuori una massa di carne informe, simile a melma, immersa in un siero rosso diluito che colava a terra. Un odore di marciume penetrante fece rivoltare le budella al tossicologo. «Lo ha completamente divorato dall'interno. Non è orribile?». Jorge tese una mano per allontanare da sé quell'orrore, ma la vide amputata, con ematomi nerastri dove ci sarebbero dovute essere le dita e un intreccio di vene pulsanti sul dorso, come budella esposte all'aria. Il terreno gli mancò sotto i piedi, e con un grido strozzato cadde nel vuoto.
Aria fredda gli soffiò in faccia; un mal di testa gli bruciava le tempie come se stessero pompando acido nel cranio, e quando aprì le palpebre pesanti non intravide che altro buio. Fu la sensazione di avere le budella schiacciate contro la gola che gli fece intuire cosa stesse accadendo. Uno stridore metallico gli fece serrare i denti. Jorge batté con la spalla destra contro una parete, tanto vicina che non riuscì a distendere il braccio per attutire l'urto. Di fronte a lui sprizzarono scintille, e il tossicologo intravide un costone roccioso che premeva con forza contro quella che sembrava una gabbia. “Cosa... diavolo...?”. Un'altra botta. Si ritrovò capovolto con le braccia schiacciate dietro la schiena. Strillò. La gabbia continuava a cadere e rotolare contro la parete, e lui venire sbattuto da una parte all'altra, incapace di mantenersi fermo, tanto che smise di contare le volte in cui urtò con testa, schiena o ginocchia il ruvido metallo. L'angoscia gli compresse il petto e in mente aveva solo quel clangore continuo e la domanda: “quando finirà?”. Un ultimo urto, poi la gabbia si mise a scivolare su un pavimento di calcare e infine si bloccò. Jorge rimase immobile, con le ginocchia premute sul petto in quell'angusto spazio. Il respiro meccanico si infrangeva sulle pareti come un'eco lamentosa. Sollevò un poco la testa tenendosela con una mano, e il dolore gli colorò la vista di rosso. Dov'era? Cosa era successo? L'ultimo ricordo che possedeva era vago, distante: Selhades che gli mormorava quella frase strana, dicendogli che lei non c'entrava nulla, poi il sonno nero in cui era stato inghiottito. Eppure era certo che quella troia c'entrasse, che lo avesse scagliato in qualche abisso profondo per vederlo strisciare fuori a fatica. Strinse i denti con rabbia, e sferrò un calcio alla gabbia. Questa scivolò per qualche metro, poi ci fu il suono di sassi che scivolano. Un rimbombo. Lo stomaco di Jorge si serrò.
Tastò alla ricerca di un'apertura, una serratura o quant'altro. Le dita disegnarono finalmente il contorno di cardini; la chiusura, poco distante, non era che una barra orizzontale che la teneva serrata. La afferrò con due dita dall'interno della gabbia e la strattonò. Scivolò senza smuoverla di un centimetro. Gli urti dovevano averla bloccata, dannazione! Tentò di stringerla con le unghie per avere più presa, ma il freddo metallo resistette e gli si piegarono, con un dolore acuto e bruciante che gli si propagò per le dita. Se le portò alla bocca per succhiarle, le allontanò con senso, pensando a tutte le porcherie che potevano aver accumulato, poi lo fece comunque. Sapore metallico, sangue. Era quella la fine, allora? Ucciso da una serratura bloccata, costretto a crepare di stenti in quello spazio dove non aveva nemmeno modo di sdraiarsi per dormire? Alla fine lui sarebbe morto comunque, preso dalla woromhabes o dai propri stessi veleni, ridotto a uno scheletro rantolante con poca carne attaccata alle costole. Rimanere immobile, tuttavia, a lasciare che quella sete e quella fame che già lo tormentavano lo divorassero era un'idea inaccettabile, che gli fece montare raccapriccio. Estrasse una lama dal bracciale e la fece scorrere dove il metallo si era incastrato. Il perno che sigillava la gabbia si era piegato verso l'interno e bloccato fra le sbarre, così che non riusciva a scorrere; Jorge infilò il pugnale tra questo e la gabbia e fece leva. Si sentì uno scricchiolio, e il tossicologo pregò che non si trattasse dell'arma. La serratura cedette di colpo. Ci fu il clangore del ferro divelto, un tintinnio. La prigione era ora aperta.
Jorge strisciò fuori lentamente, con le gambe che dolevano in ogni giuntura. Erano le botte? No, sembrava più quella sensazione causata dal rimanere fermo troppo a lungo. Chissà per quanto tempo lo avevano imprigionato, drogato e incosciente, prima di gettarlo in quel buco senza luce. Sfilò le gambe dalla gabbia, assestando un calcio per sfilarsela. Uno stridore, e poi un clangore echeggiante, più volte, come se ci fossero diversi urti. Le scintille contro una parete rocciosa illuminarono per un istante l'abisso alle spalle di Jorge. “Stai calmo” mormorò fra sé e sé. Il suo respiro rantolante si faceva raschiante man mano che il disagio aumentava. Strisciò in avanti, piano, tastando con le mani il terreno di pietra calcarea per essere sicuro di non essere capitato su un'isoletta circondata da un precipizio. Le ginocchia sfregavano contro la roccia e imploravano che si mettesse in piedi, ma aveva paura. Aveva paura di perdere l'equilibrio e cadere, di andare a sbattere con la testa contro un soffitto acuminato, di disturbare una qualche bestia di quelle profondità. Avanzò ancora come un verme. Le dita toccarono qualche cosa di umido e molliccio. Le ritrasse con un gemito. Un'esplosione di scintille illuminò per un istante la sua mano contratta. “Cosa diavolo...?”. Sfiorò il mucchio molle. Un altro piccolo bagliore. “Una pianta, un animale?”. Conosceva una manciata di specie comuni che potevano emettere luce, e qualche altra creatura più rara in grado di utilizzare la magia o il fuoco; ma pochissime piante, e perlopiù alghe, emettevano luce. Poteva essere velenoso? Probabile, tuttavia il burrone che si trovava accanto forniva una più facile via di morte che qualsiasi tossina nell'aria o spore letali che potessero mangiargli il cervello. “Potrebbe uccidermi lentamente. In due, tre mesi deteriorarmi i nervi”. No, non poteva rischiare, era pericoloso, troppo pericoloso. Anzi: l'aveva già toccato! Non sentiva le vene del braccio pulsare e trasportare le tossine, l'acido corrodergli i tendini e i muscoli, il cervello diventare poltiglia? Portò una mano verso lo scomparto degli antidoti del bracciale e lo fece roteare freneticamente. Una cura, un placebo, qualsiasi cosa che potesse fermare quel... C'era una boccetta di forma strana fra quelle agganciate; una che di solito non usava. Se la rigirò fra le dita. Cos'era? Tolse il tappo, la annusò, arricciò il naso. Un odore acido, penetrante; non qualcosa di buono. Lo richiuse e lo ripose nello scompartimento. Cos'era, l'opportunità che Selhades gli dava di farla subito finita? Perché era stata quella troia a lanciarlo laggiù, non era vero, quantunque abbia detto. Voleva farlo impazzire o provare a vedere se fosse in grado di sopravvivere, e lui sarebbe sopravvissuto e tornato da lei. Questa volta per la sua testa. Sfilò il bastone dalla cintura e lo usò per tastare l'erba – o mucillagine, o qualunque cosa fosse – e ogni volta che la premeva un soffio di luce simile a fumo scaturiva dai filamenti. C'era qualcosa di più duro in mezzo, come un guscio di noce. Jorge si sollevò lentamente e schiacciò con il proprio peso, e con il rumore di qualcosa che si spezza il terreno rimase infangato di quella sostanza luminescente, abbastanza forte da abbagliarlo dopo quell'infinito buio. Jorge stracciò un pezzo di mantello e lo imbevette di sostanza, poi lo avvolse attorno al bastone. La torcia realizzata non pareva di lunga vita o grande forza, ma almeno lo avrebbe condotto fuori di lì senza che inciampasse oltre l'orlo del burrone. “Ora ho bisogno di acqua” pensò leccandosi le labbra secche. “E cibo. Ma soprattutto acqua”. Scartò di potersi dissetare del composto luminescente e cominciò a camminare zoppicando, con crampi che gli ricordavano la prigionia a cui era appena sfuggito. Con la torcia si faceva luce dove metteva i piedi, e senza una meta precisa proseguì verso un cunicolo. “Una fonte sotterranea. Anche con zolfo dovrebbe andar bene”. Rimase in silenzio per un istante, sperando di udire in lontananza uno scrosciare; ma il suono dei meccanismi copriva qualunque altro rumore, e non distinse nulla. “Quanto sono in profondità?”. Si portò una mano alla tempia. “Magari è solo una grotta superficiale” guardò la propria torcia improvvisata e si ricordò della pianta con cui l'aveva costruita, mai vista prima nonostante gli innumerevoli anni trascorsi nello studiare erboristeria. “Una grotta dalla flora bizzarra”. Un chiarore in lontananza, poco dopo una svolta. Rosso, come il fuoco di una torcia o un tramonto. Jorge accelerò il passo sperando che si trattasse di un'altra persona, o magari anche dell'uscita. “Potrebbe essere qualche malintenzionato” pensò, ma in quel momento non importava: se anche fosse stato aggredito avrebbe potuto difendersi e depredare il corpo di quello sventurato una volta che lo avesse ammazzato; e se fosse stato Jorge a morire, non ci sarebbe stato più alcun problema. Fu nello svoltare l'angolo che comprese che, forse, non era solo una grotta superficiale.
Davanti a lui c'era un fiume incandescente. Il magma scorreva denso e poi cadeva con scintille in un pertugio fra le rocce; sopra, una sottile crosta nera si induriva e poi scioglieva alternamente, creata dall'aria e poi distrutta da quel moto continuo. Jorge si allargò il colletto della giacca, allontanandosi di qualche passo. “Questo è... il Baathos?”. Le budella gli si strinsero. No, non poteva essere. Le profondità di Theras erano state scavate in più punti da fenomeni naturali; poteva trovarsi in qualunque cava o in qualsiasi altro buco sulla faccia della terra... “Ciò che sappiamo del Baathos lo abbiamo ricavato soprattutto tramite la tortura su demoni o divinazioni magiche” le parole del libro De Profundis gli echeggiarono in testa. “Nessuno è mai sopravvissuto a un'esplorazione prolungata nell'abietto sottosuolo del continente”. Barcollò contro una parete, la torcia gli cadde a terra. “Lava cade in laghi di portata pari a quelli acquatici in superficie; scorre liquida per chilometri, senza raffreddarsi o seccarsi, come se un cuore di roccia fusa infinita lo alimentasse”. Poi pagine di calcoli per tentare di capire il diametro di un tale nucleo magmatico, e la conclusione che doveva esserci invece un qualche fenomeno magico in atto. Nel leggere quel libro Jorge aveva pregato di non essere mai costretto a giungere in un inferno del genere. Si chinò a raccogliere la torcia tentando di mettere in ordine fra i pensieri, decidere un piano o perlomeno non soccombere al desiderio isterico di trattenere il fiato fino a scoppiare. Qualcosa oscurava la torcia. Senza badarci avvicinò una mano per pulirla... prima di rendersi conto che una bestia, simile a un insetto e grossa come un ratto, si era arrampicata sul bastone e succhiava avidamente il fazzoletto imbevuto con una piccola proboscide. D'istinto il tossicologo schiantò la punta come una parete; l'animaletto saltò giù prima dell'impatto e avanzò verso Jorge soffiando come un gatto imbestialito. L'addome gli si gonfiò in una viscida e scura tumefazione, e caricò Jorge con le lunghe zampe che ticchettavano sulla roccia. Lui sollevò un piede e lo schiacciò quando fu a portata. Ci fu lo scricchiolio dell'esoscheletro e degli arti che si spezzavano, poi puzzo di uova marce si sparse nell'aria. Uno scatto vicino alla caviglia; Jorge sobbalzò. Due mascelle appuntite si erano chiuse sul lembo dei pantaloni e lo stavano strattonando con le ultime energie che rimanevano alla bestiaccia. Il tossicologo sollevò la gamba e colpì il corpo una, due, tre volte, e la testa saltò via portandosi appresso uno straccetto delle brache. Ansimò piegandosi in due. A terra, i fluidi corporei dell'animale imbevevano un mucchietto di vermetti sottili e bianchi, probabilmente parassiti che fino a quel momento erano vissuti al suo interno. Con una smorfia di disgusto li scavalcò, cercando di ricordarsi quale fosse la strada da cui era venuto; inciampò, e nel riprendere l'equilibrio per un istante rivolse lo sguardo verso l'alto.
Una fila di insetti giganti camminava sopra di lui, tre o quattro metri in alto, silenziosi. Altri zampettavano lungo le pareti, e parevano una grottesca e orripilante parodia delle formiche. Anche il loro comportamento era simile: portavano fra le zanne pezzi di roccia lavica, larve, mucillagini fluorescenti, e camminavano in file ordinate, seguendo forse scie di odori, forse l'istinto. Una di loro tastò con le antenne il calcare, poi, trovato il punto giusto, lo incise con le proprie chele e penetrò senza difficoltà nel foro. E pensare che quella morsa terribile gli aveva quasi tranciato una gamba...! Un'altra formica si calò verso di lui per annusare la pezza luminescente e tese una proboscide. Jorge la allontanò bruscamente, e l'animale rimase confuso, ad agitare le antenne come cercando qualcosa. L'istante dopo Jorge aveva trasformato la sua testa in una chiazza sulla parete. “Devo andarmene”. Corse indietro, sperando di arrivare dal luogo da cui era venuto, ma cinque gallerie gli si aprirono di fronte, e lui non ricordava di averne viste così tante. Ne imboccò una. Tornare al precipizio non era meno pericoloso che essere persi.
Sopra di lui ancora zampettavano quei mostri. Sembravano tuttavia all'erta: agitavano le antenne contro le pareti e si spostavano sui muri, tastando nella completa cecità. Quando lui passava, si allontanavano di gran lena, presi dalla paura. Imboccò un cunicolo, poi un altro. Un animale simile a un equino dalla viscida pelle bianca e non più grande di un cane era smembrato in un angolo del cunicolo, le budella srotolate simili a una gelatina trasparente. La carcassa di un pipistrello accoglieva delle larve che, senza mangiarlo, si godevano il calore corporeo dalle orbite degli occhi e da innumerevoli fori nel corpo. Era un inferno assurdo, senza senso, e più proseguiva più la mostra si faceva disgustosa, con vermi enormi nei cui cuori trasparenti si intravedevano nuotare dei parassiti; una creatura che pareva una talpa dalla pelle viscida e le zampe di rana che fuggiva inseguita da una formica. Le ramificazioni di cunicoli vennero presto sostituite da delle cuccette in cui erano ammassati corpi, e una spalmata di liquido fluorescente in cui larve si contorcevano affamate. Il corridoio poi si concluse in un'altra curva. Un bagliore; altra lava? Jorge avanzò con cautela. Mezzo centinaio di insetti erano appesi al soffitto per le tenaglie in un'ampia insenatura scavata nella roccia. Il loro addome era gonfio, pesante, e pendeva pigramente mentre altre formiche si avvicendavano attorno a loro per staccarli. Emettevano una luce abbastanza forte perché Jorge non avesse bisogno della propria torcia per rischiarare. “Sacche di nettare” balenò nella mente di Jorge. Anche le formiche comuni si trasformavano in depositi viventi di acqua e zucchero per conservare nutrimento durante le carestie. Da bambino a volte aveva scavato la terra della palude per cercare quei palloncini dolci e mangiarli, con l'orrore di sua madre che continuava a sgridarlo; ma erano buoni, e in assenza di dolciumi era il meglio che potesse trovare. Adesso, con la bocca arida e la testa che gli girava per la fatica e la fame, erano letteralmente una manna. Mirò con il bracciale e sparò; tranciò la testa di una formica che stava trasportando una sacca di miele, e l'insetto deforme cadde a terra, annaspando con le zampe ma incapace di muoversi. Un muro alle spalle di Jorge esplose. Due zanne gigantesche fecero capolino. Guerrieri. Doveva sbrigarsi: se le operaie erano in grado di fare buchi nella roccia, non era in grado di prevedere cosa potessero fare questi esemplari. Afferrò la sacca di miele e se la caricò sulla spalla. Era pesante, ma perlomeno non tentò di difendersi. Prese la strada al contrario senza guardarsi alle spalle, tentando di resistere alla nausea mentre le zampe del bottino si contorcevano spasmodicamente. Tutto il formicaio gli stava alle calcagna; la luce emessa dal suo carico rischiarava il soffitto abbastanza perché intravedesse le formiche saltare da una parete all'altra e scendere in colonne simili a colonne. Ne scansò di pochi centimetri, mentre due chele gli si chiudevano a un palmo dal naso. La parete di fronte a lui esplose; una guerriera zampettò fuori serrando le fauci; Jorge la scavalcò con un salto. Non erano così grosse, tutto sommato. Fu fuori, in un altro spazio aperto. Lì un burrone lo separava da un'altra parete rocciosa; bestie la costellavano, attendendolo. Due tenaglie eruppero dal terreno sotto di lui. Jorge saltò nel vuoto, il respiratore fece soffiare le ventole posteriori e l'istante dopo fu in volo.
Il terreno sotto di lui era illuminato da qualche formazione di cristallo fluorescente; e nell'abbassarsi, Jorge notò depositi di questa sostanza bianca sempre più grossi. Il fondo si rivelò essere una miniera di grosse formazioni appuntite, di forma esagonale, che sporgevano in varie direzioni. Era forse opera umana? Lì nel profondo aveva visto sufficienti assurdità per non dubitare che, forse, anche questi fossero reali. Ne sfiorò uno. Emetteva un leggero tepore, come un fuocherello o una carezza.
Posò l'insetto a terra, che non aveva smesso di dimenarsi e gli tastò l'addome, tanto pregno che un poco di melata gli unse le dita. Era mollo, umido, simile al latte della Gerba, quello che uccideva in tre notti. “Vale la pena rischiare?” pensò. L'odore dolce della sostanza gli comprimeva lo stomaco di fame, e anche la sete lo tormentava. Era come quell'imperatore, Ahasuerus, che una volta visto il proprio regno crollare aveva vagato nel deserto e si era ritrovato a bere una pozza di piscio di cammello e ad affermare di non aver mai assaggiato bevanda più squisita. Si portò alla bocca il nettare e lo succhiò, e gli ricordò il sugo delle pesche mature. Perlomeno era meglio di urina. Affondò un pugnale nel dorso della bestia e si mise a bere il liquido prima prendendolo con le dita, poi leccandolo, infine sorbendolo direttamente dalla ferita inferta. Si fermò una volta calmata la sete e zittita, per il momento la fame. Si sedette contro uno dei cristalli e si guardò attorno. “Se questo è il Baathos, ci saranno demoni” pensò di sfuggita. Probabilmente già queste formiche erano tali. Tirò un calcio alla sacca di miele, e questa ronzò indispettita. Aveva davvero ben poco di diabolico quella creatura; eppure era un abbozzo deforme, una caricatura fatta carne, così come tutte quelle bestiacce morte ammassate nel deposito di quelle della sua stirpe. Il Baathos nascondeva molto più che quelle formiche scavatrici di roccia, questo era certo. C'era un'uscita da quell'inferno o sarebbe morto lì, divorato da un abominio o sfiancato dal ricercare nutrimento? Avvertì dei passi avvicinarsi. Jorge si alzò, estrasse i pugnali e rimase in attesa, con il rumore del respiratore che nascondeva il ritmo impazzito del suo cuore. |
Energia:100% Corpo: 100% Mente: 100% CS:Passive attivate:[Passiva del secondo livello del talento eremita; capacità di volare (5/6)] Attive:Note: Jorge affronta uno sciame di formiche giganti e fugge con una Sacca di miele (una mutante riempita di melata) grazie al jet-pack. Nient'altro, suppongo. Enjoy it
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