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Come figli e come uomini, Contest Febbraio 2016 - Rinascita

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.Neve
view post Posted on 29/2/2016, 03:59




Due volte ci presentiamo alla grandezza dell'universo.
Una volta come figli.
Una volta come uomini.

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« As-salāmu ʿalayka abn eumy, mio cugino.
السلام عَلَيْكَ ابن عمي
Spero questa missiva sia giunta lieta a destinazione, di man per mano ad ogni nuova luce che si accende sul Nord. Loro hanno occhi per vedere in tutti i luoghi, e orecchie per sentire ogni passo che calpesta neve o erba. Come stai, allora, abn eumy? Vaghi ancora a mente spenta tra cuore e braccio? Mangi mai a sufficienza? Ti curi abbastanza del tuo corpo? Sono preoccupata. Sono preoccupata per te, mio parente prossimo. Non sai quanto e forse non lo immagini. Forse ritieni queste parole le inutili lusinghe di una donna troppo attaccata alle convenzioni e alle etichette sociali, forse non mi credi sincera. Ma il mio pensiero, dal momento in cui mi sveglio a recitare la ṣalāt al-ṣubḥ al momento in cui invoco la al-'Isha' sotto al cielo nero e luminoso, corre rapido a te. Ora però il mio animo è alleggerito, la mia mente vola. Accolgo con oggi il frutto del mio ventre, figlio mio e di Djace, tuo nipote...»

Trascinava l'indice lordo sui pori della carta, lentamente, quasi a volersi soffermare su ogni parola ivi scritta. Gli occhi vermigli guizzavano da una parte all'altra del foglio in un rapido saltare nell'umor vitreo. Corrucciava la fronte e poi la rilassava alla lettura di quegli antichi grafemi di cui quasi non ricordava più la pronuncia. Parlava spesso o sempre in uno dei molteplici dialetti della sua lingua, quello si, quello non era un problema. Ma ora la ḫāʾ di ḫāʾfid, nipote, diventava la tāʼ di tfyd, secondo, e tutto cominciava a confonderlo non di poco. Come quel ḍamma, tanto piccolo ma pieno di significato. Riunione, nella sua forma più cruda. Ma cosa c'era poi da riunirsi se non si vedevano da mesi e mesi? Non lo capiva e non si sforzava nemmeno di farlo. Non pensava a nulla. Osservava la fiamma del piccolo falò che lenta si trascinava ondulata nel vento. Il vento del nord, così freddo e pungente. Così aspro dall'alito caldo del kamshin che ricordava da bambino. Così atono nelle sue forme. Ora rizzava la sua pelle, la raggricciava, centimetro per centimetro. Si insinuava tra gli strati di pelliccia, le vesti, gli ornamenti sgraziati del suo manto. Sollevava di prepotenza la sua maschera cornuta, così poggiata sulla faccia che ormai senza si sentiva nudo. Al freddo. Come quando, memore della sua venuta al mondo, allungava la testa fuori dal collo uterino. Ed era già solo a squarciare il cielo col suo grido.

***



Batte dentro a una gabbia d'ossa, frenetico. Il petto si innalza e si abbassa, come fosse una spietata, ritmata, fisarmonica. Lei grida. Ruota le orbite al soffitto e già sente daghe e pugnali trapassarle il bassoventre. Lui avanza scivolando in un viscoso e stretto corridoio. Ancora non fiata. Silenzio, vuoto freddo e umido marcio. Un ultimo sforzo per risolvere questa infame venuta. Poi avviene, come le nuvole che si scontrano a far cascare la pioggia. La testa boccheggia in un nuovo e affascinante pianeta, poi le braccia, le gambe, tutto si smuove dentro e fuori di lei. Gelo. Così pungente che si insinua tra pelle e capelli. Così orribile e mesto. Via il filo, via il legame che ancora lo tiene abbarbicato a lei. E allora i polmoni si empiono, il petto trasale. Deossidato da un'aria nuova. Urla saggiando il diverso. Perché non sto più lì dentro? Chiede in una lingua sconosciuta. La paura lo invade, il freddo lo divora. Ora è distante da Lei, fuori da quell'involucro di carne e sangue. Ha perso via la sua corazza. Ora è solo. Ora piange e divora le lacrime amare che produce. E freme, bianco verme cieco, corrucciato e arrabbiato. Coperto da gialle chiazze. Non vede, non sente. Vive per la sua prima volta il figlio di tutti i bastardi. E forse mai avrebbe voluto.

Cosa sia stata la venuta al mondo del fu Zeyd El'Asaiyrd, ora Anguilla, lo sanno solo le vecchie levatrici già sepolte coi loro segreti. Ma si racconta, da sibili sfuggiti nel vento, che non fu un travaglio facile per la giovane Adjer. Una donna velata quasi più che bambina. Così poco attenta a se stessa da non riuscire nemmeno a occuparsi di un'altra creatura. Così illibata e inesperta da vivere l'intera gestazione con la stessa leggerezza che riserbava ai giochi e alle favole. Ma una favola quella ben poco lo era. E non furono i capelli di lui, rossi come il fuoco d'autunno, a farla sussultare. Nemmeno il suo grido sgraziato da infante famelico. Ma la schiena. Così umida e nuda, deturpata da propaggini non umane, ali grottesche e diaboliche. Frutto di un'insana progenie. Zeyd era il figlio che lei avrebbe odiato, era il bambino il cui segreto tutti avrebbero dovuto scordare. E per questo motivo Adjer si spinse a compiere nefandezze inimmaginabili. Atti crudeli e spietati. Irraccontabili. Murò vive le sue levatrici, i curatori di famiglia e tutti coloro i quali avevano assistito alla nascita del bambino. Sangue e sudore di sprecarono. Le pareti di quelle caverne si tinsero del colore della vergogna. Mai più il sole avrebbero visto quegli occhi, molteplici e terrificati. Mai più del bacio dello Zenit si sarebbero prostrate le loro gote. Nessuno avrebbe mai potuto accennare a quel giorno se non il cuore nero di lei, incupito e fragile fino al vuoto eterno. E lui, dopo anche diciannove anni, ricordava. Ricordava benissimo. Erano immagini fresche che vedeva sfilare innanzi ai suoi occhi infiammati. E non avrebbe mai potuto togliersele dalla testa. No. Nemmeno con la forza.

Strana cosa la mente. Strana cosa la personale memoria.
Cos'era quell'agitarsi d'ombre avanti a lui?
Cos'erano quei lamenti lacerati fuori dalla porta?

Davvero il buio aveva colto i loro corpi?
Davvero Lui stesso era la causa di quei tormenti?

Egli era il fuoco, l'alito freddo della morte, il fulcro d'ogni male.
Pareva esserlo, e già se ne capacitava.

Già il rimorso lo divorava.

Passavano i cicli delle stagioni, e così gli anni in quella gabbia dorata. Zeyd, dalle mani cariche di doni, aveva cominciato a imparare il significato delle parole, e vicino alla stanza di Adjer, fantasticava sul giorno in cui lei ne sarebbe stata fiera. Un maestro lo istruiva alla lettura e al far di conto. Apprendeva in fretta, Zeyd, quasi meglio degli altri bambini della sua età. C'era la wāw con la sua forma morbida come un ventre di madre, la lām che presagiva spesso i cambiamenti. E i suoi occhi che si tingevano di nuovi colori. Egli si fermava a scrutare il volto inorridito del suo insegnante, e quando cominciava a rimirare la sua faccia allo specchio istintivamente volle cacciarla sotto la sabbia. Fu quello il giorno in cui - non ancora uomo - comprese di essere rinato come creatura diversa. E non vi furono pianti che ressero, non vi fu compassione che poté piegare la furia di quella donna indolente. Andò via, come era venuto. E il tempo cancellò le sue tracce.

***

Adesso si passa la lingua sui denti puntuti, affamato. Alito caldo per l'aria, come le nuvole bianche, fumose, eteree. Ora ricorda. Guarda al giorno in cui capisce per la prima volta di essere un demonastro, ed è la carne morbida di un suo simile per il palato a ricordarglielo. È il sapore metallico del sangue a impastargli la bocca mentre nessuno osa fiatare. Calma, vuoto freddo e lordo bitume. Il rumore delle membra che si lacerano in un lungo concerto. Non siamo più figli delle nostre madri, pensa. Siamo figli di un mondo che ci ha abbandonati. Siamo uomini senza meta e senza scopo. Costretti ad azzannarci a poco a poco. Costretti a divorarci. E non c'è pace. Non c'è più il silenzio che ci avvolge in una sacca d'acqua. Siamo l'eterna scoperta e l'eterno cambiamento.

« Perciò, ti prego, abn eumy: abbandona questa cattiva strada e torna a riabbracciare la tua famiglia. Io, Djais e il piccolo Tariq ti aspetteremo sempre a Biancocolle.

Un Abbraccio.
Afrah.»


Lesse le ultime parole in fretta e furia, senza più ritornare ai paragrafi precedenti. Prese il foglio di papiro, tanto sottile, e lo accartocciò in una pallina che bruciò in un istante sulle fiamme danzanti del falò. Sputò in terra, stizzito. Attorno a lui Ranocchio, la Bianca Silente e l'elfo grasso dormivano dentro ai sacchi a pelo. Le gemme luminose degli astri tappezzavano scompostamente la volta nera sopra al paesaggio autunnale dell'Edhel. Chiuse gli occhi, ancora e ancora.

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Due volte ci presentiamo alla grandezza dell'universo.
Una volta come figli.
Una volta come uomini.



Nascita e Rinascite di Zeyd.
Afrah informa il demonastro via missiva della nascita di suo figlio Tariq e lo invita ad incontrare il nipotino. Zeyd allora ripensa al giorno della sua nascita (lui ricorda perfettamente ogni momento della sua vita), al momento in cui capì di essere rinato come una creatura non umana, e infine al momento in cui capisce in definitiva di essere un demone divorando appunto un suo simile. In questo senso, ho voluto riutilizzare lo stesso schema prosastico del paragrafo in cui nasce, cercando di creare una sensazione speculare che si può ripercorrere sia all'inizio che alla fine dello scritto. La frase, sia all'inizio che alla fine del testo è un omaggio a Jean Jacques Rousseau.


 
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