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La Gelida Marcia - Requiescat in Pace., Contest Febbraio [Edhel][Nascosto]

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view post Posted on 29/2/2016, 08:33
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Cavalier Fata
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La Gelida Marcia ~ Requiescat in Pace.
« Riposa in Pace, Irene. »

Mia madre era sempre stata una donna dal carattere forte e dalla personalità invidiabile. Una donna come tante al mondo, dedita a sopravvivere, che amava la figlia e, a suo modo, anche il primo amore della sua vita, mio padre. Era bella, molto alta, con lunghi capelli biondi, pelle candida ed un sorriso genuino e gentile sempre stampato sulle labbra, ad ogni ora del giorno e della notte, un angelo sceso da chissà quale paradiso per portare gioia a chiunque avesse posato lo sguardo sulla sua figura. Una madre amorevole, capace di far sentire a casa anche una creatura come me, nata a cavallo tra due mondi ma incapace di trovare uno spazio proprio. La sua voce era come una carezza gentile, non importava quale fosse il tono, o quali le parole, provando a ricordarla dopo cinque anni tutto quello che riuscivo a pensare era la sensazione che mi trasmetteva. Mia madre, se solo avesse voluto, si sarebbe potuta imbarcare in una di quelle straordinarie avventure in giro per il mondo raccontando storie e vivendo paesaggi inesplorati, ma aveva scelto consapevolmente di restare a casa. Lì, in quel piccolo villaggio di trenta case attorno ad un lago popolato perlopiù da pescatori e veterani in pensione, lei aveva trovato un luogo dove fermarsi, dove mettere radici. Mia madre era una donna straordinaria, forte abbastanza da darmi alla luce quando era poco più che una ragazzina, eppur così spaventata dal timore di perdermi da scendere ad ogni compromesso. Mia madre era tutto questo e molto, molto altro, sigillato nei miei ricordi e nelle mie memorie.

L'avevo osservata da lontano, l'avevo sentita piangere nella notte, l'avevo vista pregare le acque e poi infuriarsi, colpire la superficie di quel lago silenzioso e immobile perché le riportasse indietro sua figlia, ma non avevo fatto niente. Niente, sino a quel momento.
Avevo immaginato mille volte di presentarmi da lei con un mazzo di fiori tra le mani e, dopo aver bussato alla porta di casa, salutarla togliendomi il cappello dalla testa dicendo "mamma, sono a casa". In un luogo utopico e ideale, dove tutte le cose vanno per il verso giusto, probabilmente non avrei esitato un secondo a correre tra le sue braccia, ma le vite che Dio ci aveva dato non potevano concedersi il lusso di qualcosa del genere. Non avrei mai potuto presentarmi da lei e dirle quello che mi era successo, non lo avrebbe accettato, non sarebbe riuscita a capirlo. E non lo avrebbero capito nemmeno i suoi vicini, i suoi amici... le avrei semplicemente rovinato l'esistenza. Per cinque, lunghi, anni mi ero nascosta in bella vista nelle taverne, lungo le strade, usando pseudonimi e svoltando nei vicoli poco prima d'essere vista, come una ladra o una spia, nemmeno fosse stata mia la colpa di quello che mi era capitato. Eppure sentivo il bisogno di saperla libera dal fardello, di avere la certezza che il suo amore e la sua gentilezza non sarebbero rimasti relegati ad un doloroso passato.

[ ... ]


Mi fermai sulla banchina, guardando le acque immobili del lago, mentre una piccola barca con due pescatori si avvicinava lentamente. Erano due ragazzi molto giovani, appena giunti in città dopo essere fuggiti dalle campagne di Ladeca, desiderosi di vivere una vita pacifica e lontana da ogni problema. Non erano servite che una buona parlantina, e qualche moneta d'oro, a fare in modo che recuperassero per me i resti del mio corpo dal fondo del lago e, quello, era il loro ultimo giorno di tentativi.
Uno dei ragazzi, in piedi, sbarcò con un saltello atterrando sul pontile. Aveva con sé un sacchetto di iuta scuro e bagnato sulla parte inferiore. Lo guardai attentamente, senza proferire parola, mentre con un colpo tosse il compagno rimasto sulla barca lo esortava a dire qualcosa per primo.

« Signorina Hollern, l'abbiamo trovato. » sorrise, incurvando le guance su cui spuntavano i primi cenni di peluria. « Non è rimasto molto dopo tutto questo tempo, ma l'abbiamo trovato. »
Mi allungò il sacchetto e, con una certa timidezza, lo raccolsi.
« Grazie. Come vi avevo detto la discrezione è fondamentale... »
Il ragazzo sulla barca, girato di spalle ed intento ad assicurare le cime, rispose immediatamente.
« Stia tranquilla, non lo saprà nessuno. »
« D'accordo. » afferrai il borsellino che pendeva dalla mia cintura passandolo ai compagni. « Come pattuito, più un piccolo premio per la riservatezza. »
« È stato un piacere fare affari con voi signorina! » dissero, quasi all'unisono.



Camminai per una mezz'oretta, arrivando al riparo della foresta prima di fermarmi ed aprire finalmente il sacco. Tra le mani tenevo le mie spoglie mortali: il teschio, una tibia, alcune ossa della mano, costole e qualche vertebra risparmiata dal clima e dall'acqua. Non riuscivo a capire ciò che provavo, in un misto di emozioni contrastanti tra disgusto, paura e tranquillità di sapere che, finalmente, avrei potuto chiudere un capitolo della mia vita. Avevo rimandato e nascosto a me stessa quella verità per troppo tempo, illudendomi che le cose sarebbero cambiate e che, presto o tardi, mia madre sarebbe riuscita a superare il suo dolore, ma non era stato così. Appartata tra le fronde c'era la mia giumenta, con al fianco l'ultimo elemento di quel mosaico.
Avevo fatto realizzare da un carpentiere alcrisino una cassa di legno, una piccola bara, dove riporre i miei resti per poterli consegnare a mia madre, per permetterle di seppellirmi e lasciarmi andare. Riposi ogni osso, delicatamente, all'interno, seguendo un preciso ordine logico in modo che l'ultimo elemento potesse essere il cranio, sopra tutto il resto. Era così strano toccare quelle ossa, sentirne la consistenza sotto le dita, l'odore di umidità, percepire la loro stessa essenza, ero io ma allo stesso tempo non ero più io. Il tempo si era portato via anche il dispiacere per quello che era capitato, il senso di odio, la rabbia, la voglia di urlare a squarciagola contro il cielo per quell'ingiustizia... restava solamente la speranza che, una volta fossi scomparsa definitivamente, tutto sarebbe tornato a scorrere nella giusta direzione.
Afferrai il coperchio della piccola cassa chiudendola lentamente.

[ ... ]


Il vecchio Albert era sempre stato un buon amico di mia madre. Un uomo umile, rispettabile, che non aveva mai provato a fare più di quanto gli fosse stato concesso. Si era guadagnato il diritto di vivere gli ultimi anni in pace e serenità dopo aver combattuto in lungo ed in largo per tutto il Dortan ma, cosa ancora più importante, era rimasto un uomo buono sino alla fine. Per questo motivo l'avevo scelto per consegnare la cassa a mia madre. Lo avevo avvicinato spacciandomi per un nuovo pescatore, appena arrivato dalla città, inventando una storia su come avessi ritrovato i resti lanciando le reti e di come, spaventato, le avessi deposte all'interno di quella cassa per conservarle. Albert, che era anche un poco ingenuo, cadde nella farsa, ma comprese immediatamente di chi fossero quei resti. Mi ringraziò per aver confidato a lui la cosa e poi partì immediatamente verso casa di mia madre. Tutta quella segretezza, quelle bugie, tutto per riuscire ad allontanarla da me e dal pericolo che starmi vicino le avrebbe portato. Alcuni potranno pensare che sia stata tutta una follia, una stupidaggine inutilmente complicata, ma quale figlia disgraziata e senza cuore permetterebbe alla madre di vivere nel dolore dell'incertezza? E quale, ancora peggio, la vorrebbe mettere in pericolo dimostrando al mondo intero quale essere abominevole e meticcio avesse messo al mondo, giacendo con un elfo? Dovevo essere dimenticata, per sempre.

A poca distanza, invisibile ai loro occhi, li osservai.
Albert bussò alla porta di mia madre, trattenendo la piccola bara sotto il braccio. Aveva l'espressione grave e gli occhi rivolti al suolo. Quando lei gli aprì, sorpresa di vederlo lui non riuscì a risponderle immediatamente. Potevo solo immaginare quale peso gli avessi accollato, quale responsabilità.

« Albert? » mia madre lo esortò a parlare. « È molto tardi, come mai sei qui? »
« Clara io... » si bloccò un attimo. « ...uno dei ragazzi giù al lago ha trovato questo... » balbettò su qualche parola, allungando la cassa verso di lei. « ...io credo che sia... »
Senza pensarci due volte mamma prese la cassa e la aprì lì, sulla soglia di casa: la sua espressione si congelò, rimase fissa come il riflesso di un dolore infinito allo specchio. Impiegò diversi secondi prima di trovare la forza di domandare, con un filo di voce.
« La mia p-piccolina? » Albert portò una mano sul berretto, scoprendo il capo, per portarlo al petto in segno di cordoglio.
« È tornata a casa Clara. »
E lo ripeté di nuovo, quasi a volerci credere lui stesso.
« Irene è tornata casa. »

In quel momento vidi lo spirito di mia madre andare in mille pezzi, mi parve quasi di sentire il rumore del suo cuore che s'incrinava alla consapevolezza, inopinabile, che non avrebbe potuto più vedere sua figlia. Niente abbracci, niente carezze, niente buonanotte. Cadde tra le braccia dell'anziano che, sforzandosi di trattenere le lacrime la sostenne al meglio delle sue possibilità. Io ero lì, a pochi passi di distanza, nascosta oltre il velo come un'ombra silenziosa a piangere a mia volta.

[ ... ]


Il mattino seguente, in una fredda giornata di fine inverno, i miei resti vennero sepolti nel cimitero locale. Io, sempre invisibile, osservai la breve cerimonia che affidava la mia anima al Sovrano senza riuscire a pensare ad altro che ai momenti passati con mia madre da piccola. Non mi pentivo della scelta fatta, sapevo che era la cosa migliore che potessi fare per lei, ma non riuscivo a perdonarmi per averle comunque fatto male a quel modo. Forse, un giorno, sarei riuscita a perdonarmi, magari quando l'avrei vista con un marito e alcuni bambini. Era tutto quello che volevo per lei, una vita felice, lontano dal dolore e dalla paura che la mia stessa esistenza era stata per diciannove, lunghissimi anni. Clara, rimasta a vegliare la tomba sino all'ultimo, appoggiò una mano sulla lapide.

« Sei sempre stata così vicina... » singhiozzò. « ...se solo avessi saputo dove eri... »
Tirò su col naso.
« Ma ora sei a casa. Sarò sempre accanto a te. »


Prima di non riuscire più a trattenere le lacrime, lentamente per non far rumore sul terreno pieno di rametti secchi, mi allontanai dal cimitero. Lasciai alle mie spalle ogni cosa: casa, famiglia, speranze. Persino il passato. Irene era morta e sepolta, nessuno l'avrebbe più cercata in nessun luogo che non fosse quel piccolo e sperduto cimitero tra le valli. La mia identità sarebbe rimasta per sempre celata dentro quella piccola cassa di legno, custodita da poche ossa intrise d'acqua, silenziose. Ora tutto avrebbe ripreso a scorrere, piano, per il verso giusto e per quanto potesse far male non mi importava, era un sacrificio che dovevo fare, un dolore che dovevo sopportare. E forse, oltre le montagne, avrei finalmente conosciuto la pace di una nuova vita.
Passando per l'ultima volta davanti alla mia vecchia casa staccai un gelsomino dalla piccola fioriera di mia madre, poggiandolo sul balcone della camera dove dormivo da piccola. Fu un qualcosa di istintivo, di non ponderato, volevo solo che sapesse che, anche da morta, non l'avrei mai dimenticata.

beloved_zps7epreula

Avrebbe finalmente smesso di cercarmi.
Era libera.



Volevo raccontare questo passaggio della vita di Allegra, del suo rimanere nell'ombra sempre e comunque, per paura di fare del male alla madre, per paura di rivelarle la sua nuova natura di spettro, per paura che il suo essere mezzelfa la facesse odiare dagli altri. Tanto da spingerla a mutare forma, diventare invisibile e ricorrere a mille sotterfugi per "sparire" dalla vita della madre e liberarla dal "peso" della figlia scomparsa. Spero piaccia.
 
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