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La Gelida Marcia - Peccato e Peccatore., Contest Marzo [Edhel][Colpa]

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view post Posted on 26/3/2016, 01:20
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Cavalier Fata
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La Gelida Marcia ~ Peccato e Peccatrice.
« Io so cosa sei davvero. »

Non avevo una fede, un credo, una legge. Agivo d'istinto, cercando il mio posto nel mondo come una creatura effimera anelante alla sola speranza di guardarsi indietro e vedere un volto amichevole. Il mio mondo si contava giorno dopo giorno, i termini di tempo superiori erano semplicemente inutili, troppo vaghi per poterli quantificare, troppo impegnativi per progettarli. Guardando le valli sotto Lithien, dal balcone del mio piccolo appartamento, tutto mi sembrava minuscolo, poco importante, ma per quanto mi sforzassi di credere che le mie scelte fossero quelle giuste niente, mai, sembrava darmi un minimo di pace. Avevo provato ogni cosa: dai piaceri della vita mondana alla musica di strada finanche a mettermi al servizio delle Lanterne. Ma niente. C'era qualcosa dentro di me a cui non importava quanto io fossi libera o lottassi per ricavarmi un posto, una vita... perché tornavo sempre al punto di partenza.
La verità, pura e semplice, risiedeva nel fatto che io stessa non mi sentivo adatta a ricoprire un ruolo nella società, ad avere amicizie, a meritare una vita felice lontano dal dolore e dalla sofferenza. Ero ingabbiata dai miei demoni, incatenata a mezzo passo di distanza da quello che avevo sempre sognato ma troppo confusa e spaventata per allungare la mano ed afferrarlo. Era come se fossi diventata improvvisamente indegna di qualsiasi briciolo di luce ci fosse nella mia vita. Avrei potuto distruggere tutto di nuovo, ripartire da zero altrove, cambiare per la terza volta nome, forse smettere di fare quello che facevo per vivere... ma poi sarei tornata al punto di partenza, ancora e ancora. Sentire su di sé la colpa di qualcosa che non si è mai davvero commesso, l'inadeguatezza instillata in anni di vessazioni, è un dolore che nemmeno la morte - almeno nel mio caso - era riuscita a portarsi via.

La luce della piccola candela ondeggiò, sin quasi a spegnersi, colpita da un alito di vento gelido. Chiudendo la finestra di scatto, involontariamente, mi ero specchiata sui piccoli pannelli di vetro. Il mio viso pallido, gli occhi smunti e inespressivi, i lunghi capelli scuri che incorniciavano un volto dai tratti accentuati mi turbarono. Soffiai contro la finestra, oscurando quell'immagine con la condensa del mio fiato sul vetro freddo. Odiavo quel volto.
La biblioteca di Lithien stava per chiudere, il sole era calato da un paio d'ore e i custodi iniziavano a riordinare quello che era rimasto fuori posto: di lì a breve mi avrebbero sicuramente chiesto di tornare l'indomani per continuare le mie ricerche. Umettai indice e pollice con la punta della lingua sopprimendo la fiamma della candela sopra il mio scrittoio. L'odore pungente della carta nuova, quello sgradevole della polvere e quello dolciastro del legno si mescolavano assieme a quello della cera formando un'aroma inconfondibile, che trasudava tranquillità. Eppure, sentito le prime due o tre volte, anche quello aveva smesso di essere una fonte di distrazione, di sollievo.
Presi le mie cose, la mia borsa e un paio di volumi che avrei chiesto in prestito, avviandomi verso l'uscita.

Lungo il corridoio che separava la sala di lettura dall'atrio erano stipati vari volumi per la consultazione rapida, molti dei quali sembravano così usati da mostrare segni di logoramento persino sulle copertine in pelle. Altri, per contro, parevano abbastanza polverosi da affermare con certezza che fossero lì da almeno un decennio, intonsi. Da una porta laterale apparve, aprendola lentamente, il volto di uno dei curatori. Era un elfo di bell'aspetto, molto alto, con una corta - ma piena - barba bianca che gli incorniciava il mento e le guance. I suoi occhi vispi e grigi incrociarono i miei immediatamente.

« Mie feasgar, òigh. »
Rimasi interdetta. Stavo iniziando giusto in quei giorni a masticare a stento la lingua elfica, ma dal pronunciare parole semplici come casa o cane a frasi come quella ne sarebbe passato di tempo. Non sapevo cosa dire e abbozzai un maldestro sorriso.
« Custode Faris, mi dispiace non riesco ancora a capire molto bene... »
« Certo che no... » sospirò, accarezzandosi la barba con la mancina. « ...buonasera, comunque. »
« Perché mai un'elfa dovrebbe conoscere la sua lingua, sarebbe riprovevole se accadesse, non trovate? »
Strinsi al petto, con entrambe le mani, i tomi che portavo con me. Era da qualche giorno - da quando si era reso conto che non riuscivo a leggere né il fad né il neamh - che mi aveva presa di mira. Non doveva piacergli affatto, anche se non era il solo, la mia origine meticcia. Io avevo provato in ogni modo a starmene in disparte, a farmi gli affari miei interagendo il meno possibile con chiunque, ma era inevitabile che, prima o dopo, mi avrebbe costretta in quella discussione.
« Oggi sono riuscita a tradurre gran parte di questi volumi, molti avevano anche... »
« Le figure? » sogghignò. « Beh è comunque un piccolo successo imparare a leggere alla tua età... »
Poi, avvicinando la lanterna che aveva acceso per spostarsi nella penombra, osservò meglio i titoli dei libri che avevo preso in prestito. Uno era un elenco delle famiglie elfiche residenti a Lithien e l'altro, ironicamente, il registro dei decessi.
« Letture impegnative vedo. » aggiunse, arricciando il naso in una smorfia. « Leggere qualcosa di costruttivo, invece di lunghi elenchi dismessi? Sicuramente sono datati, quelli recenti li terranno nelle sedi amministrative. »
Annuii. « Sì, è vero, ma io sto cercando mio padre... non so niente di lui sto cercando solo qualcuno che possa essere arrivato qui dal Dortan settentrionale all'incirca ventitré, ventiquattro anni fa. »
Faris rimase in silenzio qualche secondo, scrutandomi attentamente. Sembrava che stesse cercando il modo migliore per dirmi qualcosa di incredibilmente scortese, cosa che sembrava riuscirgli benissimo d'istinto, ma alla fine abbassò la testa, sospirando.
« Ascoltami molto attentamente. » alzò l'indice della mano libera contro di me, indicandomi le orecchie. « Non hai mai pensato che se tuo padre non ti ha cercata, forse, non voleva realmente conoscerti? Volevo dire, se tu fossi mia figlia io non vorrei conoscerti. Non vorrei nemmeno sapere della tua esistenza invero. »
Quel discorso mi indispettiva profondamente ma, mio malgrado, sapevo che era la pura e semplice verità.
« Quindi, prima di metterti in testa di trovare qualcuno che, come ricompensa, ti sbatterà la porta in faccia... potrebbe esserti di aiuto impiegare il tempo in maniera meno stupida. Imparando a parlare, per esempio. »

Quelle parole facevano male, forse non esteriormente, ma nella mia testa erano come continue martellate. Battevano sempre sullo stesso chiodo, risvegliando in me quel dolore mai del tutto sopito di essere diversa. Con un cenno della testa presi congedo, superandolo nel corridoio e accelerando il passo per evitare che gli venisse in mente qualcosa di infame da dirmi. Almeno per quella sera non avevo voglia di sentirmi sminuire.

Uscendo dalla biblioteca, nella strada buia e umida, mi fermai un secondo. Chiusi gli occhi, inspirando ed espirando profondamente, nel vano tentativo di calmarmi e di far scorrere sulla mia pelle quella sensazione di inadeguatezza, di inferiorità, ma non ci riuscii. Sì, in giro facevo la spaccona,indossavo la maschera della ragazza emancipata in grado di affrontare qualsiasi situazione, ma la verità era molto meno romanzesca ed eroica. Nella profondità del mio animo mi sentivo colpevole per ogni cosa, per ogni insulto, per ogni affronto, scappavo o attaccavo proprio come una belva ferita chiusa all'angolo... perché era proprio quello che ero, un'animale figlia di due mondi e parte di nessuno, lasciata sé stessa in balia degli eventi. E dopo anni, anni e anni della stessa storia avevo iniziato a credere sul serio di essere la causa di ogni mio male. Era stupido, folle persino, ma chiunque nella mia situazione l'avrebbe pensato. Sentire come una colpa l'essere nata, essere il frutto di un amore proibito, di un errore, era per me straziante e lo era stato da sempre. La mia vita girava attorno al cercare di rompere l'infinita catena di eventi che mi portava sempre più lontano dalla normalità e sempre più sull'orlo del baratro della disperazione. Non era stato abbastanza, per gli dei, farmi nascere come un incrocio bastardo di due razze, avevano dovuto farsi beffe di me riportandomi indietro dalla morte, probabilmente, per godersi lo spettacolo, su quella strada, di una meticcia che si piangeva addosso. Potevano lasciarmi nell'oblio.
E invece no, ero dovuta tornare come ombra in questo mondo facendomi a immagine e somiglianza degli stressi orrori che imperversavano nell'Edhel. E Dio, Dio solo sapeva quanto mi vergognassi ogni secondo della mia esistenza di quello che ero.

Mi feci coraggio, strofinandomi gli occhi umidi, riprendendo a camminare verso casa.
Nel tragitto mi fermai a prendere un paio di dolcetti alla mandorle in una pasticceria che stava giustappunto chiudendo, arrivando sulla soglia del mio piccolo appartamento pochi minuti dopo. Se non fossi stata già morta, probabilmente, quella cosa che avevo nell'animo, quella sensazione affossante, il senso di colpa, mi avrebbe spinta a togliermi la vita. A chi sarei mancata, dopo tutto? A nessuno.
E quanti, invece, avrebbero gioito nel vedere l'aborto sparire dalla loro vista?
Mi spostai sul terrazzo che, dal secondo piano, dava direttamente a strapiombo sulla parete di roccia sottostante, ammirando il paesaggio. Come avrei fatto ad andare avanti in quel modo? Per quanto tempo avrei potuto continuare a mentire a me stessa, a illudermi che tutto avrebbe trovato una sistemazione? Guardando in faccia la realtà c'era ben poco che potessi fare: ero quello che ero e, quel che ero, era sbagliato. Anche facendo i capricci come una bambina, battendo i piedi ed urlando, le cose non sarebbero cambiate. La gente non avrebbe smesso mai di parlarmi alle spalle, di additarmi... e nell'ipotesi utopica che un giorno, dopo anni di tormento, fossi riuscita a farmi accettare, qualcuno avrebbe scoperto del mio piccolo segreto, del mio essere un'ombra. E tutto, di nuovo, sarebbe ricominciato. Non avevo la forza di combatterlo in eterno, non da sola perlomeno. Avevo persino mentito a mia madre uscendo dalla sua vita perché non riuscivo a far altro che sentirmi responsabile per il suo dolore, come se la mia nascita le avesse causato solamente sofferenza e problemi. Mi ero spinta sino nell'Edhel alla disperata ricerca di una famiglia che, probabilmente, non avrebbe mai voluto saperne nulla di me, né allora né mai, perché ero un difetto nella perfezione.
E anche quei pensieri che si susseguivano, uno dopo l'altro, nella mia testa non erano altro che un eco, il sintomo di una cancrena che non riuscivo ad amputare da dentro di me.
L'indomani il sole sarebbe sorto nuovamente e io, proprio come nel teatro del dramma, avrei indossato la mia maschera da coraggiosa donna indipendente, perseverando nel cercare quelle risposte che, in coscienza, sapevo mi avrebbero solamente causato più male che bene. Come un ciclo che gira e sempre si ripete, all'infinito.

Rientrai, portando una sedia vicino alla terrazza, per starmene al caldo senza rinunciare a quella vista. Sapevo che il problema era tutto nella mia testa, che sarebbe bastato un niente per riuscire a buttarmi alle spalle certe malelingue, certi sguardi. Eppure non ci riuscivo, facendomi continuamente del male nel disperato tentativo di trovare una soluzione a un problema che, forse, non c'era mai stato.
Quella era la mia vita: potevo accettarlo e convivere con i dati di fatto, oppure continuare a frignare ogni notte guardando fuori dalla finestra, come se la risposta ad ogni mio problema si trovasse là fuori, sulle creste dell'Erydlyss.
Mia madre, da piccola, mi diceva sempre una cosa: "Chi è causa del suo mal pianga se stesso."
E nella penombra di quella stanza avevo molto per cui piangere.

[ ... ]

Toc! Toc! Toc! Toc! Toc!

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Mi svegliai di soprassalto, dopo essermi assopita, sentendo il rumore sordo di qualcuno che bussava insistentemente. Era quasi mezzanotte e nessuno mi aveva mai cercata a quell'ora: afferrai la pistola dalla fondina dentro il cappotto, avvicinandomi alla porta. D'improvviso il rumore si fermò, esattamente come era arrivato e, dallo spioncino, non vidi nessuno. Provai anche a chiamare un paio di volte a gran voce ma non ci furono risposte dall'esterno.
Lentamente, con l'arma puntata, aprii.

« Se è uno scherzo finirà molto male! »

Dissi, a voce molto alta, ma non c'era nemmeno un'anima lì fuori.
La strada era deserta e silenziosa, si era persino messo a piovere e l'odore di umidità era aumentato a dismisura nell'aria. L'unica cosa diversa era una lettera, abbandonata sull'ultimo gradino del mio portico, che recava un sigillo di ceralacca privo di blasone, quasi come se la cera fosse stata semplicemente fatta colare sulla carta senza voler specificare il mandante. La raccolsi in fretta e furia, tornando al sicuro dietro la porta di casa in meno di un secondo.
Senza troppe cerimonie spezzai la cera aprendo la busta, rivelandone la lettera celata all'interno. Era di carta pregiata ma il contenuto si riduceva ad una singola frase, scritta al centro, con una calligrafia sinuosa e priva di imperfezioni. Leggendo quelle poche poche parole mi si gelò il sangue.

So cosa sei. Tu sei il peccato, tu sei la peccatrice.
H.


Quella notte non avrei chiuso occhio per ben più di un motivo.


Eccomi qui! Volevo introdurre una cosa che, in passato, avevo solamente accennato, ossia il senso di colpa che è stato instillato ad Allegra per via delle sue origini. Mi piace raccontare piccoli pezzi di background così e spero che possano piacere anche ai lettori! L'ultima parte è tronca perché vorrei fosse il preludio a una parte di storia che scriverò a breve^_^
 
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