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Falene, Contest Luglio 2016 - Anarchia

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view post Posted on 20/7/2016, 12:58
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Bigòl
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Falene
Contest di Luglio 2016 - Anarchia


La folla, il clamore, la luce gli sfilano accanto, senza sfiorarlo. Il liquore lava via tutto, dissolve lo strepito come in un sordo, indolente sciabordio di risacca. La taverna è piena oltre le proprie capacità; anime perse ed ombre felici danzano insieme, pestando i piedi e cozzando i boccali. Uomini alla deriva, naufraghi della risata; uomini liberi d’essere per una notte sola, il cuore intinto nel vino e l’anima leggera. L’aria è greve, impregnata dell’afrore dei corpi accalcati e dall’assito si solleva un tanfo di fasciame marcito. Di tanto in tanto un’ostessa dai fianchi imponenti si fa largo attraverso la calca e gli rabbocca il bicchiere. Lui getta in gola il vino d’un fiato, senza aspettare che quella sparisca nell’oscillare del buio; gli occhi della donna lampeggiano spazientiti mentre torna a versare vino nel calice; lui le sorride, o tenta di farlo: un sorriso mite, rassegnato, più uno scoprire di denti con poco da trasmettere. Il liquore gli scorre nelle viscere, evanescente come fuoco; sembra avvolgergli l’ anima ed quietare ogni suo peccato. La luce grassa e curva delle lampade e le sagome danzanti e le voci e le grida, tutto vibra e pulsa, oscilla come su un grande naviglio dalla pancia ampia e nera. Sente di avere bisogno di fare chiarezza; sa che l’ alcol crea spazio dentro e chiarifica e per questo beve; beve senza voluttà né gioia. Non si sente niente in particolare: non è triste fino in fondo, non è arrabbiato, né deluso, né impotente fino in fondo, ma avverte tutto ciò aggrovigliarsi in lui, come una matassa senza bandolo che tenta di svolgere. Poi la sbornia si gonfia come una marea scura, penetra silenziosa tra le ossa. D’un tratto si ritrova sbronzo sin sopra i capelli. Davanti a lui, al centro del tavolo circolare, una candela di sego spande un chiarore ambrato; la luce gli erra morbida sul viso, rivelando profondi solchi sulla fronte e lungo le gote. Sta pensando, Jovil; o meglio, raccoglie frantumi di pensiero e tenta di cavarci qualcosa di buono. Alza lo sguardo e vede uomini che se la spassano beati, bevendo, ingiuriando, facendo il filo a puttane di terza mano, e si chiede come mai quella leggerezza di spirito gli sia esclusa. Jovil riconosce in quel brandello di umanità un desiderio remoto, morboso, ma non sa dire. Beve ancora, un lungo sorso. La luce in capo alla candela si affievolisce tremolando; a Jovil pare sgretolarsi. Ora vede con chiarezza che quelli, tutti loro, che ballavano, schiamazzavano e brindavano con gran clangore, sono uomini in fuga, proprio come lui. Riconosce nei loro i suoi stessi occhi, guizzanti e bui di un tormento impalpabile che gli galleggia nella anima. Eppure sono diversi, lui e loro: lui non riesce a divertirsi ed a stare bene e beve quasi per non sentire più, mentre loro se la spassano alla grande ed allargano ebbri sorrisi. Loro hanno un lavoro, una buona moglie, qualche piccola replica di se stessi che gli ruzzola tra le gambe quando tornano a casa: quella serata di follie è per loro una tregua che li solleva dagli obblighi e dalle responsabilità. Lui ha sotterrato tutto ciò in profondità già tempo addietro … un pugno di calce viva … niente famiglia, niente lavoro, niente di niente tra le mani. È questo che gli manca, per essere completo e felice? Gli manca davvero quella famiglia che non ha mai desiderato? Vuole solo tornare alla casa di suo padre? Ode il gorgoglio del bicchiere ricolmo e vi si getta sopra con disperazione.
La nebbia nella sua testa si dirada un poco ed ecco che ritorna a vederci chiaro. Ecco che scruta negli occhi di quegli uomini e vi riconosce, o gli pare di riconoscere, il riflesso della paura. Era gente scontenta, timorosa, succube. Forse a sentire qualcosa vi hanno rinunciato tempo fa. Si sono amalgamati alla grande convenzione di quell’epoca ed hanno timore che essa possa prendere il sopravvento su di loro. Si sono ammogliati ed hanno procreato, hanno provato o finto di provare amore per i loro, hanno costruito famiglie. Forse si sentono schiavi. Schiavi della consuetudine? Forse, non lo sa. La luce della candela si fa più intensa, il sego comincia a colare lungo i bordi, lento e molle. Nella penombra di quell’ angolo della taverna cominciano a muoversi le falene.

Farfalle pallide … sembrano nate dalla farina. Jovil ne segue assorto la danza di una; scompare e riappare alla luce della candela.

L’ uomo non è fatto per stare in gabbia. L’uomo non vive in cattività. Non ci sono gioghi, catene o ceppi. È un concetto mentale, sì. La schiavitù di lasciare la decisione agli altri; la schiavitù di non assumersi alcuna responsabilità di ciò che si perpetra. La costrizione non è una condizione ideale per nessun essere vivente. Non si può indurre la pianta a crescere tirandola dalla sommità. E quante cose siamo costretti a fare, a quante insulse regole chiniamo il capo, pur di perpetuare i nostri errori.

La falena volteggia attorno alla fiamma, le ali soffuse di rosso; Jovil ne rimira il volo con apprensione; si avvicina sempre di più al cuore del fuoco. Stai lontana, piccolina. Sciò. Stai lontana.

Gli uomini si danno leggi; questa sembra la loro principale caratteristica. Non solo i codici scritti, fragili e leggeri come le stesse penne che lo hanno redatto, che tramontano con il tramontare del potere che li esercita, ma soprattutto il codice morale, le convinzioni tramandate di padre in figlio, di generazione in generazione, che plasmano l’uomo più in profondità di qualsiasi norma scritta. Ecco che l’ etica comune impone di costruire una famiglia, di avere dei pargoli, di essere docile, umile, compassionevole con i propri simili. Il giogo si stringe sino a strozzare il fiato. Gli istinti che ci ruggiscono in petto sono pallidi fantasmi, falsità, oppure peccato, perché no? È la legge, la consapevolezza morale a rendere l’uomo a se stesso, a sagomare un'identità. Senza i suoi consimili, senza un codice che lo definisca riga per riga, l’essere umano è poco nulla, il profilo di un'ombra.

La falena disegna cerchi sempre più stretti attorno alla luce; Jovil comprende che ne è in qualche modo indissolubilmente attratta. Come se la falena non esistesse oltre la soglia della luce. Come se lui e la falena fossero accomunati dallo stesso destino ...

Jovil si regge il capo con ambo le mani: si sente la testa di svariate taglie più grossa ed avverte che deve sostenerla, altrimenti potrebbe cascare dal collo. Infila riflessioni senza senso una dietro l’altra, come in una collana di perle. Possibile che non si possa vivere al ritmo di un tamburo diverso? Possibile che nessuno segua ciò che gli erompe da dentro, l’ ansia di vita, la paura? Si sta comodi ed al sicuro nelle proprie piccole convinzioni e non si spinge lo sguardo oltre, mai. Il pregiudizio è un agio che pochi si negano. Scaldarsi al fuoco dei sogni degli altri ed ignorare i propri.

La falena rotea convulsamente, più vicina alla fiamma che mai. Jovil si riscuote dal torpore, soffia lievemente, quasi sovrappensiero, e la fiamma si spegne in sottili dita di fumo. La farfalla notturna torna illesa nel buio da dove proviene. Sciò. Vai per la tua strada. Brava, così.

I canti e le danze sciamano pian piano in un basso brusio; gli ultimi avventori stanno lasciando la bettola. Jovil è frastornato, i gomiti appoggiati al tavolo; capisce di essere una farfalla notturna. Attratto anche lui dalla luce fatale; attratto dalla gente, dalle consuetudini, da una pesante maschera da indossare. Sa che per riuscire a vivere la strada da seguire è un'altra. È una via remota, difficile e sbagliata, ma l’unica possibile. La pista anarchica.
È un nomade ormai da diverso tempo, e nomadi sono i suoi pensieri, e nomadi i suoi desideri. Nessuna verità accomodante esiste, così come non esiste una via regia da percorrere per incontrarla. Per questo aveva ancora senso continuare a fuggire, ad accettare la vita, tentare di cavarci uno scopo ...

L’ ostessa lo scuote con vigore, furente. Il padrone della locanda accorre insieme ad un paio di garzoni, osservando la scena con le mani puntate contro i fianchi. Accanto al boccale di peltro vuoto Jovil Varlamovich Bykov se la dorme della grossa. È ormai giorno ed il cielo è gonfio di nuvole. Il Senzaterra non si sveglia nemmeno quando i due garzoni se lo caricano in spalla per gettarlo fuori dalla locanda. Al contatto violento con il fango e la polvere, Jovil finalmente riprende conoscenza. Sputa la terra raggrumatasi nella bocca e stira le ossa, confuso, sporco e dolorante in ogni angolo del corpo. Si rialza. Il sole filtra pallido attraverso la cortina di nuvole. Ancora un giorno per la strada; ancora un giorno di vagabondaggio, speranze tradite, sconforto e bestemmie al firmamento. Ma ancora un giorno, per quanto penoso potesse essere.



Lo scopo del contest è in primo luogo definire meglio il mio pg dal punto di vista introspettivo. Jovil è un vagabondo, che per quattro anni ha vissuto da solo, nelle foreste e sulle montagne dell'estremo nord del continente. Il contatto con la collettività ha un forte impatto su una personalità come la sua, che ho provato a descrivere avvalendomi del concetto di "Anarchia". Quindi, il concetto di anarchia che ho tentato di sviluppare non è correlato alla posizione politica (o antipolitica, che dir si voglia) a cui comunemente si associa il termine.
L' "anarchia" è avvertita dal mio personaggio al contempo come condizione interiore ideale a cui tendere - vale a dire il mezzo con cui conseguire una ricerca della propria autentica identità, lontano dalla società degli uomini e dall'assoggettamento al senso comune, quindi una ribellione al potere costituito dalle grandi consuetudini- e come fardello gravoso, poiché isola Jovil dai suoi simili. A questo proposito, il testo si sviluppa all'insegna del paragone tra Jovil, solo eppure attratto dalla società ed il contatto con gli uomini, e una falena attratta dalla luce della candela sulla sommità del tavolo: come per la falena rispetto alla candela, l'avvicinarsi troppo alla società degli uomini significherebbe la rinuncia di Jovil alla vita.
L'anarchia è ciò che spinge il singolo individuo al conflitto con il mondo degli uomini, ciò che gli permette di avvertire la propria diversità, una pulsione interiore.

Ho cacciato questi pensieri nella testa di uno Jovil ubriaco fradicio sia perché mi attraeva l'idea di cimentarmi in un elaborato più sperimentale per quanto riguarda la forma,sia perché (se davvero il concetto di Anarchia come inteso nel post è passato) non avrei saputo passarlo in altro modo se non attraverso le parole di un ubriaco. Il mio rimane un primo, pallido tentativo di scrivere un contest e non mi aspetto nulla(ad essere sinceri, una parte di me non è molto soddisfatta del risultato ottenuto). Spero che il post si sappia difendere da solo, tutto qui.


Edited by Farka. - 25/7/2016, 11:59
 
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