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Energia arcana 0 - il folle

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Farka
view post Posted on 16/8/2016, 23:01 by: Farka
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Bigòl
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Energia Arcana 0 - Il Folle

I


“Ricordati di dimenticare la paura…”

La giungla era un soffocante viluppo di tenebre. Marciavano da giorni a tappe forzate per penetrare nel cuore buio della vegetazione, dove la vita proseguiva sottovoce e dai tralci in rigoglio stillava acqua scura. Il cuoio liso degli stivali affondava nella mota nera; il fango lambiva le caviglie ed inzaccherava i vestiti. Una cupola di liane e foglie palmate si allungava nel fitto della giungla, coprendo il sole ed il cielo. La compagnia guadava stagni paludosi ed aggirava intrichi di radici che si sollevavano dalla terra, antichi quanto il continente; non accennava a fermarsi sino a che la vista non era del tutto interdetta dall’oscurità.
Gli uomini erano scontenti e a disagio: si lamentavano quando arrivava il momento di smontare il campo, si lamentavano durante le ore di fatica, di nuovo si lamentavano quando dovevano stabilire i turni di guardia e preparare tendaggi per la notte; Jovil non ricordava di aver mai udito tanti piagnistei nemmeno da lattanti in fasce, ma si era convinto presto che da uomini di quella pasta c’era poco da aspettarsi. Al momento della partenza, quando ancora la compagnia si trovava riunita alle porte di Tanaach, il Senzaterra aveva potuto rendersi conto della gente con cui nei giorni a venire avrebbe dovuto condividere tutto, dal cibo all’aria che respirava; da quel primo esame non era uscito per nulla rincuorato: le reclute di cui la spedizione si componeva erano, con poche eccezioni, poco più di una masnada di tagliagole e ladruncoli da bisca, topi di città che una volta alzato il muso dal piscio della suburra perdevano la bussola e commettevano idiozie su idiozie tali da mettere in pericolo l’impresa e chi si trovava a farne parte.
Non che Jovil si considerasse tanto migliore di quella torma di disperati, ma almeno era certo di saper passare una notte all’aperto senza che le bestie gli mangiassero il cuore. Il Senzaterra taceva per la maggior parte del tempo, sia in cammino, sia una volta preparato il bivacco; schiudeva le labbra per sputare o bestemmiare. Sentiva di non avere nulla da spartire con quei compagni occasionali e non credeva che la storia della sua vita potesse essere un importante argomento di conversazione attorno al fuoco, al contrario di molti laggiù. Dopo giorni di cammino senza posa, in cui solo la penombra che filtrava dalla volta verde permetteva di distinguere il giorno e la notte, Jovil cominciava a convincersi di essere incappato in un’enorme fregatura. Una spedizione d’esplorazione un poco rischiosa ma molto remunerativa, con queste parole l’aveva definita Kudin di Qashra; il rigattiere che stazionava ad ogni luna nuova nell’angolo più sordido del Mercato di Ladeca lo aveva invitato a chinarsi, si era sporto su quelle sue piccole gambe scricchiolanti e, le labbra del nano protese sino a sfiorare il lobo del suo orecchio, aveva pronunciato le due sole parole capaci di risvegliare il suo interesse nelle cose del mondo: soldi facili. Eppure sentiva in ogni fibra dolente della sua anima di starsela guadagnando quella fottuta pagnotta. Aveva il cuore intatto ed il corpo abituato alle privazioni della vita nei boschi; sapeva procacciarsi cibo e acqua ove necessario ed in generale rimediava da sé alle proprie mancanze, senza dover nulla a nessun altro. Ma la giungla non concedeva nulla agli stranieri.
Quello che poco dopo essersi inoltrati dove il fogliame infittiva era una stupida suggestione, ora era una serpe nera che gli succhiava il cuore. C’erano orecchie, nella giungla, che ascoltavano il rintocco di ogni loro passo. C’erano occhi, nella giungla, che guardavano, guardavano sempre. C’era qualcosa nascosto nel vento che geme tra il folto degli alberi, come il fioco lamento di un vecchio; qualcosa che conosceva solo la tenebra, la tenebra che ascolta e non parla mai. Il tormento si dibatteva nel fondo delle sue viscere quando chiudeva gli occhi, come se volesse bucargli il costatato e strisciare lontano.

“Ricordati di dimenticare la paura…”

Ripeteva dentro sé; gusci di parole vuote, reliquie di un passato che non lo accompagnava più. Biasimava se stesso e la sua codarda memoria per aver disseppellito ogni sillaba di quella frase, eppure sentiva il bisogno di custodirla e ripercorrerla a mezza voce, talvolta sorridendo, talvolta corrugando il volto, talvolta mescolando il suo silenzio a quello degli alberi e della terra attorno. Perché aveva paura, Jovil, ma aveva una troppo alta idea di sé e le tasche troppo vuote per tirarsi indietro. Anche gli uomini con il passare dei giorni diventavano sempre più ansiosi e suscettibili, come bestie in gabbia. Passò poco tempo prima che ci scappasse il morto. Fatalità o leggerezza che fosse, una morte senza spiegazione proprio a quel punto del viaggio minò la dedizione di molti. La maggior parte degli uomini nel futuro non vedeva il denaro sonante che spettava loro al momento del ritorno a Tanaach ma riusciva a scorgere solo un tumolo di fango ai piedi degli alberi, una tomba senza nome. Jovil stesso si trovò a considerare se il gioco valesse davvero la candela. Sempre più uomini tiravano le cuoia scossi da fremiti febbrili e la voce di un’epidemia che si stava diffondendo fra i membri della spedizione cominciò a scivolare nei discorsi che si facevano attorno al bivacco. Soltanto Keila, la committente, sembrava non vacillare. Già una volta aveva salvato la riuscita della sua stessa spedizione, lanciandosi sulle bestie che stavano saccheggiando le loro provviste con una prontezza che Jovil di certo non si sarebbe mai aspettato da una che, almeno all’apparenza, sembrava ancora portare tracce di cipria sotto la linea degli occhi. Jovil si sentiva come trascinato dalla caparbietà di quella donna; benché avesse tutto l’aspetto ed il patrimonio di una sofisticata nobildonna, aveva dimostrato di avere più esperienza ed attributi della metà di tutti loro e questo, come era inevitabile, lo attraeva. Proseguì senza fiatare, chiudendo nel petto le esitazioni e la paura. Nei giorni che precedettero l’arrivo a destinazione, la compagnia si sfaldò: provviste ed equipaggiamento di chi aveva deciso di restare erano sparite; la tenebra restava muta ad avvolgere il mistero di quella notte. A quel punto, considerò Jovil frustrato e stordito, tornare sui propri passi era impossibile: niente equipaggiamento per affrontare un ritorno preventivo, niente mappe per ritrovare il tracciato percorso dalla compagnia in precedenza; disperdersi nella giungla era forse la scelta peggiore che poteva essere fatta in quel caso. Contrariato, come in trappola, Il Senzaterra seguì Keila ed i pochi rimasti sino allo scoprirsi del cielo.

La giungla attorno ai ruderi era rada e quieta; sterpi e rampicanti si aggrappavano alla pietra scura del tempio, risalendone le pareti. Jovil considerò incuriosito la struttura, la luce che ne penetrava le crepe, la giungla che premeva all’intorno: quella era la meta della spedizione, il mistero custodito in fondo alla notte, inghiottito dal Plakaar. Si trovò ad ammirarne la geometria semplice e la struttura massiccia ed inusuale, tentando senza successo di interpretare i segni che il passato aveva tracciato sulle pareti. Spostò uno sguardo accigliato sul portale d’ingresso: risultava sigillato, a prima vista impossibile da scardinare; qualche bestemmia dopo, notò una fila composta da tre rocce regolarmente distanziate, su cui era incisa la frase “Uno spirito forte risiede in una mente forte ed in un corpo forte”. Un codice da decifrare; nessun altro indizio a disposizione se non le parole “corpo” “mente” “spirito” riportate sui blocchi di pietra, sotto ogni incisione. La voce di Keila giunse indolente, un lento sospiro.

“Qui sta a voi …”

Una pioggia di sacramenti affiorò sulle labbra di Jovil; di teste pensanti in quella spedizione ne erano rimaste poche e la sua non era certo tanto raffinata da poter risolvere enigmi di sorta. Scoccò un’occhiata in tralice ai compagni rimanenti; fatto salvo un tizio dal volto pallido ed emaciato, nessuno dei presenti pareva sapere il fatto suo. Cominciò ad aggirarsi tra le rocce raspando, tastando, spingendo senza nessun risultato. Si sentiva vulnerabile, goffo e stupido; in lui la pazienza lasciava luogo all’irrequietezza. Le rocce erano la chiave per accedere al tempio, doveva essere così per forza di cose: non si spiegava altrimenti la loro presenza in quel luogo; ma su come interpretare l’iscrizione, potesse marcire nell’abisso dei demoni, non aveva davvero idea. L’impazienza cominciava a sollevarglisi dento, come un grigio maroso, a mugghiare come vento di bufera. In breve si trovò furente come un bufalo di pianura perseguitato da uno sciame di zanzare. Decise in un istante che avrebbe estorto con il ferro il segreto della pietra. Snudò Desperia, da lui inseparabile e solo a lui fedele, nell’atto di vibrare una bordata alla prima roccia a tiro e così sfogare la rabbia che gli era montata in cuore. Alzata la testa dell’arma, Jovil allibì. La roccia aveva preso a soffondere tutt’attorno un leggero lucore; “corpo” diceva l’incisione su di essa. Rivolse un’occhiata incredula alla compagnia, mal celando il proprio stupore. Il funereo uomo che l’aveva accompagnato sino alle soglie del tempio risolse l’altra parte del mistero. Le rocce cominciarono a rilucere di un bagliore accecante e si udì come un cigolio di cardini in lontananza.
Tre incisioni, tre indizi, tre prove. I cancelli del tempio si schiusero, rivelando una bocca di tenebra pronta ad accogliere gli esploratori. Jovil, in palpabile imbarazzo, rideva sguaiatamente e carezzava l’elsa della propria arma, nel tentativo di coprire la propria impulsività sotto una patina di autoironia.

Ora ciò che rimaneva della compagnia si muoveva verso l’interno del tempio; Jovil seguì le loro orme nella mota, lo sguardo rivolto all’arcata del tempio, alle imposte schiuse, all’oscurità oltre di esse. Una vaga inquietudine accompagnava il moto dei suoi pensieri; come se stessero per farsi strada nelle viscere del pesce primordiale che, nel lontano Nord, si credevano grembo di ogni cosa vivente; come se stesse per avvolgerli un’oscurità remota, antica, la stessa di quando il tempo non esisteva ed ogni cosa era imperitura e perfetta.

“Ricordati di dimenticare la paura, Jovil”

All’intorno la giungla taceva.



CITAZIONE
Inoltre varie abrasioni, lividi e cicatrici indelebili hanno insegnato al Senzaterra che un nemico senza armi in pugno è senza dubbio un nemico meno pericoloso; egli è in grado di rendere inutilizzabile o innocuo un equipaggiamento, individuando i punti deboli di un oggetto per intaccarne la struttura con una bordata oppure disarmando i propri nemici.
[ Pergamena del Cacciatore “Distruzione minore”(Natura Fisica) (Consumo di energia Basso)]

La tecnica utilizzata è di Natura Fisica e cagiona un consumo di energie Basso. In confronto avevo scritto diversamente, tuttavia credo che al fine della risoluzione dell'indovinello non vi sia nessun intoppo formale nell'utilizzo della sopra citata anziché della personale a consumo Alto che avevo menzionato nella discussione in confronto. Oltre a ciò, ho presentato la risoluzione di parte del quesito da parte del mio personaggio come un fatto in buona parte casuale perché credo gli corrisponda di più :rotfl: spero non vi siano problemi.

Detto ciò, a voialtri :ponpon:
 
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2 replies since 1/8/2016, 14:10   139 views
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