Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Il lascito degli Dèi ~ l'ultimo Leviathan

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view post Posted on 1/11/2019, 11:17
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Si sedette al piano con movimento discreto. A discapito dell'aspetto burbero, l'uomo dalla lunga barba e i capelli stopposi, raccolti in una coda di cavallo che scendeva comoda sulle larghe spalle ammantate di rosso, sfiorò i tasti con invidiabile leggiadria. Le dita callose si mossero agili, come seguissero uno spartito invisibile, mentre il torso robusto spiccava disarmonico oltre il leggio come una volgare bestemmia durante una cerimonia sacra.
A quell'ora del pomeriggio solo alcuni tavoli dell'osteria erano occupati. I più stettero immobili ad affogare i dispiaceri nelle proprie pinte di birra; giusto qualcuno trovò curioso e al tempo divertente che un galeotto fosse sufficientemente folle o sbronzo da credersi capace di musicare qualcosa di anche soltanto decente.
I suoi occhi, invece, non erano che per lei. Quando entrò i suoi capelli ramati biondo scuro al fuoco delle prime candele parvero brillanti di luce propria; apparve leggiadra dal retro della stanza, muovendo passi silenti fino al fianco del pianoforte, che aggirò dissimulando un ampio abbraccio. I suoi occhi sottili indugiarono sui pochi presenti, mentre il naso tirò su un sospiro a metà tra stupore e inedia, sforzandosi di dipingere qualcosa di leggiadro con le sue mani sottili.
Così agitò le dita nell'aria e al seguito fecero gli avambracci, girando in tondo il busto intero in una melodiosa danza che presto staccò anche i volti più gretti dalla profondità dei boccali.
Loro non potevano vedere la sua sinfonia. Ciò che cantava echeggiava dal suo spirito e prendeva la forma di bellissimi fantasmi.

Era una sua dote particolare, che l'aiutava a muoversi entro un sogno infinito. I fantasmi divennero re e regine, mentre il legno del locale prese le fattezze dei marmi dei castelli più antichi, ove la storia aveva disegnato il loro destino e le infinite battaglie avano riempito i loro racconti.
Danzò attraverso quelle immagini, chiudendo lo sguardo al presente e immaginandosi il passato fulgido di quelle terre.
Un onore per pochi quello di conoscere gli eroi antichi.
Ma lei, in qualche modo, li aveva conosciuti.
E così prestava i dovuti onori.

L'uomo attaccò con la musica e lei intonò il canto, lasciando spazio alla magia.




« Alle rovine del bianco maniero del Re, lei con le ombre danzò... »
« ...dei ricordi perduti e di chi ritrovò... »
« ...e di chi in passato l'amò... »


« Le ombre da tempo lontane da sé, i cui nomi ormai cancellò... »
« ...sulle antiche pietre vorticando danzò... »
« ...e con quei passi il dolore cacciò... »


« E mai volle andar via; mai volle andar via. »
« Mai volle andar via; mai volle andar via. »


« Tutto il giorno e fino a notte danzò... »
« E la neve i suoi passi celò »
« Dall'inverno all'estate, poi l'inverno tornò »
« fino a quando l'effige crollò. »


« E mai volle andar via; mai volle andar via. »
« Mai volle andar via; mai volle andar via. »

« E mai volle andar via; mai volle andar via. »
« Mai volle andar via; mai volle andar via. »
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« Alle rovine del bianco maniero del Re, lei con le ombre danzò... »
« ...dei ricordi perduti e di chi ritrovò... »
« ...e di chi in passato l'amò... »


Si ammonì d'improvviso, ricordandosi di dove fosse. Col medesimo impatto, i fantasmi si arrestarono, scomparendo dalla sua vista.
Solo allora sfoderò le sue pupille di colore diverso in direzione della platea, mentre la voce tremula rimarcò un ringraziamento spaventato e sottile. Di rimando, tutti i presenti l'accolsero in un caloroso applauso, sottolineando quello spettacolo senza tempo con tutto l'amore di cui i loro volti stanchi fossero effettivamente capaci.
Allo stesso tempo, l'uomo al piano si levò in piedi e seguì con un applauso cadenzato e forte. Si sbracciò, emergendo dal seggio coi suoi calzoni strappati e sporchi, riservandole un abbraccio sincero.
« Bravissima Iride » commentò, sinceramente commosso. « Uno spettacolo meraviglioso. »

Dall'altro lato della sala l'oste applaudiva a sua volta, malcelando un'aria sorniona con sorriso compiaciuto e forzatamente onesto.
Poi sollevò un boccale vuoto dinanzi a sé, vorticandolo in direzione della sala « direi di brindare alla musica, che ne dite stronzi?! »
Seguirono urla compiaciute e un nuovi giri di bevute.

« Ehi tu, pianista » fece poi l'oste, in direzione dell'uomo. « Avvicinati. »
Quello lo guardò con un tono di sospetto, congedandosi dalla danzatrice con una carezza sul volto. Torno subito, non preoccuparti.
Poi si concentrò sull'oste. Una testa calva e un viso pieno di rughe lasciavano intravedere la crudezza del suo animo; in quel tempo pieno di guerre e sofferenze si era fatto i soldi alle spalle dei derelitti, di coloro troppo vecchi o troppo malati per partecipare alla guerra, ma non sufficientemente poveri da non farsi scoppiare il fegato per qualche soldo lanciato sul bancone. E lui non aveva mai disdegnato di assecondarli.
« Per voi » disse, strisciandogli cinque monete sul legno sporco. « Direi che abbiamo chiuso, adesso. »
All'uomo bastò mezzo secondo per capire che qualcosa non andava. « Si era detto dieci; e dovevamo cantare fino a sera. » Poi girò il viso verso la finestra sporca, dalla quale si intravedeva ancora la timida luce del tramonto.
« Non saranno nemmeno le sei. »

L'oste lo fissò con un lampo di inedia; poi chiuse le palpebre e fece un profondo respiro. « Senti Frank Smith o come cazzo ti chiami. »
« Mark Smith » lo corresse lui. « E sono un eroe di guerra. » rimarcò.
« Si, come vuoi » tagliò corto l'altro, liquidandolo con un gesto della mano. « Il fronte avanza e hanno imposto la legge marziale; devo chiudere alle otto e - per come vanno le cose - direi che non riaprirò più. »
Poi afferrò uno straccio, pasticciandolo tra le mani ancora umide e lanciandolo verso l'altro lato del bancone con un gesto di stizza. « Quindi, abbiamo chiuso. Tu e la tua ballerina siete bravissimi, ma potete trovare altri ubriaconi da intrattenere da quale parte giù al sud. » Concluse secco, puntando il grosso dito indice contro il petto dell'altro. « Siamo intesi? » grugnì.

L'uomo stette in silenzio, portando una mano all'elsa della spada, nascosta sul fianco sotto la tunica. La danzatrice, poco distante, comprese al volo l'intenzione del suo accompagnatore.
« Andiamo » disse, bloccandogli il braccio proprio un secondo prima che fosse troppo tardi. « Troveremo un altro posto. »
Non disse nulla. Poi uscirono.

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Il lascito degli Dèi ~ L'ultimo Leviathan

Ladeca
Capitale di regno


« Che figlio di puttana » sbottò, sputando catarro sul pavimento lastricato. « Che figlio di una gran puttana. »
L'uomo cadenzò il passo con rabbia, fermandosi dopo ogni secondo per rimarcare una qualche bestemmia ai danni dell'oste. « La guerra avanza e noi ne facciamo le spese. »
La danzatrice s'era chiusa nel suo cappotto di stoffa spessa, nascondendo la pelle chiara e le braccia esili quasi se ne dovesse vergognare. Anticipava il passo del suo accompagnatore di almeno mezzo metro, sentendo il bisogno di prendere le distanze in quel momento di rabbia. Testa bassa e occhi puntati sul fondo della via, dove non vedeva l'ora di scomparire.
« Ti rendi conto quanto è stato stronzo? » Chiosò ancora l'uomo, tenendo strette quelle cinque monete che gli sembravano ancora troppo poche.
Nel mentre, la via principale si svuotava dei mercanti del mattino. I più chiusero bottega anche prima del tempo, serrando a doppia mandata l'attività senza sapere se avrebbero riaperto il giorno dopo. Una matassa di formiche spaventate, che correvano in ordine sparso verso un nuovo rifugio, quasi si stesse avvicinando la propria fine.
Girato l'angolo, l'uomo non sembrò calmarsi affatto. « Dovrai pensare qualche altra storia Iride; dobbiamo ampliare il repertorio. »
D'improvviso la donna si bloccò, quasi avesse udito una bestemmia. Si voltò a fissarlo, con sguardo torvo e l'altro parve più stupito che spaventato dalla cosa. « Non sono storie! »
« Sono cose accadute veramente » chiosò, sbattendo un piede contro la strada. « Le ho lette nei libri; le ho anche viste! »
L'uomo rimase immobile a fissarla. Poi trattenne una risata, portandosi una mano alla bocca. « Come vuoi, bellezza. Puoi vederne altre, allora? »
Lei stette in silenzio, sbuffando indispettita. « Tu non mi prendi sul serio, Mathias. »
All'udire di quel nome l'uomo sussultò, portandosi un dito sulla bocca. « Zitta, maledizione! » chiosò, visibilmente spaventato. Poi si guardò intorno, controllando che nessuno li avesse uditi.
« Sono Mark Smith, te l'ho detto! » aggiunse. « Mark Smith è morto da diversi anni! Lo sapresti se avessi studiato un poco di storia! » rispose lei.
Poi incrociò le braccia, visibilmente contrariata. « Perché non ti arruoli e parti per il fronte, come tutti gli altri? » Sentenziò voltandogli le spalle. « Posso cavarmela anche da sola! »
L'altro si fece scuro in volto, trattenendo un ruggito di rabbia. « Perché quando ti chiami Mathias Sebastian Lorch e sei figlio di un tiranno sanguinario, non è facile trovare posto nell'esercito » concluse, serio. « Sarei morto prima ancora di scendere in battaglia. » Tagliò corto.
Nel mentre, ai margini della strada li fissava un mendicante. Teneva le gambe incrociate sul ciglio della via e coi piedi nudi bagnava la sua stessa urina; nel mentre il torso smunto e nudo reggeva a fatica una testa ciondolante, coi capelli sporchi e puzzolenti che gli coprivano quasi totalmente il viso. Preda di un torpore atavico cagionato dall'inedia, a fatica notò i due bisticciare poco distante da sé. L'istinto fu lo stesso che lo prendeva da diversi anni a questa parte, nel tempo in cui in quelle strade di persone se ne vedevano a frotte. Allungò una mano ossuta, aprendo il palmo.
« Vi prego, una moneta. »

Mathias non ci fece nemmeno caso, continuando a concentrarsi sulla sua preziosa accompagnatrice. Iride, invece, notò qualcosa. Fu come un lampo che le balenò in viso, riempiendo il suo sguardo di rinnovato orgoglio.
Comprese qualcosa come l'altro non avrebbe mai potuto fare. « Dammi » disse, in direzione di Mathias.
« Che? » questi cambiò tono, fissandola adesso con molto più stupore. Poi si girò verso il vagabondo e gracchiò un'acida bestemmia di rimando. « Ti prego Iride, non vorrai davvero...? »
« Quei soldi sono anche miei » ribatté lei, con la battuta già pronta. « Dammi, ora. »
L'uomo attese qualche lunghissimo istante, incredulo. Poi scavò nella tasca. « Per tutti i draghi di Terra Grigia. Maledizione! » E le allungò tre delle cinque monete guadagnate nel locale.

Con passo leggiadro, la donna si avvicinò al vagabondo. Lo colse con amore, carezzandogli la testa sozza con un gesto di affetto.
« Questi sono per te » disse, riempiendogli la mano con le monete. « Ritorna padrone del tuo destino. »
L'uomo le fissò per diversi minuti, contandole più volte. Incredulo, tornò a guardare la donna per ringraziarla. Ma i due erano già lontani.

Quel gesto ruppe un incanto. D'improvviso, il vagabondo si levò dal suo posto e si rese conto che quelle tre monete potevano essere il principio del suo nuovo domani; il suo fato era stato avvinto dalla sfortuna e dall'ignominia, ma se una donna sconosciuta poteva intravedere il suo orgoglio oltre la coltre di pattume dietro la quale si era nascosto, forse tutto non era ancora perduto.

« Quanto tempo è passato, Comandante? »

Fu allora che lo vide.
A metà del vicolo, dove fino a un momento prima c'erano i due avventori, ora si stagliava una coltre d'ombra. Fu come se d'improvviso fosse calata la notte fonda intorno a lui e finanche l'aria che lo circondava aveva smesso di muoversi per comando e ordine di ciò che gli si era parato innanzi.
Era una figura ammantata di scuro, con un pastrano color pece che ricopriva il suo corpo fino al fondo, nascondendogli finanche i piedi. Oltre il cappuccio nero poté scrutare soltanto due occhi rugosi e bianchi, diafani, che lo trapassarono da parte a parte peggio di un freddo coltello.
Il vagabondo si spaventò talmente tanto che dovette indietreggiare qualche passo, fino a scivolare sul suo stesso piscio nel punto esatto da cui si era alzato qualche istante prima.

« Il gesto amorevole di una sconosciuta ha risvegliato finalmente il tuo orgoglio smarrito. » Parlò ancora la figura. « Da quanto tempo non accadeva? »
La sua voce proveniva da ogni direzione e da nessuna in particolare. Era un incedere cadenzato quasi profetico che parlava direttamente al suo cuore, come se quell'essere potesse scinderlo fino al profondo.
« C-cosa vuoi? » Ribatté il vagabondo, cercando di scomparire nel terreno sotto di lui.
« Puoi chiamarmi Haym » disse la creatura. « E so benissimo chi sei. »

Il vagabondo scivolò ancora più indietro, trovando l'opposizione del muro freddo del casolare di fianco. « I-io n-non sono nessuno » balbettò.
« Davvero? » Chiese la figura. Avanzò come un'ombra, sorvolando il creato come uno spirito immateriale. « Tu eri un fiero comandante; un giorno hai dovuto difendere il tuo re contro un pazzo sanguinario e hai perso. »
Parlò e la sua voce parve tuonare nel suo animo. Il nero del cielo pulsava a ogni sua sillaba e il vagabondo avrebbe voluto piangere e urlare, se non fosse che finanche la voce si rifiutava di essergli alleata.
« Ti ha sconfitto perché ti ha provocato per la prima volta un sentimento tanto ignobile quanto sconosciuto, che non ti ha più abbandonato. » Sentenziò, severo. « Hai avuto paura di lui. »
« Per questo sei fuggito e quell'uomo si è preso gioco di te, inscenando la tua morte per i suoi scopi » aggiunse secco, mentre il vagabondo lo fissava impietrito. « Ma in fondo è come se quel giorno tu sia morto davvero. »

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« Non è forse così, Comandante Medoro? »

Il mondo rimase quasi a guardare, mentre il suono di quella parola suscitava nel vagabondo gli infiniti ricordi che aveva a fatica fatto sprofondare nel suo subconscio. La sfida contro Mathias Lorch, la terribile paura provocata dalla sua risata isterica e il fremito di quella spada che gli trapassava l'anima a ogni sferzata. Poi la fuga tra i vicoli e la diserzione. Così era morto lui.
Così era morto Medoro; in un modo molto più ignobile che in un duello. Il suo onore, non la sua testa, era finita su di una picca.
E da quel giorno non era più stato sé stesso. Da quel giorno l'ignominia era stata la sua identità.

« C-cosa vuoi da me? » Chiese infine.
Non lo vide, ma poté sentirlo sorridere. « Ti do una possibilità. »
Quando parlò, Medoro sentì un lampo sfiorare il cielo e senza che potesse rendersene conto, un fazzoletto di tessuto era apparso tra le sue mani, dove fino a qualche istante fa c'erano soltanto tre monete.
« Il tempo del mondo sta per scadere; ti offro la possibilità di riabilitare il tuo nome, servendo il più grande condottiero che questo continente abbia mai avuto. »
Quando Medoro fissò il simbolo disegnato sul fazzoletto, il suo sguardo vitreo divenne nuovamente fiero e il colore spento delle sue pupille tornò di quell'azzurro cielo che aveva fatto innamorare centinaia di donne.
E spaventato migliaia di nemici.
« Raduna un esercito e preparalo » concluse, secco.

« Il leviatano tornerà per combattere l'ultima battaglia. »


Team Dortan.

Personaggio principale: Medoro
Obiettivo: Medoro è vivo! Haym lo assolda immediatamente come portavoce del loro nuovo esercito, in memoria di ciò che il Leviatano è stato nel passato. Il Saggio, infatti, considera un esercito come quello l’unico in grado di fronteggiare la minaccia che incombe sul continente e crede che Medoro, essendo stato ai diretti ordini del Re che non Perde mai, possa districarsi nella difficile situazione politica del Dortan per riunire i popoli che lo abitano sotto un unico stendardo.
Complicazioni: Il Dortan è sempre stato un territorio che ha rincorso il potere, la supremazia; negli anni, infatti, la situazione si è trasformata in una moltitudine di piccoli regni sempre in conflitto con gli altri. Come può il vecchio capitano delle guardie, creduto morto, radunare un esercito sotto il nome del tiranno che ha portato alla distruzione dell’Impero?
Note: Vietato l’utilizzo delle Rovine di Basiledra - non dell'intera regione, ma solo delle rovine in sé.

Dieci giorni a partire da oggi, con termine l’11 Novembre 2019 alle ore 12:00.
Per qualsiasi dubbio, utilizzate il topic apposito.
Buon divertimento!


Edited by Räv - 1/11/2019, 11:41
 
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Jecht
view post Posted on 7/11/2019, 22:43




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«CHE PORCHERIA!»
Mandò giù il boccale tutto d’un fiato e batté sul tavolo in olmo con veemenza, sforzandosi a mostrare tutte le rughe che la sua veneranda età aveva racimolato, deciso a palesare tutto il suo sdegno.
«E questo sarebbe il vostro miglior whisky? È piscio di gatto!»
L’oste, d’istinto, usava il vassoio in legno per ripararsi dalla saliva che inevitabilmente usciva dalla bocca dell’uomo, quasi quello scudo dello spessore di un paio di centimetri potesse aiutarlo a placare la sua furia.
«Portamene un barile.»
Concluse infine, con una finta stizza talmente palese da lasciare l’altro completamente spiazzato.
L’oste si allontanò rapidamente provando un misto di intolleranza e sconsolatezza per quell’avvinazzato; certo le quattro monete d’oro che aveva lasciato sul bancone lo avevano aiutato a tener chiusa la fogna o - in altre circostanze - lo avrebbe cacciato fuori a calci in culo.

Quel giorno Jecht era particolarmente guardingo, non faceva che guardare l’entrata ogni qual volta poggiava le labbra screpolate sul boccale. Come se non bastasse, piuttosto che stare a torso nudo come era suo solito fare, era tutto bello imbacuccato intorno ad una vecchia e sporca toga di iuta, una che aveva tutta l’aria di essere stata ricucita sul momento da mani tutt’altro che pratiche.
Sudit, Tidus - o come diavolo doveva chiamare il suo spadone di pietra nera non lo sapeva più neanche lui - era poggiata sul bancone, avvolta in un panno sporco ma abbastanza scoperta da permettere al guerriero di intravedere i simboli rituali raffigurati sul piatto della lama.
«Vedrai, arriverà da un momento all’altro, ho pagato quell’uomo troppo profumatamente per lasciarmi fregare. Tuo padre ci sa fare con queste cose… so che sembro scemo a volte ma tu fammi fare, fammi fare.»
Chiunque conoscesse Jecht da più di una giornata sapeva benissimo quanto lui fosse bravo solo a menar le mani ma, in quelle condizioni, certo Tidus non aveva possibilità di replica.
«Devo ancora parlarti di questo stronzetto ma per ora ti basti sapere che tuo padre ha ancora un conto in sospeso con lui.»
Parlava spesso con Tidus, suo figlio nonché la sua fedele arma. Lui non rispondeva mai ma a Jecht piaceva immaginare le sue risposte e pensare che quelle fantasie che gli arrivavano dritte dal cuore fossero un’emanazione della volontà del ragazzo.
Sorrise, beffardo come sempre, quando due figure fecero il loro ingresso, attirando l’attenzione dei pochi presenti. Jecht coprì Sudit di tutta fretta e - mentre il resto del locale puntava la figura femminile appena entrata, il Berserker aveva occhi solo per l’uomo.
Adesso che si fa? Jecht la immaginò così la domanda del figlio e dunque, a braccio, rispose senza abbassare lo sguardo, con un sussurro pregno di tutte le sue intenzioni.
«Si aspetta, figliolo. Si aspetta.»

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Ladeca
Capitale ~ Vicolo


Lo aveva pedinato a lungo ormai.
Non poteva credere alle sue orecchie quando si era sparsa la voce che Mark Smith, eroe di una guerra impossibile da dimenticare, aveva fatto la sua comparsa in zona. Aveva provato gioia, sollievo nel saperlo vivo così come aveva sentito paura e risentimento all’idea di incrociare il suo sguardo. Nulla, ad ogni modo, era comparabile alla rabbia, alla frustrazione che lo aveva scaldato sin nelle viscere, quando aveva sentito che a sfruttare quel nome, altri non era che Mathias Lorch.
Ogni singola memoria di quel periodo bruciava nella sua mente all’unisono con ciascuna delle sue cicatrici. Persino Sudit vibrava al pensiero ed entrambi non riuscivano a visualizzare altro che la sua gola, sgozzata e al suo corpo che lentamente rantolava nel buio profondo della morte. Quando l’aveva visto, in quella taverna, il suo tremore aveva messo in allarme il vecchio ubriaco seduto a pochi metri da lui e un solo sguardo, carico d’astio e disprezzo, era bastato a zittirlo, affinché la sua copertura non saltasse.
Aveva un compito da portare a termine, un compito impartitogli addirittura da un Daimon, qualcosa che non avrebbe dovuto lasciargli il tempo di chiudere delle faccende personali ma - ad essere sincero - di cosa gli aveva detto Greion non ci aveva capito un cazzo. Aveva blaterato dell’Akeran ma il Berserker non aveva la minima intenzione di abbandonare la sua terra in un simile momento di crisi. Del resto, aveva detto che ovunque fosse andato avrebbe combinato danno in ogni caso e probabilmente, conoscendosi, era vero. Probabilmente, avrebbe cominciato proprio con lo schifoso bastardo che aveva raso al suolo una città, la sua casa.

Lo aveva osservato al pianoforte, con quella fanciulla, a mendicare monete come se un tempo tra le sue mani non fossero scivolate le vite di migliaia di innocenti. Lo aveva visto donare a un bisognoso tre monete d’oro come se bastassero a pulire una coscienza talmente putrida da disgustare gli inferi stessi. Lo aveva seguito e osservato in quel vicolo a lungo, fin troppo per una testa calda come lui. Non poteva aspettare ancora, doveva farlo quel giorno, doveva chiuderla adesso.

«Ci vuole un bel fegato per farsi chiamare Mark Smith. Ma se è di te che si parla, immagino ti sia solo bevuto il cervello, cane.»
Stizzito e provocatorio, sbraitò senza ritegno per il vicolo, incurante di chi potesse esservi intorno. Lo aveva pedinato abbastanza da capire quale lurido stile di vita stesse conducendo e di quanto fosse rimasto solo - donna a parte. Senza il suo branco a fargli da guardia, non valeva neanche il mignolo del fratello.
«Guardati, ridotto ad un randagio. Puzzi come un cane ricoperto di stracci esattamente quanto puzzavi da cane quando sguazzavi nel lusso, Lorch.»
Mathias - che fino a quel momento era rimasto di spalle - si voltò lentamente, osservando la figura imponente di Jecht che lasciava la presa sulla sua toga, mostrando fieramente il suo volto, il suo spadone e le numerose cicatrici tra le quali bruciavano quelle che gli erano state inferte sotto la sua prigionia.
«Bastardo.»
Non si poteva certo dire che tra i due scorresse buon sangue. Entrambi avevano motivi più che buoni per odiarsi a vicenda e la storia non aveva donato a nessuno dei due un finale che potesse essere definito tale.
«Oh, ti sei ricordato di me? Mi scalda il cuore. »
Sornione, Jecht non riusciva a frenare le provocazioni, mentre dal canto suo il digrignare dei denti del Lorch mutò rapidamente in un sorrisetto divertito, degno della zampa destra della Guardia Insonne.
«Non è facile dimenticare il volto di un’idiota disposto a mettere al rogo la sua stessa città pur di vincere un duello che altrimenti non avrebbe mai potuto sostenere. Non facevi tanto il gradasso quando ti sei inginocchiato di fronte a mio fratello, prima di colpirlo alle spalle.»
Non vi erano dubbi che il Lorch fosse ben più sveglio e astuto del Berserker; rigirare una provocazione come quella per lui era come battere un piccione a dama. Jecht accusò il colpo in pieno, indipendentemente da quanto si fosse preparato a sentire quelle parole. Ciò che era successo a Basiledra, le vite che erano state strappate per colpa della sua stupidità, niente di tutto quello poteva essere dimenticato né soppresso.
Deglutì, inghiottendo il boccone amaro e trasformando quei tristi ricordi in carburante per la sua rabbia. Jecht per primo sapeva quando far infuriare il nemico lo aiutasse a sbilanciarlo ma - quando si ha a che fare con Berserker - la strategia migliore è quella di tenerlo quanto più calmo possibile.
«Mi stai rendendo le cose facili, Lorch. A lungo ho sognato di prendermi la vendetta che mi hai sottratto fuggendo con la coda tra le gambe.»
«Cosa ne vuoi capire tu di strat-»
Mathias non ebbe il tempo di finire la frase che Jecht era già partito, sollevando un polverone con l’impeto dei suoi piedi scalzi. Oh, l’aveva provocato abbastanza e, come già detto, nessuno vorrebbe mai avere a che fare con un Berserker incazzato.
Le vene del guerriero avevano già cominciato a pompare sangue e adrenalina; il cuore accelerava il suo battito, riempiendo le orecchie di un suono che ricordava i tamburi senza riposo dei Pelleverde. Le vene ingrossate facevano capolino sui muscoli mentre la sua mano callosa si stringeva sull’elsa dello spadone, trascinandolo con la punta di pietra a scavare un solco sul pavimento lastricato. Gli angoli del suo raggio visivo si era offuscati, lasciando ben nitide al centro le figure della donna e dell’uomo, chiaro bersaglio della sua foga inarrestabile. All’apparenza poteva sembrare un cavallo imbizzarrito, senza controllo e privo di strategia, un toro che partiva in una carica frontale guidato unicamente dall’istinto. Ma in Jecht, oltre ai riflessi temprati in milioni di battaglie, vi era concentrazione, chiarezza, controllo e una gargantuesca e ferrea volontà di prostrarlo al suolo.

Il Lorch, dal canto suo, era stato uno stratega ben più preparato di lui e gli era bastata una singola occhiata per calcolare con precisione la distanza che li separava e la velocità con cui il guerriero si stava muovendo. In uno spazio così stretto era in netto svantaggio in uno scontro corpo a corpo, ma il fattore sorpresa sarebbe presto arrivato in suo soccorso, grazie alla spada che nascondeva sotto la tunica. Un contrattacco pulito e netto sarebbe stato sufficiente a sgozzare un vecchio e fastidioso nemico; i cani avevano un onore ben più marcato degli uomini e questa era l’occasione perfetta per mettere una croce sulla tomba del fratello. Doveva solo attendere l’istante che divideva la vita dalla morte, intravedere quella linea sottile che si sarebbe manifestata nella sua mente nel momento in cui il Berserker avesse spostato la sua concentrazione dalla difesa all’attacco, sollevando la punta della sua arma dal suolo per colpirlo. Quella, quella sarebbe stata la strada verso il suo collo, il loco in cui avrebbe dato vita a una cascata del lurido sangue di un traditore che aveva osato privare del dono della luce il più grande dei generali, nonché il migliore dei fratelli.
Quando la lama del Berserker si sollevò dal suolo il tempo rallentò, mostrando un quadro di due uomini che incrociavano in battaglia il loro sguardo, attorniati da polvere e ghiaia, illuminati dalla luce ardente del tramonto, adombrati l’uno dalla figura dell’altro, manifestazioni concrete di un desiderio omicida, macchiato tanto dall’onore quanto dall’odio. Quel momento, unico del suo genere, si spezzò allo sgranarsi degli occhi di Mathias, quando vide la figura del suo nemico sparire letteralmente di fronte ai suoi occhi, mentre la sua lama affondava nel vento, incapace di trovare la materia della carne, né il calore del sangue. Rimase atterrito per un solo istante, consapevole che non ne avrebbe avuto in dono un secondo. Sentì la morte sovvenirgli alle spalle, inevitabile, insindacabile, risolutiva. Parò il fendente con la spada ancora infoderata e non ebbe il tempo di godere di quella fuga dalla morte che un secondo colpo arrivò dal lato opposto. Furono solo i primi di una lunga sequenza sgualembri, la cui intensità aumentava di volta in volta, fino a strappare ogni tessuto dei suoi muscoli, fino a piegargli le ginocchia, fino a prostrarlo così come Jecht aveva voluto dall’inizio.

Inerme, Mathias Lorch era in ginocchio, tremante, con il mento basso e i capelli unti dal sudore a coprirgli gli occhi. Alzò lo sguardo per ammirare l’imponenza di un guerriero capace di piegare chiunque sotto la pressante forza della sua rabbia. I suoi occhi, illuminati dal sole di una luce sinistra, parevano quelli di un demone mentre sollevava il suo spadone, pronto ad assestare il fendente che avrebbe messo fine a quel risentimento durato anni.
La donna, che fino a quel momento era rimasta in disparte, fece un passo indietro mentre Jecht volgeva al suo nemico lo sguardo di chi è pronto a perdonare a patto di prendersi in cambio la sua vita.
Di fronte all’incarnazione della battaglia, il randagio ebbe un’unica, inaspettata, reazione: sorrise.

Il sangue sgorgò lento e caldo.
All’adrenalina si aggiunse il dolore e al dolore seguì l’impotenza.
Le braccia caddero lungo i fianchi del Berserker e le sue gambe cedettero poco dopo. Il tonfo dello spadone che cadeva al suolo echeggiò per tutto il vicolo mentre Jecht riempiva la sua bocca di catarro e saliva, sputando al suolo un grumo di sdegno nei confronti del suo avversario.
Quattro cani avevano affondato le loro zanne su braccia e piedi del guerriero, iniettando nelle sue vene un veleno tale da piegarlo. Di fronte a lui Mathias si alzava, facendo calare sulla sua testa l’ombra di una sconfitta che il Berserker non avrebbe mai potuto accettare.
«Adesso mi è chiaro come tu sia riuscito a tagliare il braccio di mio fratello.» Sputò anch’egli, un grumo di sangue, sulla guancia del guerriero, per umiliarlo. «In mischia sei inarrestabile ma ormai è palese quanto tu sia idiota. Credevi davvero che avrei rinunciato al mio branco? Lo sanno tutti che non mi muovo mai senza di loro.» La donna, in silenzio e dal volto insondabile, rimase in disparte assistendo alla scena con una tale vuotezza da rendere impossibile comprendere quanto di tutto ciò le interessasse realmente.

«Sai è da una vita che ci penso e credo proprio che ti farò un dono.»
Mentre le zanne dei cani continuavano ad affondare sulla carne e la loro saliva si mescolava al sangue del Berserker, il randagio strinse l’elsa della sua spada e la tirò fuori dall’elsa di fronte allo sguardo impietrito del Berserker.
La luce che rifrangeva sulla lama argentea di quella spada, accompagnava un lamento sordo e inudibile da chiunque non conoscesse la sua storia. Si trattava di Angelica, la spada che un tempo era appartenuta a Medoro, morto proprio per mani del cane.
«Oh, sapevo che l’avresti riconosciuta. È in assoluto il mio pezzo migliore, non me ne separerei neanche se fosse l’unica merce di scambio rimastami per mangiare.»
Nel ricordare Medoro, gli occhi di Jecht si gonfiarono e riempirono di lacrime, per l’immensa soddisfazione di Mathias che assisteva alla scena estasiato.
«Quando gliel’ho sottratta, la sua carcassa era ridotta a mangime per cani. Ho avuto parecchi problemi per questo, sai? Non sono più riuscito a trovare al mio branco un cibo così saporito. Lo amavano proprio tutti quel Medoro… che goduria è sta-»
La gola gli venne aperta ancor prima che potesse pronunciare l’ultima sillaba..
Ancora una volta, il corpo di uno cadeva e quello dell’altro si rialzava.

Agitando gli arti, Jecht si liberò uno ad uno della presa dei cani che vennero sbattuti alla parete più vicina, lasciandosi alle spalle un guaito strazziante. Si rialzarono tutti per controllare la sorte del loro leader, prima di abbandonarsi ad un ultimo ululato e poi scappare.
«Avresti dovuto accettare la morte che avevo scelto per te, eri già caduto abbastanza in basso prima ancora di chiamare i tuoi cani.»
Fin da piccolo, il corpo di Jecht era stato riempito di veleni e parassiti di ogni genere dal clan dei Berserkgangr; aveva sviluppato un’immunità a quasi tutti i veleni naturali, incluso quello paralizzante con cui il Lorch era solito armare i suoi cani.
In tutta la sua stazza, l’uomo si asciugò le lacrime col dorso della mano, chinando il volto verso la vittima per un ultimo saluto, saluto che non era rivolto al Lorch, bensì a Medoro. Raccolse Angelica con la grazia che si riserva ad una reliquia e la ripose nel fodero, pronto a portarla con sé per onorare la memoria del guerriero che lo aveva accolto a Basiledra.
Lo sguardo dell’uomo si spostò dunque sul volto della donna che a sua volta si congedò con un cenno del capo, come se nulla di allarmante fosse appena accaduto.

Mathias non era morto, rotolava al suolo stringendosi con entrambe le mani la ferita, cercando di frenare la fuoriuscita del sangue.
«Non meriti la morte, sarebbe una grazia che non sono disposto a concederti.» Lo sguardava dall’alto verso il basso con un’espressione seria e piatta, di chi ha di fronte meno di uno scarto. «I tuoi cani stanno già cercando soccorso, tieni ben salda la presa su quella gola e vivi… vivi continuando a rotolare nel putridume nauseabondo della tua bassezza. Addio.»

0Ysfnja

Ladeca
Capitale ~ Piazza


«SEI SOLO UN IMPOSTORE, BUFFONE!»
Quando l’aveva sentito non ci aveva creduto neanche per un istante. Prima Mark Smith, poi Mathias Lorch e adesso anche lui, doveva essere una fandonia, senza ombra di dubbio.
«Medoro è tornato! Medoro è vivo!» Avevano detto, eppure giusto una settimana prima aveva sentito il suo assassino raccontare della sua morte. Come poteva essere? Perché rimanere nascosto, all’ombra, spezzando così tanti cuori con la sua dipartita. Non era da lui. Non poteva dire di aver passato con lui chissà quanto tempo ma avevano incrociato le spade e tanto bastava a due guerrieri per scavare nel profondo delle loro anime. Medoro non sarebbe mai fuggito dalla sua vita, non lui che aveva posto il dovere davanti alla sua stessa serenità.

«INFANGHI IL SUO NOME, MERITI LA FORCA!»
Aveva parlato a Tidus di quel ragazzo dai boccoli biondi e dal viso angelico, la guardia del re amata dall’intero popolo; sempre al servizio del regno, con la spada sguainata ad illuminare il sentiero dalla giustizia. Gli aveva raccontato del giorno in cui l’aveva incontrato la prima volta, di quando non era altro che un ragazzino, un fanciullo capace di brandire la spada con un’arte e una maestria tale da far impallidire un veterano. Si era grattato la nuca e le sue guance si erano arrossate quando aveva ammesso di essere stato sconfitto da Medoro al loro primo incontro. Quel giorno gli aveva giurato fedeltà, a lui, non al re; lui se l’era guadagnata con il suo sguardo, con la sua maestria, con la sua mente incrollabile, decisa a portare avanti i suoi obiettivi, a rendere onore a colui che gli aveva dato uno scopo. Quel giorno aveva appreso da un ragazzino una lezione che non avrebbe più dimenticato, di quanto gli ideali, seppur proiettati da una mente contorta come quella di Raymond, potessero donare un potere che i Berserkgangr non avrebbero mai potuto ottenere. Aveva omesso, però, di come Medoro gli avesse ricordato suo figlio, che fosse per il colore dei capelli o per la testa dura come una roccia. Aveva visto il lui un figlio perduto e aveva giurato a se stesso che - quando fosse riuscito a riportarlo in vita - glielo avrebbe fatto conoscere, affinché Tidus potesse vedere con i suoi occhi di che pasta era fatto un uomo... Certo, dopo suo padre.
Eppure, la crudeltà del mondo lo aveva portato via, rapito in un limbo di ricordi e amarezza. Quando aveva sentito la notizia la battaglia infuriava ancora. Mathias se n’era vantato come il cane che era, sventolando la sua testa come un trofeo da guerra. In quel momento, Jecht non aveva memoria del suo scontro con Medoro e forse era stato un bene, aveva potuto mantenere i nervi saldi e la mente lucida. Invece, quando aveva ritrovato i ricordi, ricollegare i pezzi gli aveva inferto una ferita invisibile e profonda: in un certo senso era stato come perdere un figlio per la seconda volta.

E adesso lui era lì.
Davanti ai suoi occhi.


«VOLETE ANCORA STARE QUI A SENTIRLO? QUESTO È UN OLTRAGGIO ALLA SUA MEMORIA!»
La folla era impazzita, il vociare indistinto si accavallava di bocca in bocca. Ognuno si sentiva in diritto di blaterare condanne e insulti. Chi sollevava forconi, chi lanciava ortaggi, chi si abbandonava alle lacrime per i ricordi rievocati. Nessuno gli credeva, in troppi avevano visto quella testa mozzata, in molti conoscevano i sotterfugi della magia illusoria.
Eppure, Jecht lo sapeva, poteva vederlo chiaramente che quel ragazzo non mentiva, poteva vederlo in quello sguardo spento, al cui interno risiedeva il barlume della stessa luce che aveva visto in passato. Era lievemente diverso da allora: dimagrito, spossato, il volto solcato dalla fame e l’espressione svuotata di chi ha rinunciato alla sua vita, di chi è rimasto ai margini del senno, abbandonandosi alla solitudine. Al cuore, il guerriero sentì un tepore che riscaldò ogni singola fibra del suo corpo, una commozione che non lasciava spazio alle lacrime e che tagliava il suo volto formando il sorriso di un padre che vede il figlio tornare a casa dopo anni.
Si fece spazio tra la folla; incurante della sua forza due uomini indignati vennero spinti al suolo mentre Jecht non aveva occhi che per Medoro. Voleva vederlo da vicino, voleva raggiungerlo al centro della piazza e raccogliere il suo viso tra le sue tozze mani. Voleva sentire la sua storia, conoscere le sue tristezze, le ragioni che lo avevano spinto ad emarginarsi. Voleva solo parlarle con lui, accertarsi che fosse ancora il testardo figlio di puttana che aveva conosciuto quel giorno così lontano.

«LAPIDIAMOLO!»
Quando i primi sassi si infransero sugli scudi delle guardie che accompagnavano il ragazzo, ormai diventato uomo, Jecht comprese che non vi era tempo per correre da lui, che prima avrebbe dovuto ridargli la dignità che in un modo o nell’altro aveva perduto.
Angelica, che come dono del destino era giunta alle sue mani, mostrò il riflesso del volto maturo del Berserker un’ultima volta, prima che l’uomo la lanciasse in cielo, facendo sì che atterrasse proprio ai piedi del biondo. La vibrazione innaturale generata dalla spada zittì tutti, lasciando il pubblico ammutolito e confuso davanti a quanto appena accaduto.
«RAZZA DI IDIOTI!»
Raccolta nel petto tutta l’aria di cui era capace, Jecht gridò a pieni polmoni, attirando l’attenzione di tutti e costringendo alcuni a tapparsi le orecchie. Alcuni riconobbero in quel volto sbruffone la scintilla della rivolta contro i Lorch e il salvataggio di Fanie, altri ricordarono della morte di Sigrund e risvegliarono il loro astio. Il nome di Rekres - perché così era ricordato - venne sussurrato di bocca in bocca, finché Jecht non ebbe il fegato di zittirli nuovamente, ridando la scena al vero protagonista.
«Siete forse diventati ciechi o vi è definitivamente partita la zucca? Non la vedete, quella è Angelica, la spada di Medoro… Ve la ricordate tutti, no?»
Di colpo, tutti si voltarono ad osservare la spada, trovando conferma in quello che fino ad un momento prima era stata solo una domanda sommessa della loro memoria. Lo stesso Medoro, nel vedere la spada ai suoi piedi, parve completamente smarrito, incredulo. Si lasciò scappare una lacrima, una sola, quanto bastava per ricongiungersi ad una vecchia amica con nostalgia. Si avvicinò a lei lentamente e strinse la sua mano sull’elsa con gentilezza, quasi le stesse offrendo una carezza. Rinsaldò la presa e con orgoglio la sollevò al cielo, sentendo nel petto bruciare tutte quelle emozioni che aveva sempre provato nel portare avanti i suoi incrollabili ideali. Per un istante, dimentico delle umiliazioni subite e di quelle che si era autoinflitto, Medoro tornò ad essere il ragazzino che avrebbe dato la vita al per il suo re e per il suo popolo e con un tono e una voce che fino ad ora non aveva saputo impugnare, proclamò il discorso che sarebbe stato ricordato come “Il richiamo del redivivo”.

Avete ragione.
Io non sono Medoro, non più.
Del comandante che ricordate io non sono che l’ombra sbiadita.
Mathias Lorch forse non mi avrà inflitto la morte ma in un modo o nell’altro è riuscito a strapparmi la vita.
Per la prima volta in vita mia ho avuto paura. Inerme di fronte alla sua forza mi sono sentito indifeso, solo… inutile. Le mie certezze, la mia incrollabilità, sono state rase al suolo dal singolo istante in cui ho temuto NON per la mia vita… quanto per le sorti del popolo che ho sempre cercato di difendere. Ho sentito la mia presa allentarsi, Angelica cadere al suolo mentre cedevo di fronte alla furia del nemico. Non ero che una nullità che si disperava nel palmo della mano del nemico.
Per anni sono rimasto nell’ombra, per anni ho rivissuto nella mia mente il ricordo della mia disfatta, della disfatta del mio popolo. Mi sono flagellato per ogni morte che non sono riuscito ad evitare, mi sono odiato per come il nemico mi ha usato per arrecarvi dolore, mi sono sentito inerme quando era giunta l’ora di ribellarsi.

Non merito né di essere creduto né di essere accolto come un eroe risorto.
Mi ero sobbarcato di un peso che da solo non potevo sostenere, pensavo di poter salvare la vita di ogni singolo cittadino con le mie sole forze… ma ero solo un ragazzino, un ragazzino che non aveva compreso il potere di una nazione.
Oggi, però, so per certo che non voglio commettere lo stesso errore una seconda volta, voglio dare a voi quel potere che io stesso credevo di poter gestire da solo: il potere di combattere per la propria casa, per i propri figli, per il proprio futuro. Di fronte alla minaccia che ci attende, voglio che ancora una volta ci raduniamo sotto lo stesso stendardo per dar luce al nostro destino.
Nessun generale è padrone per le vite del proprio esercito.
Siete voi i padroni del vostro futuro!

Non voglio più restare in un angolo a tremare in attesa che la morte sopraggiunga.
Non voglio più lasciare agli altri il diritto di scegliere per la mia vita.
Non voglio essere solo di fronte alla spada del nemico.

VOGLIO COMBATTERE AL VOSTRO FIANCO ANCORA UNA VOLTA!
VOGLIO SENTIRE LE VOSTRA URLA DARMI FORZA!
SENTIRE IL VOSTRO CUORE BATTERE ALL’UNISONO!
ABBATTERE INSIEME UN NEMICO INARRESTABILE!
VOGLIO PROTEGGERVI E SENTIRMI PROTETTO!
VOGLIO VIVERE!
E VOGLIO FARLO INSIEME A VOI!

Col volto scavato dalle lacrime e la luce brillare nei suoi occhi, Medoro concluse il suo discorso, lasciando la folla in un silenzio che parve infinito.
Le urla di accettazione che si sentirono quel giorno, sono storia.
 
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view post Posted on 8/11/2019, 21:51
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Regni del Leviatano – una taverna come tutte le altre
L’uomo siede davanti a una cartina smangiata dal tempo, una mappa del vecchio clan del Toryu, poi regno del Dortan, poi regni del Leviatano. Con una piuma d’oca ha tracciato delle linee per dividere le vecchie regioni nei nuovi casati, quello che un tempo era un solo frutto in tante fette sul punto di marcire. Di alcuni conosce i nomi, altri sono meri punti, ruderi di famiglie ormai divorate dagli incroci tra consanguinei e dalle guerre. Sa che sono in conflitto tra loro, che si derubano a vicenda, che sposano gli uni le figlie degli altri. Sa che difficilmente la sua sola parola potrà far ritrovare loro l’orgoglio che hanno perduto.
Si passa una mano tra i capelli tra cui spiccano i primi fili grigi, lavati di recente, che gli sfiorano le guance. Sotto gli occhi stanchi pesanti borse scure, le labbra screpolate per il troppo stringerle tra i denti. Si sente investito di una nuova missione, gli arde dentro come un tempo l’amore per le mura invalicabili che ha difeso.
La porta della taverna si apre e si chiude, entrano avventori chiassosi, altri alzano i boccali. Nessuno fa caso a lui: con il passare dei giorni si sono abituati alla sua presenza silenziosa e riflessiva, hanno perfino smesso di cercare di coinvolgerlo nei loro bagordi. Non alza la testa.
La porta della locanda si chiude e si apre.
Nessuna voce, un passo ticchettante. Nella testa dell’uomo qualcosa si attiva, il ricordo di un ricordo di un sogno. Gli solletica l’orecchio come il profumo di cannella gli carezza il naso. Familiare, riesce a pensare prima di alzare gli occhi.


. . .


Scende da cavallo con un gesto agile, un gesto che le è familiare. Scende e si concede un sorriso.
Ti sei rammollita – questo si dice mentre scuote la polvere dal mantello.
Un tempo lontano avrebbe cavalcato nuda, i capelli liberi nel vento, gridando improperi a chi le avesse intralciato la strada. Ora indossa un pesante mantello scuro, dei pantaloni da uomo, degli s t i v a l i. Tutto il necessario per passare inosservata in quelle terre che non sono più il suo mondo e che non sono pronte a sentire di nuovo il suo nome.
La porta di legno massiccio scivola silenziosa sui cardini e il tepore del camino la investe chiamandola a sé. Sono fatti della stessa pasta, lei e il fuoco, entrambi insaziabili e incapaci di stare al proprio posto. Si guarda attorno in silenzio, sulla soglia, incorniciata dalla penombra bollente del tramonto. Rosso fuori, rosse le sue labbra, rossi riflessi sulla camicia bianca, leggera, di seta, che le si posa sui piccoli seni lasciando intravedere la completa irriverente nudità al di sotto.
Molti sguardi le si poggiano addosso, interrogativi, ma lei non entra né esce: fissa l’uomo con la testa china sul tavolo, cerca i segni distintivi di un condottiero che ben conosceva. Quasi non le sembrano le stesse spalle, la stessa schiena che tante volte ha guardato da sotto le mura. Ma gli occhi, quegli occhi che la fissano increduli, non sono cambiati, sono gemme rimaste intatte mentre il loro scrigno si consuma. In quegli occhi brilla lo stesso ardore di allora, quello che lo aveva reso indomabile.
Silenziosa gli si avvicina, lasciando che altri chiudano la porta alle sue spalle, scosta una sedia e si siede al contrario, con lo schienale a reggerle gli avambracci su cui poggia il mento. Lo fissa in silenzio, con un mezzo sorriso sulle labbra dipinte. Si lascia ammirare e nostalgica lo contempla, gli lascia intuire cosa si celi sotto quei vestiti troppo casti per lei, dietro i capelli raccolti in una crocchia elegante sulla nuca. Gli lascia ricordare cosa ha visto anni prima, prima che lei acconsentisse a cederlo al comando di altri. Gli sorride come a un vecchio amico, nonostante non si siano mai chiamati a quel modo, nonostante allora lui fosse la preda e lei la predatrice.


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Tu…
I denti di lei, polpa bianca di una mela scarlatta, scintillano divertiti.
Chi non muore si rivede, Cavalier Medoro. Più o meno”. Gli strizza un occhio, avvolgendolo nella sua rete. “Mi sei mancato”.


Lui storce le labbra, tentando di scacciare il pensiero che gli si insinua dentro, suda leggermente, si passa una mano sulla fronte. Lei continua a fissarlo senza distogliere lo sguardo, divora il suo imbarazzo, ne assapora l'aroma acre, salato. Lui rifiuta di abbassare lo sguardo lungo lo schienale della sedia, lei sospira leggermente, fingendo di rimpiangere gli anni passati insieme. Poi lancia un’occhiata distratta alla cartina sul tavolaccio.


L’ultima volta che ci siamo visti controllavi un territorio molto più piccolo. Egregiamente, intendiamoci”.


Si lecca le labbra con la sua lingua piccola, guizzante. Lui deglutisce lentamente, cercando di non farsi vedere. Un tempo avevano la stessa età, ma non ora.

Io… Ho un compito, Rosa”.


Pronuncia quell’appellativo quasi con disprezzo, come se le attribuisse la colpa di quella situazione.
Lei emette una risatina soffocata, che le muore in gola. Lo trova divertente, proprio come allora. Solo che ora è molto meno interessata a portarselo a letto. Per quello si sarà tempo almeno fino a notte fonda.


Lo so, cavaliere senza macchia. Ti sorprenderà sapere che sono tornata per questo”.


Lui pare stupito. Forse credeva che lei si fosse vestita a quel modo solo per divertimento. Sospira di nuovo, alzando gli occhi a cielo.

Tutti noi sappiamo che cosa incombe sopra le nostre teste. Mi è stato riferito che tu cerchi di fermarlo. Anche io. Penso che sia la nostra unica possibilità di salvare quello per cui siamo vissuti. E morti”. Un’occhiata eloquente. Lei sa. Nota il rossore comparire sulle guance di lui e gli rivolge un altro dei suoi sorrisi ferini, da gatta. “So anche che per farlo vuoi radunare un esercito”.


Si alza in piedi. Da vicino non è alta quanto se la ricordava, eppure la sua figura sembra riempire la stanza, catturare l’azione di tutti. La sua voce morbida ha quasi provocato il silenzio.

Che puttanata”.


Ride forte, cammina fino a trovarsi al suo fianco, si china a leggere i nomi scritti sulla carta, nomi del loro passato. Ora che è così vicina il suo odore riempie il naso di Medoro, un profumo di bagno caldo, di cavalcata sotto il sole, di desiderio represso a stento. Riesce a intravedere sotto la stoffa della camicia, riesce ad essere preda dei suoi occhi, che saettano veloci dalle regioni disegnate sulla pergamena a lui e poi ancora indietro.


Non hai idea di come convincere tutti questi smidollati a combattere per te, non è vero?
Lui si schiarisce la voce.
In realtà stavo preparando un piano. Ho reclutato dei cittadini. Credo che se ci spostassimo con…


Tace, notando che lei lo sta di nuovo fissando, che il suo naso quasi gli sfiora la guancia. Ha piegato le ginocchia per trovarsi alla sua stessa altezza e gli sussurra nell’orecchio. Il suo fiato è caldo, proprio come lo ricordava.


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Non hai la minima idea, Medoro. Ma sei fortunato. Si dà il caso che io abbia una soluzione”.
Guarda avanti a sé, verso la porta chiusa.
Là fuori, vedi, c’è già una parte del tuo esercito. E anche un piano”.



Gli solletica l’orecchio con la lingua, consapevole che lui la disprezzi e al tempo stesso non possa resisterle. Quel pensiero la esalta, la inebria come un bicchiere di buon vino. Gli poggia la mano sulla schiena, lo sente sobbalzare mentre gli preme le unghie contro la stoffa della casacca. Non sa se sia più divertente il pensiero di avere una speranza di vincere quella guerra oppure il fatto di poter giocare con lui esattamente come allora.
Vecchia nostalgica.


Quindi ho due domande per te. Primo: hai abbastanza palle da uscire qua fuori a constatare di persona?....
Lui gira lo sguardo verso di lei, attende. Sente suoi muscoli contrarsi, sa che si alzerà per seguirla. Ma non si ferma.
Secondo: Avrai abbastanza palle questa notte quando verrò a prenderti?


Ride forte della propria volgarità, mentre si dirige a passi svelti verso la porta, lasciandolo per metà sollevato dalla sedia, raggelato. Gli uomini agli altri tavoli la guardano, lei manda loro un bacio. Probabilmente ci sarà tempo per un bicchiere di buon vino prima di ritirarsi per la notte.
Ma prima c’è del dovere da compiere, un dovere che ha rifuggito per troppo tempo. Esce all’aperto chiudendosi la porta alle spalle. Un uomo con i capelli corvini raccolti in una morbida coda la sta attendendo al fianco della madre dei draghi, con i grandi occhi azzurri impazienti.


Quindi?


Non riesce a trattenersi dal porle la domanda.
Lei gli risponde con il suo ghigno feroce, di sfida. Sente ancora il cuore galopparle nel petto, risalire fino alle labbra, riempirla dell'eccitazione di quella nuova sfida e del sapone con cui Medoro, il cavaliere senza macchia, si è rasato la barba.


Sale e pepe è perfino più affascinante. Un paparino”.
Strizza un occhio, passandosi una mano tra i capelli e ricordando con fastidio di averli raccolti.
Il giovane sospira, impaziente.
Intendo: uscirà?


Non ha ancora imparato a gestire quel suo modo di fare esuberante, volontariamente provocatorio. Per questo le piacciono, lui e i suoi imberbi, idealisti compagni del nuovo oriente: non hanno l’esperienza e la ferocia dei suoi vecchi servitori, non hanno le palle di darle ordini, non saprebbero combattere una battaglia campale, ma sono innocenti. Qualcosa che a lei manca, qualcosa che non ha più la stessa voglia di sporcare di un tempo.
La schiena alla porta, alza la mano destra, pollice, indice e medio sollevati. È la sua risposta. Tre secondi prima che la porta si apra.
Abbassa le dita ad una ad una.
Uno.
Si passa la lingua sulle labbra, assaporando il piacere della vittoria.
Due.
Si immagina come sarà tra le sue braccia ora che non è più un casto paladino prigioniero di un re invincibile, ora che è stato corrotto dall’ignavia e dalla miseria, che ha pisciato agli angoli delle strade e dormito tra le pulci.
Tre.
Si chiede cosa penserà lui di lei, che ha scelto di combattere per una causa.


Meglio per te che sia un buon piano”.


Un ghigno trionfante le si dipinge sulle labbra. In realtà non era proprio sicura che sarebbe arrivato subito, la sua era una scommessa, il che rendeva tutto ancora più eccitante.
Ma non era necessario che loro lo sapessero.




CITAZIONE
Il mio post è collegato a quello di Claudia, dove esporremo a Medoro la nostra scoppiettante idea <3

 
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view post Posted on 10/11/2019, 05:28
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Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.
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Un lampo. La vista annullata da quell'esplosione di luce. Bianco. Silenzio. Un Sole che sorge dietro mura destinate a cadere. Un Sole che tramonta su una città, su un Regno. La terra trema ma Montu ancora non riesce a vedere, se non ombre di uomini e donne di cui non ricorda più i lineamenti; trema ogni volta che quella luce si fa meno accecante, ogni volta che si abbatte su un nemico ineluttabile. Un boato, frastuono di morte, campane che a lutto scandiscono il passare degli anni. Luce. Poi il buio.

Il Demone apre gli occhi scattando seduto sul letto, la fronte imperlata di sudore mentre i primi raggi dell'alba trafiggono la finestra della sua stanza. Ansimante si guarda intorno, sente una lacrima scivolargli lungo la guancia ma la asciuga con il dorso della sinistra senza darle troppo peso. Si passa una mano tra i capelli sistemandoseli all'indietro, pare non gli sia passato un anno eppure è evidentemente stanco, non il valoroso guerriero di un tempo. Si alza in piedi massaggiandosi le tempie con i pollici mentre si avvicina al lavabo, prova a cancellarsi quelle immagini dalla mente buttandosi in faccia l'acqua gelida ma è chiaro quanto sia inutile. Raggiunge il suo comodino per afferrare la bottiglia di liquore, che ha lasciato più di un segno circolare sulla copertina di un certo taccuino, e manda giù un lungo sorso. Ecco, quello gli è rimasto della sua vita del cazzo -pensa l'Eterno-: un cimelio impolverato e inutile con sopra i segni di un vizio che non gli porta nemmeno una gioia visto che a causa del Demone non riesce a sbronzarsi. Fanculo. Mastica tra i denti buttando giù un altro sorso e decidendo poi di abbandonare la penombra della stanza. Scende, con il volto chiaramente infastidito per quel sonno interrotto, nella grande sala dove trova Davakas già intento a pulire il bancone con uno straccio umido.
Ti ho visto così tante volte lucidare quel legno che mi stupisco di come non si sia consumato. E poi, dopo anni, ancora non ho capito quale polvere ti ostini a togliere.
Buongiorno anche a te. Sbuffa l'oste falsamente indispettito da quella mancanza di cortesia. Non lo capisci perché non c'è polvere, è solo un gesto... simbolico. Agita distrattamente la mano in aria, come a lasciar intendere che il discorso va oltre, oltre soprattutto la comprensione di Montu.
Bella stronzata, come se servissero a qualcosa i simboli. Davakas interrompe quel suo movimento rituale, guardando torvo l'amico. Senti, sono mesi che non ti sopporto. Non fai altro che lamentarti, eppure non fai niente per cambiare le cose che non ti vanno bene. Ti lamenti di quello che succede nel Dortan, di quello che è diventata Ladeca, eppure quant'é che non metti piede fuori da qui? Ora ti lamenti dei simboli, ma ricordo quando per qualcuno tu stesso sei stato un simbolo! Risponde stizzito, ma l'Eterno risponde solo con un mezzo grugnito... infastidito, manco a dirlo.
Hai dormito male? Chiede Davakas senza voler risultare comprensivo. Montu scuote la testa in segno di diniego.
Solo il risveglio è stato... movimentato. Caino? Il Priore è un incubo ricorrente nelle notti del Demone, che si tocca le mani riuscendo a percepire il freddo della sua carne, ultimo lascito del Corvo. Ancora un cenno della testa, l'oste si sta sbagliando. No. Ho sognato Basiledra. Davakas abbassa lo sguardo, come a voler cercare un momento di raccoglimento per l'antica Capitale. Non ero sulle mura quand'è successo. Ricordo che stavo combattendo nel Borgo Basso, la Guardia Insonne... beh eravamo messi male. Ci fu un lampo di luce, tutti avvertimmo che fosse successo qualcosa di irreparabile ma non pensavamo che... Mi hanno detto che Mathias arrivò con la sua testa stretta in mano, il volto sporco di sangue. Uno sguardo tra i due, carico di rimpianto e dolore, di impotenza per ciò che era accaduto ormai una vita prima.
Ho sognato la morte di Medoro.

Il Kishin sta arrivando per voi.

eTJlDNE

Sono passati giorni da quando tutti a Ladeca -e probabilmente anche fuori dalla città e dai confini del Dortan- hanno sentito quella voce. Un avvertimento. Le Tre Lune è vuota, Davakas ha la testa tra le mani con i gomiti poggiati sul bancone, mentre il Demone continua a scolarsi inutilmente l'ennesima bottiglia.
Veramente non hai intenzione di fare nulla? E cosa, Davakas?! Sbotta l'Eterno. Il Kishin! Se veramente sta per attaccare Theras siamo già spacciati! Chi dovrebbe fermarlo? Tu, io, chi? Magari se chiamassimo...
Montu scatta in piedi, rovesciando lo sgabello e attirando lo sguardo quasi allucinato dell'amico. MORTI! Sono tutti morti! Shimmen, Malzhar, siamo rimasti tu e io! Davakas è più sconfortato che arrabbiato, non può contestare le obiezioni del guerriero e, soprattutto, non riesce ad accettare il fatto che in realtà anche lui si sia già arreso perché sì, ha ragione Montu, se è il Kishin a muoversi possono considerarsi già morti. Ma... ...ti prego, non possiamo fare nulla. Rimaniamo a Ladeca, resistiamo il più possibile se ce ne verrà data l'occasione, e lasciamo che il nostro destino finalmente si compia. Un silenzio religioso tra i due mentre il Demone raggiunge il camino spento, la verità calata come un macigno. Non c'è altro modo.
E se invece ci fosse?
L'attenzione dei due viene attirata da un uomo fermo sull'uscio, immobile controluce, i lineamenti appena riconoscibili così come ciò che indossa. Hai detto qualcosa? Chiede il Demone tutt'altro che amichevole; apre la destra sentendo pulsare l'energia della Rìastrad, pronta a materializzarsi nel suo palmo. Tu devi essere Montu. Qualcuno mi ha parlato di te. La misteriosa figura fa qualche passo avanti, e si lascia osservare dai due uomini presenti.
Ha qualcosa di familiare, lo riconosci? Chiede telepaticamente l'Eterno all'oste, che risponde con un impercettibile cenno della testa: "No".
Qualcuno convinto che tu... beh, che tu possa essermi utile. Allarga le braccia, continuando a muoversi per la locanda, avvicinandosi al bancone. E se è vero tutto ciò che mi ha detto, puoi esserlo davvero. Afferra la bottiglia lasciata mezza vuota, la muove controluce come a controllarne il contenuto, incrociando poi uno sguardo dubbioso e quasi deluso all'indirizzo di Montu. Non so chi è che stai cercando. L'uomo trattiene un sorriso. No, certo. Si tira indietro i capelli con un gesto elegante della mancina, e un fulmine attraversa la mente del Demone. Non può essere vero.
Cerco un uomo che fu un Silenzioso Sussurro. Anche Davakas ha un sussulto. Che insieme a Ludmilla ha riportato Re Julien a Basiledra, dimostrando fedeltà all'unico vero sovrano di queste terre. L'immortale che ha visto cadere la Mano, che ha prima difeso e poi tentato di riprendere la Capitale, che c'era quando è morto Caino e ora ne porta il fardello. Passi lenti e misurati verso Montu. Un nano mi ha parlato di lui, di ciò che ha fatto nell'Akeran durante la rivolta di Jahrir Gahkoor. Dalle parti del Sultanato e non solo, laggiù, è ancora molto rispettato, a sentire le voci. Quel sorriso soffocato ora è quasi una risatina che incontra lo sguardo attonito di Montu.
Chi cazzo sei?
Ha praticamente rivisto la sua vita in un istante, carica di tutto il dolore che si è trascinato negli anni. Vorrebbe piangere mentre nel cervello scorrono i volti di Kuro, Ludmilla, Nicolaj, Yuri, Ilyr, Sergey, ma si trattiene e solo le gambe che tremano incontrollabilmente tradiscono le sue emozioni. L'altro allarga nuovamente le braccia. Se non fossero passati così tanti anni mi offenderei. Possibile che un membro del Toryu non mi riconosca? Montu... sono Medoro. Il Bianco Cavaliere! Il Demone scatta all'indietro, ha letteralmente visto un fantasma ma non è solo quello che lo atterrisce, quanto il significato dietro quel ritorno. Cade su una sedia, il busto ritratto verso lo schienale come a voler fuggire da quella visione: è il passato, è Basiledra, è parte di una vita in cui si sentiva pieno e... vivo! Gli sembra di riuscire a sentire i battiti del suo cuore, rianimatosi in quell'istante, gonfia e sgonfia i polmoni forzandoli, come se si fossero impigriti.
Il Kishin sta tornando, e io sto radunando un esercito. Tende una mano verso l'Eterno, che ora non può non riconoscere la magnifica immagine conservata di lui nella sua memoria. Unitevi a me, possiamo ancora fare la nostra parte.

Una frazione di secondo di esitazione, poi Montu non può fare altro che afferrare quella mano.

Io sono un Silenzioso Sussurro. Colui che opera per il bene del Regno.

Lo sarà per sempre.



Se qualcuno volesse far incrociare le nostre strade sono disponibilissimo.
 
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view post Posted on 10/11/2019, 23:12
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Darth Side
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Fu come se i cocci di un mondo in frantumi
avessero preso pian piano a incontrarsi di nuovo,
attraendosi l'un l'altro e ricompattarsi in un sogno
perduto nelle sabbie del tempo, dimenticato e dimentico
di quanto grande era stato.



Aveva atteso fuori, in silenzio.
Appoggiato a un muro dall'altro lato della strada rispetto alla locanda, defilato dal seguito della Rosa e dal loro chiacchericcio in una solitudine lui familiare, l'aveva osservata insinuarsi come una serpe tentatrice, scivolando leggiadra con un fare che per quanto non avesse visto da tempo, gli parve molto familiare tanto nelle movenze quando nella coscienza dei propri mezzi.
Incappuciato, le braccia conserte e il capo chino, Zephyr aveva teso l'udito origliando da lontano eventuali subbugli o liti -che era frequente scoppiassero in luoghi come quello- pronto a intervenire e incenerire chiunque avesse ardito di disturbare la Rosa dai suoi intenti, avvicinandosi a lei più di quanto sarebbe stato necessario. Anche se, una donna con la sua persuasione, sarebbe stata in grado in pochi minuti di corrompere e sottomettere anche il più ubriaco e corpulento degli avventori.
Nel sentire i cardini scricchiolare, Zephyr alzò rapidamente lo sguardo dimenticando la propria apprensione nel vederla uscire proprio come era entrata, beffarda e sicura di sè, intuendo come fosse riuscita nel suo intento. Dlays prese a contare con la mano alzata, soddisfatta, come a predire un futuro che ella stessa aveva già scritto; e quando anche il terzo dito di lei si levò dal pugno, un'altra reliquia del passato fece la sua comparsa.
Nessuno si sarebbe stupito nel vederla rincorrere da un uomo fuori da una locanda; con l'avvolgente e irresistibile sguardo di lei, chiunque avrebbe fatto lo stesso. E Zephyr più di tutti ne sapeva qualcosa.
Si decise a levarsi il cappuccio e scostarsi dal muro, incamminandosi lentamente mentre il palmo della mano si poggiava placidamente sul pomo della spada legata alla cinta, in una figura che il cavaliere appena apparso avrebbe impiegato poco a riconoscere come l'arrogante immagine di chi in passato era stato suo superiore.
Non si erano mai piaciuti, lui e medoro.
E sicuramente non per colpa del cavaliere che aveva davanti
Troppo perfetto con quei suoi riccioli biondi e lo sguardo cristallino, l'armatura bianca e il volto fanciullesco. Bello come una statua intagliata dal più bravo degli scultori o un dipinto angelico del più ispirato dei ritrattisti, aveva sempre fatto di tutto per vessarlo e destabilizzarlo, approfittando della sua posizione per impartire ordini assurdi invidioso e far sì che mostrasse anch'egli il suo lato nascosto, per scoprire le ombre che si celavano oltre l'intonso splendore per il quale era conosciuto nel Maniero.
E ci era riuscito, a più riprese. E senza dubbio i due si sarebbero passati volentieri a fil di spada, se le regole vigenti nel Regno glielo avrebbero permesso.
Non che quelle scaramucce avessero ancora una qualche importanza, ormai.
Passò accanto alla Rosa muovendogli un ossequioso cenno del capo, superandola e raggingendo Medoro che, accortosi di lui, si stupì nel rivederlo dopo tutti quegli anni.
Più gli si era avvicinato, più Zephyr aveva però notato il fascino dell'irreprensibile Medoro si fosse mosso in favore di un'età più matura. Anche se per motivi diversi, lui stesso e la Rosa erano cambiati poco nell'aspetto e nell'età e, per quanto conscio della mortalità di Medoro, il suo aspetto lo stranì più del dovuto. Come loro, anche Medoro era il retaggio del glorioso Toryu, ma a differenza loro..

« ...sei invecchiato. »

glielo disse senza ombra di scherno, incuriosito, appoggiandogli una mano sulla guancia di lui, come a comprovare con il proprio tocco che si trattasse veramente di lui e non di un fantasma.
Socchiuse le palpebre, scrutandone il volto per cercare quante più similitudini possibili nel volto che un tempo aveva tanto odiato.
I capelli avevano perso brillantezza e qualche filo grigio s'inframmezzava agli altri, lievi rughe intorno agli occhi ora meno brillanti di un tempo. Ma prima che potesse scorgere altre differenze, Medoro si riprese dallo stupore iniziale e cacciò via la mano di Zephyr con un rapido gesto, scoprendosi infastidito dal pallido e freddo tocco della sua mano.

« Non mi aspettavo di vedere anche te qui. »


Parlò con frustrazione e risentimento ma Zephyr non vi badò, avendogli già voltato le spalle per mettersi di fianco alla Rosa -giusto per chiarire quale fosse la sua posizione. Avrebbe dovuto superare vecchi rancori, il caro Medoro, se voleva riuscire nella propria impresa.
Si fermò, le braccia ora conserte, concedendosi solo un ultimo vezzo prima di lasciare cadere il silenzio cosicchè il cavaliere potesse ascoltare nei dettagli l'elaborato piano di Dalys per combattere la minaccia incombente.
Aveva sentito anche lui quella v o c e, antica e profonda che stava venendo a prenderli per ghermire il mondo nelle sue spire.
Ricordava il ballo in maschera e quell'a b o m i n i o che il Re aveva trionfalmente mostrato agli astanti. Da un certo punto di vista, era stata quella l'inizio della fine. La prima crepa in un sogno durato troppo poco, e brusco il conseguente risveglio.
Avrebbe voluto attardarsi con Dalys per più giorni di quanti avesse impiegato a ritrovarla, ma entrambi sapevano che quel dolce far niente non sarebbe perdurato molto se il Leviatano non fosse risorto per porre fine a quella minaccia.
Se quell'essere era stato l'inizio della fine, la fine di quell'essere avrebbe portato un nuovo inizio.
O così almeno si augurava, mentre i suoi occhi si muovevano di sfuggita oltre la propria spalla, verso il volto compiaciuto della rosa.

« Nemmeno io mi sarei aspettato di vedermi qui con voi. Non dopo tutto questo tempo. »
rispose distrattamente, il commento pungente di Medoro gli era scivolato addosso. « Se qualche settimana fa mi avessero predetto questa rimpatriata, di certo mi sarei messo a ridere. » continuò a guardare di fianco, verso la rosa, la calamita che stava attraendo a sè quegli uomini, ricompattando un esercito disperso da tempo.
Sincero e vagamente laconico come poche volte era stato.
« Ma, ora, mi sembra che il tempo non sia mai passato. »

Ak0HObD

Avevano tutti fatto parte del più grande esercito che il mondo avesse mai visto,
avevano combattuto, ucciso nemici e raso al suolo città in nome del Regno.
Il solo sussurrare quel nome era in grado di scuotere i nemici nell'animo, spaventandoli e strappando loro di dosso la volontà ben prima che la battaglia avesse avuto inizio.
Una bestia insaziabile, invincibile come il proprio Monarca, ineluttabile come una sentenza divina.
Un flagello chiamato L e v i a t a n o.
Un mostro per combattere un mostro.
Ma se il loro nemico era nel pieno delle sue forze, la mitica bestia del Re che non perda mai era in frantumi,
sdrucita da anni di ignavia e dispersa in chissà quanti posti.
Loro avevano fatto parte del Leviatano, ma non erano sufficienti.
Serviva molto di più per farlo risorgere.




Scena che si collega a quella di Anna
 
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view post Posted on 11/11/2019, 16:17
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Un uomo come quello non avrebbe dovuto mettere piede nell'Edraleo.
Era un mendicante, vestito con stracci umidi. Il suo mantello sgualcito strisciava pietosamente tra le lastre di marmo e le bende attorno ai suoi piedi sembravano volersi disfare ad ogni passo. Lunghi capelli color paglia scendevano disordinatamente sul suo viso, nascondendo la disperazione dei suoi occhi. Le labbra screpolate e spaccate erano schiuse, boccheggianti tra un sussurro e l'altro, una preghiera, una supplica. Stretto tra le mani sporche di terriccio, un fodero di cuoio nero e dentro di esso una lama pregiata, dall'elsa finemente adornata.
Lui era l'uomo che sarebbe dovuto essere morto, che stringeva una spada che non poteva essere sua, che camminava in un luogo in cui non sarebbe mai potuto entrare.
Medoro appoggiò stancamente la mano sull'anta di legno che lo aspettava alla fine di quel corridoio e la spinse lentamente, rivelando una grande stanza luminosa. Il sole di mezzogiorno lo accecò attraverso le ampie finestre che si affacciavano su tutta Ladeca, la più grande città del Dortan.
« Sei davvero tu. »
La voce severa di un uomo lo accolse in quel prestigioso studio. Medoro dapprima riuscì solamente a vedere la sua sagoma, nera come pece in contrasto con la luce del giorno. Alto e imponente, studiava la città dando le spalle all'intruso. Lentamente Medoro riuscì a distinguerne i dettagli: indossava una veste nera tipica dell'aristocrazia di Ladeca, i suoi capelli erano tinti col grigiore della vecchiaia e il suo capo era circondato da una benda che gli copriva l'occhio sinistro. L'uomo si voltò, rivelando un terrificante sguardo ceruleo che trapassò Medoro, lasciandolo quasi senza fiato.
Si sarebbe voluto prostrare in ginocchio, scoppiando in lacrime e supplicando aiuto, ma fece appello a tutto ciò che rimaneva della sua vergogna per rimanere in piedi. Eppure non riuscì a parlare, a dire alcunché. La sua gola era strozzata da disperazione e paura. Quante volte aveva dato voce a quelle parole nelle strade di Ladeca da quando la Divinità gli aveva portato il suo messaggio? Quante volte aveva supplicato i passanti di ascoltarlo, di dare peso alle sue profezie? Quante volte aveva visto altri come lui, la cui follia era stata risvegliata improvvisamente, strillare tra le strade e quante volte aveva pensato di non essere diverso da loro?

L'Avvertimento. Avevano iniziato a chiamarlo così, quel canto minaccioso e terribile che aveva bruscamente toccato le menti di tutte le genti di Theras. Immediatamente il panico si era scatenato tra le strade, contenuto solo dopo giorni. Alcuni tra i nobili più ricchi avevano deciso di abbandonare temporaneamente il Dortan, cercando riparo nella ben più sicura e protetta Qashra. I fedeli si erano radunati attorno ai Corvi, che tentarono di spiegare il fenomeno come un messaggio del Sovrano. I politici avevano discusso nell'Edraleo e infine deciso di fortificare la città in vista di un prossimo attacco. In tutto questo trambusto, Medoro era rimasto tra le strade, urlando richiami alla prossima apocalisse come un comune pazzoide, le sue parole ignorate.
Infine aveva deciso di fare l'unica cosa che avrebbe potuto concretamente fare. In ginocchio nel terriccio del cimitero di Ladeca, fissando la sua stessa lapide con il cuore in gola, affondò le mani nella tomba e iniziò a scavare. Nascosto dall'oscurità della notte nessuno lo aveva notato. Le sue unghie si erano spezzate, i rami e le pietre lo avevano graffiato e ricoperto le sue mani di sangue, ma nonostante tutto Medoro aveva continuato a scavare fino a raggiungere la sua bara, vuota. Dalla caduta di Basiledra si pensava che il suo corpo fosse andato perduto, specie dopo lo scempio che Mathias Lorch aveva fatto della sua (finta) testa. Eppure Medoro era lì, il suo cuore ancora batteva e il suo sangue era ancora rosso. C'era solo una cosa in quella bara, un tesoro che gli era stato sottratto -Angelica.
Molti dei soldati di Ladeca conoscevano quella lama, specie tra i più anziani. Anche se non avrebbero riconosciuto il suo volto o creduto alle sue parole, la luce di Angelica avrebbe mostrato loro la via. E per la prima volta da quando Haym gli aveva portato il suo messaggio, una scintilla di speranza animò gli occhi di Medoro: le guardie dell'Edraleo, confuse da quella rivelazione, lo avevano lasciato passare. Forse non si erano ancora capacitati di ciò che comportava il fatto che lui fosse vivo. Forse non comprendevano davvero il suo ruolo nella caduta dei Quattro Regni, forse avevano saputo di lui solo dai racconti del Leviatano e dei suoi imbattibili guerrieri.
Ma quell'uomo certamente non sarebbe incappato in queste incertezze, poiché la sua mente era affilata e micidiale come una spada, il suo unico occhio era sempre attento e vigile e la sua memoria certamente non avrebbe vacillato.
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Il suo nome era Alexander Terghe.
Un nome nuovo per molti dei cittadini di Ladeca, ma non per Medoro. Egli sapeva infatti che Alexander aveva servito i quattro regni in qualità di comandante semplice, un ruolo che di fatto lo aveva reso suo sottoposto anni fa. Un veterano delle conquiste di Rainier, della Guerra del Crepuscolo e infine della Battaglia per Basiledra, Alexander era poi rimasto in disparte durante i giochi di potere di Caino, ma ora si trovava lì, sulla cima dell'Edraleo, in qualità di suo Presidente, Primo Cittadino di Ladeca e dei suoi territori. Dalle strade della città Medoro aveva assistito alla sua rapida ascesa: era un uomo giusto e severo, un soldato prima di essere un politico, uno che aveva combattuto per il bene dei cittadini più e più volte durante la sua vita. Dopo tutto il trambusto scatenato da Caino e la guerra intestina tra i Corvi era così improbabile che un uomo come lui riuscisse a raggiungere quella posizione? I cittadini di Ladeca erano stanchi delle diatribe politiche e delle guerre, volevano solo la pace e la prosperità promesse sin dalla fondazione della nuova capitale e finalmente tutti i vecchi grandi nomi del passato sembravano essersi ritirati nell'oscurità.
Ladeca era diventata una città-stato indipendente, tra le più rilevanti grazie alla sua posizione vantaggiosa nel Dortan che la rendeva un crocevia di tratte commerciali. Alexander era un nome nuovo, il cui unico interesse era il bene della città. I suoi discorsi nelle piazze erano coinvolgenti e avevano catturato lo spirito dei cittadini con promesse allettanti, prime tra tutte la difesa dei confini e l'allontanamento di tutti gli indesiderabili, di tutti i nostalgici del Leviatano e di Caino, che ancora cercavano di strappare il potere dalle mani del popolo per restituirlo ad un potere superiore e illuminato.
Che strana e aliena cosa era la democrazia, aveva pensato Medoro. Quel mondo era così diverso da quello in cui era cresciuto e in cui era stato addestrato, era sparito lo sfarzo dei Re e le leggende dei loro grandi nomi, ora rimanevano solo i capricci del popolo e la matassa di fili invisibili usati per controllarli, un groviglio che neppure il più preparato degli studiosi sarebbe riuscito a districare. Alexander aveva quindi deciso di tagliarlo via del tutto. In questo senso, Medoro lo rispettava, pur essendo lui frutto di un sistema che era ormai incompatibile con il fu-cavaliere.

Finalmente Alexander parlò, scuotendo Medoro da quell'incantesimo che lo teneva immobilizzato sul ciglio della sua porta.
« Qualsiasi cosa tu abbia da dire, dilla in fretta. » sentenziò.
Medorò fece pochi incerti passi all'interno della stanza, gettando occhiate distratte e incerte alle pile di pergamene e volumi che ne costellavano gli scaffali. Poi il suo sguardo si fissò dritto contro quello di Alexander. Prese un grosso respiro.
« Ho ricevuto una chiamata. Una richiesta, da un Dio -Haym. Per favore Alexander, ascolta quello che ti devo dire. »
« No. » quella singola parola schiacciò completamente lo spirito di Medoro, o di ciò che ne restava.
« Sei un traditore. Ti sei nascosto tra le strade come un comune mendicante mentre la gente che hai giurato di proteggere soffriva. Sparisci dalla mia vista. Non sono interessato ai tuoi vaneggiamenti -l'alcol ti avrà dato alla testa, o la solitudine. »
« Ti prego, Alexander! » Medoro finalmente si gettò a terra in ginocchio. Poggiò la fronte sul tappeto, cercando di trattenere i singhiozzi. « Questa è la mia ultima speranza. Ladeca... è in grave pericolo. »
Alexander sospirò, quindi si mise a sedere sulla poltrona imbottita della sua scrivania. Piantò i gomiti sul tavolo, intrecciò le mani e fece un singolo impietoso cenno di consenso a Medoro, che lo guardò con riconoscenza e si rimise in piedi.
« Haym mi ha detto che "il tempo del mondo sta per scadere" e che sarà necessario un grande esercito per contrastare il male che sta per arrivare. E... »
Ma Medoro non riuscì a proseguire. Come poteva? Ladeca era ormai l'emblema della democrazia, forse l'unica su tutta Theras, e Alexander era il suo rappresentante. Come avrebbe potuto reagire se gli avesse detto che Rainier sarebbe tornato? Il Re che non perde mai -il suo Re, il suo unico padrone, era anche l'indiretto fautore del disastroso stato del Dortan. Medoro si morse le labbra. Finalmente era così vicino alla redenzione, finalmente il suo onore sarebbe stato ristabilito, finalmente avrebbe visto il suo Re -eppure non poteva negare quella verità, non poteva nascondere che Rainier aveva causato il Crepuscolo. Se solo fosse rimasto in vita...!
« Ci stiamo già adoperando per radunare un'imponente armata. » Alexander interruppe i suoi pensieri.
« Provavo rispetto per te, Medoro. Sarò franco. I nostri agenti, i Sussurri, si sono già sparsi per i maggiori castelli e città del Dortan e stanno instillando la nostra versione del racconto su cosa significhi l'Avvertimento. »
Medoro aggrottò le sopracciglia. « Cosa intendi...? »
« L'Avvertimento è un segno del Sovrano. Egli vuole che raduniamo il più grande esercito per fronteggiare il Kishin, il Penultimo Errore di Rainier. Lo stiamo chiamando così. Il profeta del Sovrano, in preparazione al Crepuscolo, creò questo essere e ora la sua ira sta per riversarsi sul Dortan -dobbiamo fare fronte comune e distruggerlo. I Cavendish ci hanno già dato il loro appoggio, così come molti altri piccoli regni che non potrebbero mai sperare di difendersi da soli. Grazie al fatto che i Corvi non sono più sorretti da un'organizzazione centrale, anche loro stanno propagando il nostro messaggio. »
Medoro rimase interdetto. Perché Haym lo aveva scelto? Lui, che era solo un mendicante, una sagoma sbiadita di ciò che era un tempo. Lui che non aveva alcun potere sul popolo del Dortan, poiché era stato lui ad abbandonarli e a nascondersi. Non sarebbe mai riuscito, invece, a nascondere quella verità. Anche se fosse tornato ad essere il cavaliere splendente che era a Basiledra, nessuno lo avrebbe ascoltato. Mentre Alexander aveva già agito e con i suoi sotterfugi aveva già ottenuto in poche settimane più di quanto Medoro sarebbe riuscito a fare in anni.
« Ma ci sono problemi. » Alexander continuò, e stavolta Medoro vide nel suo sguardo qualcosa di diverso. Non c'era solo dura condanna, ma anche fiducia, speranza. Perché?

Perché volete contare su di me?

« Non riceviamo risposte dal Nord. Pare che gli Holstein -uno dei rimasugli dei Quattro Regni- siano riusciti in qualche modo a raccogliere il potere disperso dai Lancaster. I messaggeri che abbiamo mandato da lì, però, non sono mai tornati e noi non abbiamo tempo di indagare.
Ma non è finita qui.
A est Bara-Katal ha istituito il suo regno di orchi scacciando la popolazione locale. Se questi mostri dovessero allearsi col Kishin sarebbe un grave problema.
L'esercito di mercenari di Medeo sta ancora girovagando per il Dortan, spargendo le loro insane idee. E al sud, vicino al deserto dei See... ci sono arrivate voci che mostri di metallo stanno emergendo dalle sabbie. Pare che il mondo stia impazzendo.
»
Alexander chiuse gli occhi e pronunciò solennemente quelle prossime parole. Medoro poté solo rimanere in silenzio, interdetto e confuso come un bambino incapace di riassemblare i pezzi di un puzzle. Poté solo stringere Angelica con tutta la forza che gli rimaneva nelle mani. Ma in fondo il suo cuore ancora tremava, debole e fragile, sconquassato e ferito.
« Se non credessi che tu sia impazzito, ti chiederei di rimetterti in sesto e aiutarmi. Nonostante tutto. »
Alexander si alzò, per rispetto verso il suo vecchio capitano. Le sue parole erano chiare, ma i suoi occhi dicevano altro. Era una silenziosa richiesta, da un uomo incapace di chiedere alcunché.
Erano così diversi, loro due. L'abisso che li separava non sarebbe mai stato colmato. E Medoro capì in quel momento che se tutto ciò che Haym gli aveva detto era vero, se Rainier fosse davvero tornato, allora Alexander sarebbe stato il suo ultimo nemico -l'ultimo ostacolo al grande piano del Dio.
Deglutì.

« Io... »
« Addio, Medoro. »

Quella sera una tempesta attraversò Ladeca.
Medoro si era riparato in una delle chiese del Sovrano. Rimase a contemplare il ticchettio delle gocce di pioggia sui vetri colorati. Come lui altri mendicati si erano rifugiati nel tempio, e tutti loro ora rimanevano nel silenzio più totale, appoggiati alle colonne o nascosti negli angoli, accovacciati nei loro rifugi di fortuna o nei loro sudici mantelli. Medoro guardava anche loro, sentendosi impotente.
Un Dio gli aveva dato una missione. Il suo Re stava per tornare. Un grande pericolo gettava la sua sinistra ombra su Theras.
Eppure Medoro non poteva fare alcunché. Era debole e stanco. Il suo corpo non era più quello di una volta, era avvizzito, la sua magia si era spenta e la sua bravura con la spada certamente si era arrugginita. Stringeva ancora Angelica a sé, adesso avvolta in un panno così che nessuno potesse riconoscerla o sospettare che l'avesse rubata. Se un tempo il contatto con l'arma lo rincuorava e gli ricordava la giovane fanciulla di cui si era innamorato, ora sembrava solo ferirlo.
Era il peso di una responsabilità più grande di lui. Più grande di qualsiasi uomo mortale. Solo Rainier, che possedeva un potere ultraterreno e incomprensibile, era riuscito a raccogliere il popolo del Dortan. Come poteva lui, un mero mendicante, sperare di replicare quello stesso gesto?

Era impossibile.

Medoro si trascinò fino all'altare, stanco e sconfitto. Il Corvo che si prendeva cura di quel luogo era ancora indaffarato nonostante l'ora ormai tarda. Sembrava un giovane ragazzo, da quello che Medoro poteva intuire dalla sua corporatura. Come tutti i Corvi prima di lui vestiva con una lunga e larga tunica nera, un cappuccio gli celava il capo e sul viso portava una maschera. La sua rappresentava il volto severo di un angelo. Il giovane Corvo notò la curiosità di Medoro e si avvicinò a lui.
« Di cosa hai bisogno? » gli chiese.
I Corvi erano cambiati dalla sparizione di Caino e Zeno. Ormai non esisteva più un potere centrale che li controllasse, finalmente permettendogli di diventare i missionari del bene che sarebbero sempre dovuti essere. Le loro maschere non celavano più gli intrighi di potere del Palazzo, solo il volto di normali esseri umani desiderosi di aiutare il prossimo. Ovviamente il loro ordine non era più esteso come una volta, tuttavia gli abitanti del Dortan ancora avevano bisogno della guida del Sovrano e certamente i corvi erano gli unici adatti a spargere la sua Parola. Medoro pensò distrattamente che dopo tutto quel trambusto, se il mondo avesse vissuto un altro giorno, il loro ruolo sarebbe diventato nuovamente centrale, forse più che mai.
« Fede. » Gli rispose Medoro. Il Corvo annuì. E rispose semplicemente.
« Allora, prega. »
Qualcosa in quella risposta colpì Medoro. Il Corvo tornò alle sue faccende, certamente senza pensare troppo a quello che aveva detto, eppure Medoro rimase per alcuni istanti a meditare sul suo significato. Ma non trovò alcuna risposta alle domande, non trovò alcuna via d'uscita.
Quindi, semplicemente, incrociò le dita e iniziò a pregare.

qRckicI
Un tintinnio.
Lo udì distintamente. Un tintinnio nella pioggia. No, uno scampanellio, come se tanti gioielli si stessero muovendo in sconcerto.
Medoro si guardò attorno, ma nessun altro sembrava udire quel suono. Poi vide, lontano nell'oscurità della notte, oltre l'entrata spalancata della chiesa, una minuta sagoma avanzare. Si rialzò dall'inginocchiatoio sul quale si era prostrato, quasi incantato da quella visione misteriosa, e si avvicinò alla soglia. Le gocce di pioggia schizzavano sulle sue caviglie nude e il vento freddo sembrava penetrare nelle sue ossa, ma non gli importava.
Vide una giovane donna avvicinarsi a lui. Era una ragazzina completamente bardata di nero, se non per la presenza di innumerevoli campanelli e gingilli argentei che pendevano dalle sue lunghe vesti. Anche il suo capo era coperto, lasciandogli vedere solamente il suo viso, dolce e delicato, adornato, impreziosito da due grandi occhi castani. Poi Medoro si rese conto di qualcosa di ancora più strano: la giovane donna non era bagnata, neppure stando sotto a quella tempesta. Le gocce di pioggia attraversavano il suo corpo e le sue vesti come se non esistessero, come se lei fosse soltanto una proiezione, un'illusione.
I due rimasero a fissarsi a lungo, entrambi colmi di sorpresa, incertezza, trepidazione. Entrambi umani. Entrambi scelti per qualcosa di più grande di loro. Entrambi vittime di tragedie.
« Sei tu, dunque, l'uomo che può sentirmi. »
La voce della ragazza arrivò rarefatta alle orecchie di Medoro, come se fosse filtrata da un ostacolo. Medoro non capiva, quindi si limitò semplicemente ad annuire.
« Posso... sentirti. » disse. « Chi sei? »

Sei la risposta alle mie preghiere?

Medoro allungò la mano verso di lei. Era un gesto che aveva fatto mille volte in gioventù, verso le giovani fanciulle della vecchia capitale, tutte estasiate e innamorate. In qualche modo si sentì di nuovo come allora, ma stavolta sapeva che c'era qualcosa di più, di misterioso e ineffabile, che lo stava spingendo. Non badò a pensare se fosse Haym o il Sovrano, o chissà quale altro Dio. Non pensò a nulla, se non ad accogliere quella ragazza sperduta nella pioggia.
Lei protese la mano per accettare quel gesto, ma esitò, incerta. I suoi occhi tradivano una profonda insicurezza e la sua voce, si rese conto Medoro, era in verità tremolante. Poi lei afferrò la sua mano, e lo tirò con forza verso di sé, sotto la pioggia. La ragazza non poté trattenere una piccola risata. Il suo volto era così dolce e sereno, ricolmo di un sentimento nuovo, una gioia mai provata prima. Continuò a stringergli la mano, sembrava che non volesse mai lasciare la presa, e Medoro non l'avrebbe certamente mai allontanata.
« Io... mi chiamano Ombra. »
Medoro piegò il ginocchio, abbassandosi per guardarla dritta negli occhi, cercando di capire.
« Vieni con me, o prode cavaliere. » Sentendosi appellare in quel modo, Medoro non poté che fare un sospiro di sorpresa. Di gratitudine.

« Un lungo viaggio ci aspetta. Per salvare questa terra. »



Eccomi!
Allora, innanzitutto mi scuso per aver postato all'ultimo. Non pensavo che ce l'avrei fatta.
Ho cercato a lungo di mettere insieme i pezzi della trama del Dortan, è stato abbastanza difficile nonostante il riassunto. Ho comunque deciso di introdurre dei nuovi personaggi nella mia storia, perché credo che non abbia senso affidarsi eccessivamente a creazioni altrui che non conosco altrettanto bene per tessere un racconto efficace. Nonostante questo ho cercato di inserirli in un contesto appropriato e spiegato il più possibile, così che risultino credibili.
Nel mio racconto i poteri del Dortan dopo la chiamata psionica proveniente dall'Edhel (ribattezzato "l'Avvertimento") si stanno già mettendo d'accordo per creare un fronte comune contro il pericolo sconosciuto che sta per giungere alle porte. Il nuovo Presidente dell'Edraleo (finalmente Ladeca è diventata una vera e propria democrazia) è Alexander Terghe, un veterano di guerra, un uomo d'azione che si vuole distaccare dal doloroso passato dei Quattro Regni, di Caino e dei vari altri conflitti, portando Ladeca ad una nuova era di pace e di libertà dagli intrighi. Grazie al suo approccio viene eletto ed ora gestisce le redini della vasta rete di alleanze che si sta espandendo in tutto il territorio. Utilizzando i Sussurri (non ho voluto menzionarli troppo per non calpestare i piedi, eventualmente) Alexander e in generale il governo di Ladeca ha sparso per il Dortan la credenza che l'Avvertimento sia un messaggio del Sovrano che li urge ad unirsi per fronteggiare una creazione fallita di Ray, il suo Penultimo Errore (l'ultimo era sfidare gli dei durante il Crepuscolo). Alexander crede che manipolare la paura dell'uomo sia l'unico modo per controllarlo, e dunque riunire il Dortan.
Medoro è il personaggio principale del racconto. Dopo aver tentato di portare l'avvertimento di Haym all'Edraleo, il fu-cavaliere non può fare altro che rifugiarsi e aspettare che la tempesta passi -lui è solo un uomo, un traditore per giunta, debole e impotente- come potrebbe replicare il gesto di Rainier e radunare un'intera nazione? Ma è qui che si presenta a lui una figura enigmatica, una ragazzina che solo lui può sentire ed aiutare.
To be continued :fiori:

Edit: corretti alcuni errori e ripetizioni.


Edited by Verel - 14/11/2019, 16:49
 
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K i t a *
view post Posted on 12/11/2019, 16:55




I L   L A S C I T O   D E G L I   D E I

L’ULTIMO LEVIATHAN ❞.


kLux6po



«Ancora non capisco perché dovremmo farci guidare da lei.»
il piccolo goblin guardo di sottecchi il troll al suo fianco, che invece guardava di fronte a sé, in attesa.
«Ne abbiamo già discusso» rispose quello, la voce profonda.
«Bara-Katal ha ordinato questo. Seguiamo il suo ordine.» spiegò con calma.
Il suo temperamento sembrava particolarmente rilassato, come se non fosse veramente interessato agli eventi, attendeva pigramente il proseguimento degli stessi. Il goblin mugugnò, scuotendosi. Da quel movimento provenì un forte tintinnio, ninnoli che rimbalzavano uno sull’altro. A differenza del troll, pareva molto impaziente e innervosito dalla situazione. Stare fermo e in attesa non era cosa da lui. Una terza, esile figura stava leggermente in disparte rispetto ai due compagni, avvolto in un manto scuro e pesante. Non si intravedevano i lineamenti, si avvertiva solo il respiro pesante, rasposo.
«Solo che non capisco perché seguire la femmina umana.» borbottò il goblin.
«Ti ricordo che ti comprendo, Sapp.» intervenne una voce femminile.
Ryellia stava diversi passi più avanti, vicina all’ingresso della locanda, ma sempre nella penombra. Era accanto un uomo alto, con i lunghi capelli corvini legati in un’alta coda, il corpo coperto da un pastrano per ripararlo dal freddo. Sentì il goblin alle spalle sussultare e mugugnare di nuovo, mentre il troll ridacchiò divertito.
Ryellia sospirò. Era stato veramente complesso convincere Bara-Katal a fornire il loro supporto, le era costato ogni briciolo della sua persuasione. Era abbastanza sicura di potersi fidare della sua parola, e il fatto che avesse mandato quel piccolo contingente come prova della sua collaborazione le faceva ben sperare.
Era vero?
Poteva solo affidarsi al suo istinto.
Nervosa fissava la porta della locanda, in attesa che la Signora d’Oriente facesse la sua comparsa, vittoriosa. Se dubitava di Bara-Katal, non avrebbe potuto fare lo stesso di Dalys.
Se c’era una persona che poteva farcela, era proprio lei.
Se la Rosa desiderava qualcosa, la avrebbe ottenuta.
Le piaceva molto Dalys, del resto a chi non piaceva Dalys? Non era solo il suo fascino innato, era la sua storia ad affascinarla. Chiunque nei regni di Dortan conosceva la storia dei quattro regni, e del ruolo della Signora d’Oriente, e il modo in cui era riuscita a costruire se stessa e la sua fama era ammirevole agli occhi di Ryellia.

* * *

«Meglio per te che sia un buon piano» disse l’uomo biondo, uscendo fuori dalla locanda.
La donna si lasciò scappare un sorriso soddisfatto, spostando lo sguardo su Dalys.
Non ne aveva dubitato neanche per un secondo.
D’improvviso una figura si fece avanti, qualcuno che non aveva mai visto. Lo osservò, sorpresa e incuriosita al contempo. Sembrava conoscere il cavaliere, e si mise al fianco della Rosa, lasciando intendere che fosse un suo alleato.
Tanto le bastò, chiunque fosse schierato con Dalys, era schierato con lei.
Quando lo scambio tra i due terminò, attese qualche secondo prima di fare un passo avanti.
Lo sguardo del cavaliere si posò su di lei, e anche lei posò gli occhi azzurri sui suoi.
Ryellia Lancaster, non semplicemente esiliata, ma condannata a morte dalla sua famiglia.
Scappata,
scomparsa.
Erano due sopravvissuti a un gioco più grande di loro.
Risorti dalle proprie ceneri come due fenici,
dopo aver affrontato le proprie debolezze,
ed ora eccoli.
Di nuovo davanti a un pericolo mortale,
sarebbero riusciti a sopravvivere
adesso?

«Comandante Medoro» esordì lei, sorridendogli.
«È un piacere ritrovarla.» inclinò lievemente il viso, lasciando che i capelli dondolassero da un lato, per poi raddrizzarlo dopo appena un secondo.
«È un peccato che sia una vicenda così triste e terribile a farci incontrare.» continuò.
Il cavaliere osservò le persone davanti a sé, con espressione confusa ma curiosa.
«Vede, Comandante» la voce della donna si fece più vellutata, dolce
«sono lieta di offrirle una soluzione per questa complicata situazione».
Allargò un braccio, indicando i suoi compagni umani:
«Non siamo che rappresentanti di un nutrito contingente di uomini che è pronto a mettersi in marcia per difendere la propria vita, per riprendere da dove ogni cosa è stata interrotta.»
A queste parole l’uomo con i capelli corvini si mosse appena, un gesto nervoso che mal celava la propria irritazione al pensiero di cose il regno avesse loro strappato.
«Ma» continuò, prima che il comandante potesse fare qualsiasi commento a riguardo.
«Quello che le offro, Capitano, è altro.» e così dicendo si scostò appena, rivelando il trio alle sue spalle.
Quelli fecero alcuni passi avanti, mostrandosi alla tenue luce lunare e al bagliore delle torce.
Il piccolo goblin guardò il cavaliere con un grande sorriso cattivo, si muoveva in modo particolarmente scattoso, sempre accompagnato da quel tintinnio che si capì provenire dal grande sacco che reggeva sulla schiena.
Il troll era basso e minuto, con un il viso che ricordava un rospo.
L’altra figura si rivelò una creatura insolitamente mostruosa, esile e avvolto di stracci, con ben poco di umano: la sua carne era ricoperta da scaglie simili a bubboni purulenti e il suo viso era completamente scavato dalla presenza di denti affilati come rasoi, piccoli e sottili.
Lasciò che Medoro contemplasse i suoi tre ospiti, per poi cercare di attirare di nuovo la sua attenzione:
«Ecco la nostra proposta, comandante.» iniziò.
«A noi sta a cuore il destino di Dortan quanto a voi. Lasciateci aiutarvi. Il suo proselitismo ha avuto l’effetto sperato, del resto.» sorrise, con una punta di ironia nel suo sguardo.
«Ora sta a noi.» sentenziò.
«I pelleverde accettano di schierarsi accanto agli uomini. Tutti i pelleverde.» sottolineò.
Evitò di parlare del prezzo di quel contratto.
«Però non si sottometteranno mai più al soldo del regno. E questo è il principale dei nostri problemi, Comandante. Noi combattiamo per la libertà, per l’indipendenza. Non inchineremo il capo a un solo uomo. Vi portiamo forza, vi portiamo risorse, vi portiamo esperienza. Ciò che chiediamo, mio cavaliere, è il potere.»
concluse, con un sorriso ammaliante che le curvò le belle labbra rosse.

«Prendere o lasciare».


kLux6po



CITAZIONE
Scena coordinata al racconto di Anna e Gemini. I dialoghi iniziali tra i pelleverde e Ryellia sono in Aardens, che per praticità ho riportato in italiano e basta. :fiori:


Edited by K i t a * - 13/11/2019, 06:56
 
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view post Posted on 15/11/2019, 17:45
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Majo_Anna, Gemini, Kita

« Mi sono affidato alla più impensabile delle alleate, colei che ha scosso questi regni per anni. »

La Rosa d'Oriente era stata, ai tempi, una figura tanto ammirata quanto temuta dal cavaliere d'oro.
Eppure, ai suoi occhi sembrava l'unica opzione possibile.

« Forse sarà la mia rovina,
forse la salvezza di tutto il Dortan.
Solo il Tempo potrà dircelo.
»

Terminò l'ultima pagina del suo diario.
Un monito, il suo lascito alle generazioni future.
Posto che ve ne sarebbero state.

« Ormai, non ci resta che avanzare.
Non ci resta che combattere.
»

Avrebbe visto nuovamente il suo popolo combattere come uno.
L'esercito che non perde mai, lo aveva definito.

« Per il Sovrano.
Per il Leviatano.
Per il Toryu.

Per Zoikar.
»


CITAZIONE
Dalys passa a capo delle armate di Zoikar, relegando Medoro a un ruolo di secondo piano. Gli accordi con i pelleverde funzionano come pianificato da Ryellia e in pochi mesi riuscite a metter su un gran bell'esercito. Ecco cosa succede.
Per ognuno di voi ci sarà un personaggio, una "costante" che dovrà guidare il vostro post; non dei rimandi diretti o specifici fatti/eventi, quanto piuttosto una linea conduttrice che dovrà fare da sfondo a quello che scriverete.
Per quanto riguarda Anna, Dalys si trova al comando delle truppe e il momento di dimostrare che può guidare effettivamente il Dortan alla vittoria è giunto: i demoni si sono spinti fino ai territori dell'Ystfalda e, se non fermati, si impadroniranno dell'intero nord del Dortan. Bisogna fare qualcosa. Puoi essere autoconclusivo nei confronti di personaggi, ambientazioni, eventi e fatti e anche nei risvolti delle azioni che compi. Il personaggio "tema" per il prossimo turno, nel tuo caso, è Caino.
Per quanto riguarda Gemini, la situazione con gli altri regni è ancora traballante ed è giunto il momento di riunificarli una volta per tutte. Che sia con la diplomazia o con la forza, l'Oriente deve annettere a sé tutti i restanti regni umani. Zephyr e Medoro vengono incaricati di procedere in tal senso. Puoi essere autoconclusivo nei confronti di personaggi, ambientazioni, eventi e fatti ma non nei risvolti delle azioni che compi. Il personaggio "tema" per il prossimo turno, nel tuo caso, è il Re che non perde mai.
Per quanto riguarda Kita, la situazione sembra essere abbastanza stabile per i pelleverde, ma Bara-Katal non è riuscito a riunirli tutti; se gli orchi del deserto del See possono dirsi riuniti sotto il nome del pelleverde, quelli dell'Alcrisia non lo sono affatto e, anzi, trovano l'alleanza di Bara-Katal con gli uomini un tradimento. Ryellia deve risolvere la questione nel modo che preferisce. Puoi essere autoconclusivo nei confronti di personaggi, ambientazioni, eventi e fatti ma non nei risvolti delle azioni che compi. Il personaggio "tema" per il prossimo turno, nel tuo caso, è Raymond Lancaster.

Jecht

« Quando mi hai riportato quella spada, tre mesi fa, non potevo crederci.
Pensavo di averla perduta per sempre, il simbolo del mio ruolo qui.

Il mio pegno d'onore con gli abitanti del Regno.
»

Si bloccò di colpo, maledicendo le memorie che ancora lo relegavano a ciò che il Leviatano aveva costruito e distrutto per lui e per tutti i suoi fratelli del Dortan.
Ciò che un tempo prendeva il nome di Toryu, eco lontani che ancora sembravano perseguitare il cavaliere, ormai generale dell'esercito più folto di Theras.
Un esercito che ancora sanguinava, tuttavia.

« I territori d'oriente hanno dichiarato guerra al casato dei Vaash e la situazione politica al nord sta peggiorando drasticamente. »

Medoro aveva solo iniziato il compito di cui Haym lo aveva investito.
Il tempo però già affondava le proprie zanne sull'armatura del cavaliere.

« Cosa più importante, però, è la sfiducia che i pelleverde provano nei miei confronti.
Non ho fatto nulla per loro, quindi come possono invocare il mio nome e associarlo a quello di un comandante?
Sono solo un'inutile marionetta, ai loro occhi.
»

Posò la mano delicatamente sulla spalla destra del guerriero.

« Ho bisogno del tuo aiuto, Jecht.
Ancora una volta.
In nome di Zoikar.
»


CITAZIONE
Grazie al tuo intervento, semplice e simbolico (ma per niente sciocco) Medoro inizia a guadagnare consenso a Ladeca, prima, e sui territori circostanti successivamente. Tuttavia è solo al primo passo per riunificare il Dortan intero. Quello che ti viene chiesto in questo turno è di procedere con il naturale succedersi degli eventi: ciò che rimane dei quattro regni non è ancora unificato e difficilmente delle parole basteranno a mettere d'accordo tutti. Inoltre, c'è da considerare anche l'interezza del popolo dei pelleverde, che si sente quasi tradito dal non essere stato incluso in questa unificazione; sono in qualche modo ostili a ciò che rappresenta medoro, almeno per ora. Il cavaliere incarica proprio Jecht di risolvere la questione. Puoi essere autoconclusivo con personaggi, ambientazione, fatti e eventi e anche nei risvolti che hanno, almeno per la questione Pelleverde. Per la questione dei regni, invece, non puoi essere autoconclusivo nei confronti dei risvolti.

Ramses

« Mio caro Montu, il tempo stringe. »

Medoro picchiava nervosamente le dita sul tavolo, impaziente.
Ogni sua mossa sembrava essere un tentativo vano, il miraggio di ciò che un tempo era stato e di ciò che aveva creato per il Re che non perde Mai.
Aveva visto così tanto, eppure agli occhi del continente ora non era che uno spregevole bugiardo. Un banale imitatore.
Un'ombra.

« Ladeca ci sostiene, ma l'intero Dortan ancora non sa del mio intervento.
Che stia fallendo, Montu?
Che Zoikar si sia affidato all'uomo sbagliato?
»

Sconfitto, abbassò la testa.
Che dovesse rinunciare al proprio sogno di ribalta e rassegnarsi alla sua nuova condizione?

« Aiutami, Sussurro.
Consigliami la strada da seguire.
»


CITAZIONE
Gli scarti dei Sussurri, ciò che ancora rimane nel Dortan, sono ben poca cosa per fronteggiare il Kishin. Tuttavia è un passo in avanti verso la costruzione di un esercito; ora bisogna fare i restanti passi. Districandoti nella situazione del Dortan, Medoro chiede a Montu di consigliargli le prossime mosse, che dovrai poi descrivere. Puoi essere autoconclusivo nei confronti di personaggi, ambientazioni, fatti/eventi e nei risvolti delle tue azioni.

Verel

« Cosa... cosa
sono?
»

Il cavaliere non era più sul continente, ma in un sogno che appariva a lui come la più reale delle vicende.
A ogni passo sentiva di perdersi, di disgregarsi.

« Zoikar, io... sto sparendo? »

Rivolse lo sguardo al cielo, manifestato nell'assenza di esistenza.
Si trovava in un mondo privo di regole, costituito dagli incubi più malsani.

« Ho paura.
Non voglio morire. Non di nuovo.
»

Dopo tanto tempo avrebbe pianto, incapace di reagire.
Collassò al suolo, porgendo la mano destra verso un'inesistente figura.

« Ombra,
ti prego.
Salvami.
»


CITAZIONE
Hai iniziato molte sottotrame e hai creato molti spunti interessanti. In questo turno ciò che ti viene chiesto è di portare effettivamente a termine tutte queste trame. Puoi essere autoconclusivo nei confronti di personaggi, ambientazioni, eventi e fatti e anche nei risvolti delle azioni che compi.
Circa Medoro: il cavaliere sente di star perdendo sé stesso e il senno, di starsi svuotando. Puoi tranquillamente descriverlo come il "contraccolpo" al potere di cui Haym lo ha investito. Un uomo non può mischiarsi al divino; Medoro sta quindi cadendo a pezzi, lentamente. Se non fai qualcosa le naturali conseguenze di questo deterioramento lo porteranno alla morte. Puoi essere autoconclusivo nei confronti di personaggi, ambientazioni, eventi e fatti, ma non nei risvolti delle azioni che compi.


Dodici giorni di tempo, quindi fino al 27 Novembre alle ore 12:00.
Per qualsiasi domanda, mp o topic apposito.
Buon lavoro.
 
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view post Posted on 27/11/2019, 00:17
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Territori del Nord – trenta giorni fa

G7Vdnyx


Gli uomini sedevano attorno a un grande tavolo di legno. Una serie di candele proiettava lunghe ombre sui loro visi e sul pavimento nudo. Le pareti umide erano l’unico scudo contro il vento ululante e la neve oltre le finestre. Fuori freddo, dentro gelo, silenzio. L’uomo a capotavola, il volto mangiato dagli anni e dalle preoccupazioni, stava a capo chino con il viso dentro i palmi callosi. Gli altri, giovani o maturi che fossero, fissavano i propri piedi senza osare ribattere. Alla fine uno di loro, un uomo con il volto dipinto di disegni tribali e i capelli fieramente raccolti in piccole trecce, osò prendere la parola.


Quindi quello che state dicendo è che sono alle nostre porte…
“… e che non potremo fermarli. Solo ritardarne l’avanzata”.


Di nuovo silenzio. Non tutti erano al comando quando il nord era caduto la prima volta, sotto la scure della ribellione, o quando era stato costretto ad inchinarsi al concilio dei Pari. Altri avevano già provato il sapore amaro dell’umiliazione e della sconfitta.
Due cani sornioni sollevavano ogni tanto la testa, immobili davanti all’unico grande camino, un’illusione di calore che i presenti non percepivano.


Deve esserci una possibilità. Deve”.


L’uomo che aveva parlato pensava alle proprie figlie e ai propri nipoti, alle genti dentro le case annegate dalla tormenta, alle tradizioni e alle favole che sarebbero state travolte dall’ultima, imponente, distruzione del mondo. Dal giorno del Crepuscolo quegli uomini gelidi non avevano osato tremare, ma ora alcuni di loro riuscivano a stento a contenersi.
Il più anziano si alzò in piedi, schiarendosi la voce. Aveva atteso quel momento per dire ciò che doveva. La sua unica occasione.


In realtà…una possibilità ci sarebbe”.
Tutte le teste si volsero verso di lui all’unisono, come in una danza. Alcuni non stavano capendo, altri già speravano.
Ma lascerò che ve lo spieghi lei stessa”.


Una porta si aprì alle sue spalle. Dalys era rimasta in ascolto per tutto il tempo di quella pietosa riunione, aveva ascoltato i loro lamenti, annusato la loro disperazione. Un mantello di pelo candido la copriva, lasciando intravedere la camicia lattea e i pantaloni stretti. I capelli raccolti attorno alla testa le davano un’aria severa, quasi virginale.
Quasi.
Affiancò il capo del tavolo nobiliare del nord con un mezzo sorriso, consapevole di avere addosso tutti i loro sguardi.
La guardavano, la riconoscevano
si chiedevano
come
LeI QuELla SguALDRina
ma non era morta?
potesse avere qualcosa da dire.

Poggiò una mano guantata di nero sul legno, lasciando che si brunisse sotto il suo tocco rovente. Tutti percepirono l’odore di bruciato, tutti videro la fiamma scintillare nel suo sguardo.


Uomini del nord”.
La sua voce era pacata, ma riempì la stanza. Il fuoco venne dimenticato, in favore del suo corpo. I suoi occhi, due occhi immensi, divorarono la loro attenzione.
Il nemico è alle porte. Un nemico come non lo affrontavamo dal Crepuscolo. E questa volta siamo s o l i. Niente re, niente oracoli, niente giustizieri.
Solo.
Noi
”.


Li lasciò sprofondare, pronta ad afferrarli per i capelli. Li guardò in viso uno ad uno, considerando il loro potenziale, quanto avrebbero potuto darle. Non erano niente rispetto all’uomo che una volta era stato il suo dio. Formiche rispetto alla spia che l’aveva ingannata o al tiranno che aveva minacciato i suoi confini. Si morse il labbro inferiore.
Le sarebbero dovuti bastare.
Ma lei sarebbe bastata per loro?
Tu. B
a s t
e r a i?
Schiaccate lei e Rekla. Hanno rinnegato il Dortan.
Ri u sci rai a non d i s t r u g g e r l i ?

Scacciò quel pensiero.


Ma non temete. Non sono venuta sola. Io, Dalys del Dortan, ho portato un esercito – il mio esercito – nelle vostre terre. Insieme fermeremo quei bastardi, non li lasceremo entrare nei nostri confini. Insieme riporteremo la pace per coloro che amiamo.
Insieme rifonderemo un regno migliore di come sia mai stato
”.


Non se ne sarebbe più andata. Ripensò al momento in cui aveva deciso di consegnare quel regno in mano a un re senza nerbo e poi a quando lo aveva ceduto agli artigli del Priore. Ripensò a quando si erano guardati negli occhi e lei aveva deciso di ignorare la minaccia, abbandonando l’unica cosa per cui avesse mai combattuto, la sua unica casa. Ora poteva solo stringerne le ceneri tra le dita.
Caino l'aveva guardata
sapeva che se ne sarebbe andata
Ray l'aveva guardata
e nei suoi occhi c'era disprezzo
Lei si era guardata
.


Insieme.
Perché voi non siete soltanto il nord. E io non sono una puttana d’Oriente.
Perché insieme siamo il Dortan
”.


Strinse il pugno, lo piantò nel legno, lasciando un’orma cinerea. Li vide alzarsi, ancora in silenzio. Seppe che pendevano dalle sue labbra, seppe che sarebbe bastato poco.


Non tremate più. La fine si avvicina. La loro fine.
E il nostro inizio.
Li laveremo con il fuoco
”.


Un boato, le braccia levate con il pugno verso l’alto. Due nomi ripetuti.
Dortan.
Dalys.
Sorrise, un largo sorriso trionfante e sincero.

Il Vecchio Regno d’Oriente – anni fa



KC173Iq

La spia, l’uomo chiamato Kuro il Sanguinario, il cospiratore, il lungimirante, stava appoggiato al tronco di un ciliegio, inclinato come se stesse reggendo da solo il peso dell’intero mondo. Il suo volto era più scavato dell’età che portava e sotto gli occhi gli si erano disegnate pesanti occhiate. Guardava verso la donna ammantata di rosso che stava in piedi poco distante da lui, e sulle sue labbra le rughe di un sorriso sarcastico ripercorrevano antichi solchi.
La donna era senza tempo, su di lei preoccupazioni e dolori non avevano lasciato alcun segno, come se infondo non li avesse davvero vissuti. I capelli le scendevano lisci lungo la schiena, l’abito di seta tracciava il profilo delle ali di una grande farfalla. Nero. Oro. Rosso.
La donna non sorrideva con la bocca, ma negli occhi le brillava una scintilla ironica. Poggiava le mani sull’elsa della spada che anni prima aveva strappato dalle mani di un antico amore divenutole nemico. La sua figura sottile pareva una continuazione dell’elsa, svettante verso il cielo.


Perché lo hai fatto, amico mio? Perché mi hai tradito? Dopo tutto quello…


Lui sorrise. Forse trovava tenero quel suo aspettarsi qualcosa in cambio. Forse leggeva dentro di lei un’amarezza che gli era familiare. O forse credeva lei non volesse davvero risposte.


La colpa è soltanto tua, Rosa”.


Un battito di ciglia. Lei era appoggiata alla spada, la schiena incurvata a risaltare la curva dei fianchi.
E poi lei era alle sue spalle, gli afferrava i capelli sulla nuca con le mani, duramente, trascinandogli la testa all’indietro. Lui tratteneva il respiro e lei gli poggiava un bacio delicato su una guancia.


Cosa ho fatto? C O S A?


Credeva di non meritare tutti quegli inganni. Lei lo aveva aiutato. Lei aveva finto di morire per lasciar fuggire Re Sennar, il re che-non-ha-palle, il trono-che-trema. Lei aveva rinunciato al potere in nome del bene comune, aveva aiutato Shakan lo spettro. Lei si era opposta a Caino.
Più o meno.
Forse meno. Sapeva bene di non averlo fatto, di essersi limitata a rintanarsi dentro le mura.
Caino aveva detto
Io sono Caino.
Dalys la puttana aveva detto
Fai. Pure. Non. Mi. Riguarda.


Non hai fatto assolutamente nulla”.


La voce di lui era calma. Sapeva che non lo avrebbe ucciso, non lei. Lasciò la presa. Nel cuore sentiva il peso che ben conosceva, tra le labbra un sapore amaro.
Lui aveva ragione. Anche se avrebbe voluto strapparlo in mille pezzi, negare tutto, cancellare quello che era accaduto dalla storia.
Lui aveva ragione. Lei non aveva mai fatto nulla. Si era limitata ad allontanarsi sempre di più. Perché era questo quello che era: un’ombra che aveva creduto di avere un nome, una madre degenere, una donna che non sapeva amare, che aveva rinunciato a tutto credendo che sarebbe stata al sicuro solo nel proprio piccolo bozzolo, nella propria prigione dorata.
Aveva stretto i pugni. Lui le aveva cinto i fianchi con le braccia. Non era una stretta di desiderio, non più, non tra di loro. Era una sorta di conforto.


Non mi avresti mai voluto come regina. Non è questo che ero. Meglio Sennar.
Meglio Caino
”.


Lui aveva tratto un profondo respiro. Lei aveva chiuso gli occhi. La guerra aveva spazzato via le sue terre e il suo nome. La guerra aveva distrutto il suo piccolo sogno.
Non aveva più nulla. Nemmeno lui.


Questo è quello che pensi”.


Non era una domanda. Se ne era andato e lei non aveva cercato di fermarlo. Non voleva chiedergli se lui fosse dello stesso parere. Non voleva saperlo. Non voleva sentire qualcuno dirle che aveva fallito così tanto, che aveva perso tutti, che era stata colpa sua.
Si era inginocchiata, in quel giardino che era stato suo, aveva poggiato i palmi sul viso. L’erba attorno a lei era avvampata come paglia sotto la sua rabbia. Le lacrime erano evaporate tra le sue dita. Nessuno l’aveva vista piangere.
Meglio Caino.
Questo era quello che pensava quando aveva deciso di morire.

Territori del Nord – ieri

Era notte fonda. Nella grande sala dei ricevimenti adibita a dormitorio non si udiva alcun rumore. Il camino illuminava i volti tesi dei soldati preda di sonni agitati. Alcuni stringevano vecchie lettere tra le mani, altri speravano di poter raccontare quello che sarebbe venuto.
Davanti al grande camino, il giovane con i capelli scuri allungava i piedi verso le fiamme, seduto sulla pietra fredda, avvolto nel pesante mantello. Distendeva le dita intorpidite con le punte arrossate, guardandole come se fosse la prima volta.
Gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla, eppure lui sobbalzò ugualmente, alzandosi in piedi.


Signora!


Lei gli sorrise. Il fuoco disegnava riflessi ambrati sulla sua pelle arrossata da un bagno recente e sui suoi capelli ancora umidi. Portava ancora casacca e pantaloni, come il giorno in cui era arrivata, ma i capelli sciolti e le mani nude le davano un’aria più rilassata, quasi confidenziale.
Lui arrossì, notando solo in quel momento le leggere fossette asimmetriche che le si disegnavano agli angoli delle labbra quando era divertita.
Gli prese le mani nelle proprie, così morbide, così tiepide.


Domani è il giorno”.
Gli occhi di lei erano indecifrabili, tradivano appena il suo turbamento. Lo guardò annuire, convinto.
Domani scriveremo la storia”.


Lei sorrise ancora. Quel giovane era veemente. Ingenuo.
Solo.
Eppure il fuoco del suo ardore non pareva spegnersi. In quella penombra, dove anche l’anima si concedeva di sbirciare tra le pieghe della pelle, lui non tradiva alcun ripensamento.


Puoi andartene, se vuoi, nessuno potrebbe biasimarti”.
Lei lo aveva fatto, dopo tutto. E aveva dovuto morire per rendersi conto di aver sbagliato.
Con una meretrice al comando al comando non è detto…


Doveva dirlo a qualcuno, anche se si era ripromessa di non farlo, di mostrarsi sicura davanti a quegli uomini che rischiavano tutto. Lei non avrebbe comunque perso nulla, eppure vacillava al pensiero di ciò che li aspettava.
Il giovane scosse il capo, deciso.


Siamo venuti fin qui per combattere al vostro fianco. Che sia una vittoria o una sconfitta, sarà una vita ben spesa.
Voi siete la nostra signora
”.


Si era portato una mano di lei al petto, quasi a volerle donare il proprio cuore in quell’esatto momento, senza aspettare il mattino.
E la mano di lei, quella mano che aveva toccato così tanti corpi, aveva tremato, temendo di sporcare quella creatura tanto innocente, tanto entusiasta. Lei che per tanto tempo aveva dimenticato l’ardore di combattere per un ideale, sentì tremarle le braccia e le gambe, come se stessero per separarsi dal corpo.


Io…


Si chiese se Kuro avesse provato quello stesso freddo quando progettava la propria ribellione. Se il suo cuore si fosse messo a battere forte dentro lo stomaco, se l’idea di corrompere i cuori altrui lo avesse fatto sentire piccolo, meschino, insignificante.
Si chiese se Caino avesse mai pianto nella propria stanza a cui nessuno aveva accesso, se si fosse mai strappato i capelli o avesse mai nascosto il viso dentro il petto di qualcuno in cerca di conforto, in cerca di quella sicurezza che credeva di non avere.
Se loro avessero mai vacillato.
Come lei sempre.


Io…


Lui la guardava negli occhi, lui che non aveva visto niente. Lui che credeva giusto morire per lei e non aveva idea di cosa volesse dire sentire l’esistenza battere i propri ultimi rintocchi. Che non aveva mai guardato il corpo morto di qualcuno che aveva amato, che forse non aveva mai nemmeno spezzato l’esistenza di un nemico. Lui che non aveva baciato il proprio avversario prima di affondare la lama. Avrebbe meritato di imparare la guerra da un uomo degno. Avrebbe meritato di poter tornare da sua madre con una cicatrice e una leggenda. Di sposare la donna giusta e amare quella sbagliata e vivere fino a perdere quei lunghi capelli e conoscere i propri nipoti.


Io…


Lei, che aveva combattuto per il Re Invincibile e contro il Priore, non era poi tanto diversa da quel nemico che non era riuscita a sconfiggere. Era solo più paurosa, più sola, più incapace di essere un leader. Kuro aveva ragione: lei aveva già perso in partenza, lei non aveva fatto nulla. Non lo avrebbe mai fatto. Non poteva.


…ho paura”.


Sola.
Sei s o l a.
Senza un re.
Senza un nemico.
Peggiore di tutti.
Adesso cosa.
Farai?
Cadde in ginocchio davanti a lui, le mani ancora nelle sue. Abbassò il capo, lei, così orgogliosa. Si era sempre detta di essere migliore.


È tutto una menzogna, quel discorso, questa battaglia, questa promessa. Io non sarò mai regina.
Non sarò mai un priore come lo era Caino. Non ho potere e non ho carisma.
Moriremo tutti.
Vattene finchè puoi
”.


L’aveva guardato, questa volta per davvero. Questa volta con gli occhi della donna che da anni non era, della madre tradita, della figlia sola che non era mai riuscita a liberarsi dal proprio incubo.
Lui aveva taciuto, poi con un dito le aveva asciugato quelle lacrime bollenti che stavano già evaporando. Le aveva sorriso. Non capiva come lui riuscisse a non tremare a non allontanarsi da lei, dal mostro che era stata, dalla bugia che era.


Dalys. Questi uomini non cercano una regina.
Non cercano un priore.
Non cercano un Re Invincibile.
Cercano una speranza. Sono figli di un’epoca che corre verso la propria fine. Come moriranno è una loro scelta.
Con che speranza combatteranno, invece, è merito tuo
”.


Si guardarono. Ora era lui a scaldarle le dita tremanti. Lei piangeva ancora. Piangeva per quegli uomini addormentati che avrebbero creduto in lei. Per se stessa, perché era la loro unica possibilità di farcela. Per quella sua anima tenuta insieme con una fragile impalcatura. Per quello che avrebbe dovuto fare, anche se non era certa di riuscirci.
Si alzò in piedi, i capelli le scivolarono sulle spalle. Austera, bianca, nera, rossa. Ripensò a Kuro, che in fondo doveva averlo sempre saputo. Sorrise di un sorriso incerto, infantile.


Se questa deve essere la fine, ebbene sono onorata di dividerla con te”.


Gli rivolse un inchino. Non desiderò farlo proprio, non desiderò passare la notte in inutili divertimenti. Si sedette davanti al fuoco, in attesa dell’alba, mentre lui lentamente si assopiva.
Se questa è
la f i n e.
Sono onorata di morire non per un
re
non contro un
Caino.
Ma al fianco di q u a l c u n o.
Come Dalys.


Terre del Nord – ora



BpiyT31

Le truppe erano schierate alla sommità del grande vallone. Davanti i fanti del nuovo regno d’Oriente, con le lunghe picche e gli scudi rettangolari, in formazione. Dietro i cavalieri e i guerrieri in armatura del nord. Sulle alture arcieri e balestrieri.
Oltre tutti, accanto ai nobili, a cavallo di uno stallone bruno, Dalys, la Rosa, osservava le orde scomposte dei nemici avanzare verso di loro, denti irregolari nella bocca spalancata dell'inferno. Centinaia, forse migliaia, non abbastanza per farle paura, non più. Il suo viso senza trucco era stanco ma imperturbabile. Gli uomini guardavano verso di lei e lei sfidava il vento ululante.
La sua voce risuonò forte e chiara sopra il nevischio e lungo il pendio, coprendo le urla dell’orda che da lassù sembravano vagiti perversi.


Uomini! Abbiamo udito il grido di avvertimento e i passi dei nemici che avanzavano. Presto ci incontreranno, faccia a faccia. Io sarò in mezzo a voi, perchè finchè saremo uniti nessun invasore potrà varcare la nostra linea e minacciare questa terra o coloro che amiamo”.
Prese fiato. Vide le spalle di alcuni irrigidirsi. Poteva percepire la loro paura.
Loro credono di essere l’orda mandata a distruggerci, credono di essere l’inferno. Contano di trovare smidollati in preda al terrore.
E invece sono stati sfortunati
”.


Qualche risata. Sorrise anche lei, anche se le sue labbra erano livide per la tensione.
Ho paura.
Pensò a quelle mani sudate che avevano stretto le sue, infondendole coraggio coraggio. A quel ragazzo che era stato più saggio di lei.
Non era il momento di fallire, non più.


Perché oggi non importa quanti siano, o chi sia ad averli mandati. Oggi assaggeranno la spada del Dortan. Oggi ingoieranno un po’ di crepuscolo”.


Un grido, il loro grido, che divenne il suo grido prima di potersene rendere conto. Forse qualcuna di quelle bestie si zittì nel sentire il furore degli uomini rimasti silenti per troppo tempo.
Si alzò sulle staffe, la tormenta le sciolse i capelli, uno stendardo corvino per quella battaglia mortale.


Quando questa battaglia sarà finita, che sia nel regno degli spiriti o in questo stesso luogo, banchetteremo sui loro cadaveri.
Morte ai nemici del Dortan!
Morte ai nemici del Toryu
”.


Morte ai M I E I nemici.
L’urlo fu così fragoroso che per un attimo tacque anche il vento. Lei frustò il cavallo, spingendosi in avanti verso i suoi uomini.
Era così che iniziava la loro rivincita. Era così che finiva la sua fuga, con la spada levata per tutti coloro che avevano creduto in lei, per Zephyr, per Ryellia, per Sennar.
Per Kuro.
E per Caino, a cui avrebbe proprio voluto mettere in culo quella vittoria.



 
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view post Posted on 27/11/2019, 00:28
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Darth Side
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Loro. Loro due. Soli
Così diversi nello spirito quanto negli ideali.
Eppure uniti dallo stesso stendardo.
Quello di un Sovrano scomparso ma mai dimenticato.
E, ora, il destino gli aveva imposto la più ardua delle prove,
la stessa compiuta dal Re che non perde mai anni addietro.
Come se loro potessero paragornarsi a lui.
Come se loro due, soli, potessero sperare di eguagliarlo.



I M P A R E G G I A B I L E



Gli occhi sgranati, le gambe tremanti.
Un rivolo di sudore percepito sotto la folta barba scura e ispida e il cuore che batteva all'impazzata.
Le gambe incerte parevano non volersi muovere, la mano che impugnava la spava tremava visibilmente, minacciando di fargli perdere una presa mai così traballante in tutta la sua vita di soldato.
Sentiva di dover provare a reagire innanzi al ruggito atavico del mostro, di dover combattere, di provare a fare qualcosa, qualsiasi cosa che fosse affrontare il suo destino o scappare miseramente a gambe levate. Ma non riusciva a muoversi. Paralizzato dall'orrore che gli si parava davanti agli occhi, una tetra defromità manifestatosi lì, nel suo villaggio.
Non ci aveva creduto, non aveva voluto crederci.
Solitamente i viandanti narravano delle loro peripezie, recitando abilmente per far credere di aver trovato lungo i propri viaggi di laghi incantati oltre la Ystfalda, caverne piene di artefatti magici nei regni d'Oriente, mostri nati dal ventre della terra nel silenzioso deserto dell'Akeran, tutte storie diverse, niente più di favole che aveva lo scopo di incantare i bambini e gli adulti più sognatori per racimolare un pò di attenzione o dare valore alla mercanzia che portavano con sè. Negli ultimi tempi però le storie erano sempre le stesse; e gli abili attori che prima parlavano di sconfinate o miracolose ricchezze, avevano gli occhi colmi di terrore mentre narravano di abomini d'ombra, apparsi nel cuore nella notte in quello o quell'altro villaggio, uccidendo i pochi soldati accorsi ad affrontarli e smembrato facilmente i paesani disarmati. Era un castigo, aveva sentito dire, una punizione divina.
Come se gli umani con i loro difetti avessero spezzato il sogno degli Dèi e questi, in risposta, avessero preso a partorire i n c u b i.
Non stava sognando. Aveva visto in lontananza grandi spirali di fumo nero che offuscavano il placido cielo notturno e sotto di esso un grande incendo che avvampava già diverse abitazioni e, davanti a esso un mostro con pelle color pece, e fattezze vagamente umanoidi, il volto liscio e senza occhi, crepato in mezzo solo da una fessura circolare riempita da zanne bianche come la luna. Aveva spalle larghe e disallineate, braccia così lunghe che i dorsi delle mani sfregavano sul terreno polveroso ogni qualvolta questi si muoveva in avanti con passo ciondolante. Il suo ruggito pareva un lamento di eterna sofferenza, profondo come l'antro più scuro del mondo, capace di far sprofondera l'animo umano in un baratro senza fine.
La morte incarnata.

« Che il vostro animo non vacilli uomini! »

Come ipnotizzato dal mostro che avanzava verso di lui, non si accorse della voce oltre le sue spalle.
Non riusciva a staccare gli occhi dal mostro, quasi come se la minima distrazione avrebbe potuto decretare la sua morte.
La parete di una casa mangiata dalle fiamme crollò rovinosamente per strada, e il mostro ruggì nuovamente per un tempo che gli parve infinito, dando fondo a tutta l'aria contenuta nei suoi nefasti polmoni.
Sarebbe quasi certamente svenuto dalla paura, se non fosse stato per quella mano che sentì appoggiarsi sulla spalla. Un tocco dolce, sicuro e una figura vestita di un'armatura dorata che lo superò di un passo, una spada di lucente metallo pronta a ingaggiare il combattimento.

« Non avere paura. Non è ancora tempo di morire. »

Non riuscì a vederlo in viso, ma la sua sola voce era riuscito a calmarlo più di quanto avesse sperato.
Alle sue spalle, sentì lo sferragliare delle armature dei soldati, i suoi compagni, che uan volta raggiunto lui e il misterioso cavaliere, puntarono le picche per terra, in attesa di ingaggiare il combattimento. Nessuno di loro fiatò, limitandosi a cenni del testa che denotavano un'intesa figlia di un'amicizia che durava da molto tempo e poi attesero tutti in attesa del cavaliere alla testa del loro gruppo, mentre il crepitare del fuoco cresceva di intensità.
Come l'eroe delle storie che gli avevano raccontato da piccolo, dotati di armi scintillanti e una splendida armatura, volontà incrollabile e una maestria di spada senza eguali; li avrebbe guidati a sicura vittoria, per poi festeggiare con loro una volta passato il pericolo.
Avrebbe voluto dirgli come il mostro, una volta ghermiti gli uomini tra i suoi artigli li facesse e s p l o d e r e in una chiazza di liquame color tenebra, ma non lo fece. Un eroe come quello sapeva già tutto su come combattere un mostro, sicuramente più di un soldato comune come lui. Era un semplice uomo, incapace da solo di compiere un'impresa tanto ardua.
Deglutì, la gola secca a causa del divampare delle fiamme sempre più alte, e rinsaldò la presa sulla spada.
Vide il cavaliere girarsi per un istante nontandone i capelli biondi rifulgere della luce del fuoco e lo sguardo colmo di ardente decisione.
Passò un istante, e poi l'eroe si lanciò all'assalto del mostro.
E tutti loro lo seguirono, pronti a supportarlo per salvare la loro casa da una minaccia che nessuno aveva mai pensato di dover affrontare.



Come avrebbero fatto? Quanto tempo avrebbero impiegato?
Tanti, troppi regni si spartivano il Dortan, e altrettanti sarebbero stati i Regni da convincere.
Potevano veramente riuscire anche loro dove solo Lui aveva trionfato?
Come potevano due servi fedeli come loro anche solo pensare di compiere le Sue stesse gesta?
Oltre alle sue grandi doti Lui aveva potuto contare su Chevalier e su Persona.
E loro avevano solo cenere e spade.
Poco, troppo poco.



Medoro passò il resto di quella notte e tutto il giorno seguente a aiutare gli abitati del villaggio nel rimuovere le macerie delle abitazioni distrutte e a scavare le tombe sulle quali coloro ancora in vita avrebbero potuto piangere i morti, uomini e donne che il mostro aveva trasformato in grumi di sangue nero schizzati qua e là, non lasciando nemmeno un corpo da piangere ai propri cari.
Chi era riuscito a farsi forza, si era unito a lui in quel suo blando tentativo di far tornare il villaggio alla normalità il prima possibile. Gli altri, invece, si erano radunati in piazza, penitenti, mentre quello che all'apparenza sembrava un comune viandante li ammoniva per i loro peccati, e come l'unica loro speranza di salvezza sarebbe stata dirigersi a Oriente per unirsi al comando di una Regina lontana in quella che sarebbe stata l'ultima grande guerra della loro tempo; contro gli stessi demoni che ora minacciavano le loro vite. Gli altri regni stavano già accorrendo, diceva. Dovevano sbrigarsi perchè il crepuscolo incombeva su di loro, su tutto Theras. E loro tra ansiti e sospiri timorati, inginocchiati e con le mani giunte, pregavano che gli Dèi accogliessero le loro preghiere e che i loro soldati imbracciassero le armi.
...se solo i governi fossero stati così accomodanti da accogliere la voce di chi veniva governato.
Medoro voltò lo sguardo dall'altra parte, fuggendo il sermone per tornare a prodigarsi con coloro che, invece che genuflessi, stavano cercando di dare nuovamente una parvenza di normalità al luogo che abitavano.
Sarebbe stato difficile non credere alle parole dello straniero dopo la tragica notte appena trascorsa. Presto quelle voci sarebbero state amplificate da chiunque le avesse udite in principio, propagandosi fino a giungere anche al più sordo di loro.
Tutti avrebbero saputo.
Troppo spaventati, avrebbero creduto anche alla più inverosimile delle storie pur di aggrapparsi a un'insperata possibilità di sopravvivenza.
Un pò come avevano sempre funzionato le religioni, solo che questa volta la minaccia era stata più tangibile che mai, rispetto all'astrattismo delle deformità con le quali i vari credo li avessero mai intimoriti.
Il tramonto giunse in fretta e con esso la quiete. La paura e la concitazione si affievolirono al calare di un tiepido silenzio, e dopo una notte insonne e una giornata passata a faticare, Medoro rincuorò un'ultima volta le guardie -i cui turni erano stati raddoppiati- , obbligandosi infine a riposarsi.

Dopo averlo salvato la notte precedente, Brennt, un corpulento soldato dell'Arconte Doleos, con barba ispida e occhi nocciola aveva insistito perchè si unisse a lui a cena, offrendogli anche un riparo per la notte. Non aveva famiglia, gli aveva detto, e poteva quindi permettersi di concedergli una stanza per la notte. Medoro aveva accettato l'invito di buon grado approfittando dell'occasione per spiegargli il motivo della sua visita: la sua missione. Scoprendo come Brennt -questo il nome del padrone di casa- avesse in gioventù sognato di diventare un eroe senza macchia della capitale, senza aver però mai avuto il coraggio di abbandonare il luogo dove aveva sempre abitato, e dove tutt'ora resideva. Dopo averlo ascoltato, Medoro lo pregò di non chiamarlo eroe, evitando di incedere sugli anni che lo avevano visto rifugiarsi tra i vicoli come un ratto, prodigandosi invece nel convincerlo di come la missione che seguiva ora dovesse avere la priorità su tutto.
Si lasciò andare, raccontando a Brennt tutto ciò che aveva bisogno di sapere. E, alla fine, Medoro si augurò -come poche volte aveva fatta in vita sua- di aver fatto breccia nell'animo di quell'uomo.
Era una possibilità che non poteva sprecare.
« Il male incombe su di noi. » parlò sinceramente, calmo, come se averle ripetute così tante volte gli avessero fatto perdere di vista il loro spaventoso significato -che entrambi avevano toccato con mano la sera prima. « su tutti noi, Brennt. » Aveva insistito sui particolari più macabri così da farlo pensare sempre di più alla notte prima, a quanto fosse spaventato e inerme innanzi a coloro che minacciavano l'intero Theras. E l'aveva visto sfregarsi le mani sudate più di una volta, lo sguardo lacerato da ferite ancora troppo fresche perchè potessero essersi già rimarginate.
Quando decise che fosse stato abbastanza, poi, Medoro mosse la propria richiesta e Brennt, benchè combatutto, vedeva sempre più chiaramente la r e a l t à che avrebbe presto dovuto affrontare. L'avrebbe vista come l'unica possibilità di salvezza.
...
« Al momento giusto possiamo tutti essere eroi. E non servono spade scintillanti o armature magiche. »
Tentò di incoraggiarlo, provando a dissiparne i dubbi « L'onore è certo importante, ma anch'esso non è fondamentale in alcune occasioni. » Deprecabile da parte sua parlare così dopo che, a tutti gli effetti, aveva abbandonato il proprio onore tempo addietro, in un vicolo lurido della capitale.
« Sono i sacrifici quelli che definiscono gli eroi. » Medoro fissò il proprio calice di vino, agitandolo debolmente tra le dita « E più il compito dell'eroe è importante, più grandi essi sono »
Svuotò la coppa in gola, sperando di aver fatto abbastanza per una sola sera.
Il proprio interlocutore pareva voler fissare anch'egli solo il proprio calice finchè, a un tratto, bevve anch'egli tutto il vino un solo sorso, sperando che il calore dell'alcol rischiarasse la foschia di pensieri che gli si arrovellavano in testa.
A Brennt interessava il bene del villaggio sopra ogni altra cosa. Non aveva affetti di cui preoccuparsi, ma questo aveva fatto sì che tenesse ancor di più alla comunità dove abitava, dove era nato; dove aveva sempre vissuto. Anche per questo aveva deciso di diventare un soldato.
Medoro, per un momento, si chiese quante persone nel corso delle sue conquiste fosse state ingannate dal Re che non perde mai, e come avesse potuto sopportare il peso di tutte quelle menzogne.
« E sia, Medoro » Brennt aveva alzato lo sguardo verso di lui, le guance arrossate dal vino « Se davvero gli Dèi ti hanno investito della loro sacra missione, avrai la tua udienza dall'Arconte come mi hai richiesto. » battè il pugno sul petto in un gesto che a Medoro parve a metà tra una promessa e un saluto tra compagni d'arme. « Il giorno seguente all'indomani, attenderemo l'arrivo del tuo compagno e poi vi condurrò dall'Arconte. » Battè un pugno sul petto « Mi ascolterà, vedrai. »
...non ci credeva nemmeno lui, glielo lesse negli occhi.

« Ti ringrazio, Brennt. » Poggiò le mani sul tavolo, alzandosi stancamente dalla sedia, esausto dopo una notte insonne e il giorno passato a faticare insieme agli abitanti.
« La mia è la causa più giusta che tu possa mai sperare di servire in vita tua » gli parlò sinceramente, gli occhi velati di una leggera malinconia. Tempo addietro, qualcuno avrebbe potuto recriminare per la dubbia moralità del Monarca che aveva giurato di servire -anche se pochi avevano osato tanto in sua presenza. Mentre ora, al cospetto degli Dèi, e di fronte a una minaccia così grande, nessuno avrebbe potuto addurre critiche a ciò per cui si stava prodigando.
Forse solo sui loro metodi.
« Devo riuscire a compiere questa missione e... non c'è altro modo. »



Non gli rimanevano più altre possibilità.
Non c'era tempo e avevano finito le idee,
e quella era stata l'unica intuizione che gli era parso poter funzionare.
Potevano davvero tentare di fare ciò che lui aveva fatto?
Non sarebbe stato come t r a d i r l o il solo pensare di ergersi al pari di lui?
Medoro aveva tentato una prima volta con la diplomazia,
fallendo miseramente e evintando per un soffio scontro armato.
Per quanto odiasse negarlo, Zephyr non poteva certo radere al suolo i villaggi e le fortenzze.
Altrimenti avrebbero raccolto solo cadaveri e cenere invece di un esercito.
Inevitabilmente, si chiesero cosa avesse fatto Lui al loro posto.



Medoro era stato di parola.
Lo avevano atteso al limitare del villaggio, dal quale, a poca distanza, si intravedeva già la loro destinazione.
Zephyr non aveva mai dubitato delle capacità in combattimento del cavaliere, ma dopo essersi divisi i compiti si era chiesto più di una volta se quegli anni trascorsi da reietto avessero levigato la sua moralità al punto da renderlo capace di ciò che gli era stato chiesto.
Quando ancora il Maniero Bianco era intatto, tra le menzogne e i complotti dei cortigiani Medoro era sempre stato il caposaldo integerrimo dell'onesta, intonso quanto la sua armatura, rifuggendo qualsiasi tentativo di corruzione da parte un ambiente per la gran parte viziato dai complotti. Ma nel vedere lo sguardo deciso del soldato che li accompagnava -aveva detto chiamarsi Brennt- Zephyr si era dovuto ricredere.
Forse le ideologie della sua gioventù erano sfumate, forse la vita da reietto l'aveva costretto a adattarsi.
Forse era solo diventato più furbo: una dote non da poco.
Finora non aveva disatteso quanto promesso, e quindi, come da accordi, avrebbe lasciato che fosse lui a rivolgersi all'Arconte con la consueta diplomazia per provare a persuderlo a ammorbidirlo anche se, da quello che sapevano, il governatore di quelle terre era un codardo, avido e dittatoriale. Solo Brennt non aveva ancora perso le speranze nei suoi confronti.
Arrivarono in breve alla residenza dell'Arconte, che a Zephyr ricordò vagamente una delle tante tenute estive che i nobili solevano utilizzare ai tempi del Re che non perde mai per rifuggere l'atmosfera greve che spesso si respirava nei meandi del Maniero Bianco. Un posto dove i deboli fuggivano.
Ebbe anche l'impressione di esserci già stato, di averlo già visitato in un'occasione che era sicuro non avere alcuna importanza, ricordando però come nessuna dimora di nobili che avesse scorto -quando era ufficiale del Re- fosse così fatiscente.
Era un anonima e piccola rocca, con una corta cinta muraria e una manciata di torri, posta strategicamente in cima alla collina, ma benchè non fosse avido di dettagli di quel posto che presto avrebbero conquistato, gli riuscì difficile non notare come l'incuria avesse conquistato quel posto prima di loro.
Una folta e verde edera penzolava su gran parte dei bastioni esterni, e laddove la pietra era libera dalle piante vide mattoni sbeccati e pronti a sgretolarsi al minimo tocco. Una delle torri era crollata per metà e un altra mostrava uno squarcio su un fianco.
Un edificio confacente a un'aristocrazia decaduta, polveroso e umido. Solo l'ombra di ciò che un tempo era stato.
In disgrazia, come il resto dei nobili del Dortan.
Oh, quanto avrebbe riso Lui delle disgrazie di coloro che lo avevano soppiantato.
Brentt fu il primo a arrivare. Salutò i due soldati di guardia ai lati del portone con un gesto della mano e, con uno schiocco delle briglie aumento il passo del cavallo, distanziandoli quanto bastava per arrivare prima di loro e far sì che tutto andasse come pianificato.
Sicuro che ora nessuno potesse sentirli, Medoro si volse verso di lui. « Mi sembri stanco, Zephyr. Posso procedere da solo, se preferisci. » Per quanto stanco a causa degli sforzi eccessivi a cui si era sottoposto incanalando ben più potere magico di quanto normalmente potesse permettersi di fare, Zephyr si chiese quanto evidente fosse la sua spossatezza, per far sì che Medoro si preoccupasse per lui.


« No, posso farcela. » Si erano fatti carico di quel fardello entrambi, e voleva essere presente a ogni costo, per assicurarsi che tutto funzionasse « Non avverto la presenza di particolari pericoli, quindi anche se la situazione dovesse degenerare non dovrai preoccuparti della mia incolumità se è questo che intendi. »


« Sono stati giorni impegnativi, sia per te che per me e non... » Prima che potesse terminare la frase il cavaliere si accorse di essere ormai a ridosso dell'ingresso e, capendo di non poter più parlare liberamente, salutò le guardie con un educato sorriso. Zephyr li degnò appena del proprio sguardo.
Smontarono etrambi da cavallo, lasciando le briglie ai soldati che avevano appoggiato le proprie picche alle mura, offrendosi di condurre i loro cavalli alle stalle mentre i cardini del portone cigolarono tetri per spalancargli le porte di quel rudere umido e ombroso.
Se non avevano nemmeno dei paggi in grado di prendersi cura delle cavalcature degli ospiti, dedusse, anche la servitu incaricata delle pulizie doveva essere piuttosto scarsa.
Sempre preceduti da Brennt, con il fiero portamento dei cavalieri e dei dignitari, attraversarono con schienza dritta e mano sulla propria spada un paio di lugubri corridoi dove la luce del giorno filtrava da strette feritoie verticali, puntando lo sguardo avanti a loro in attesa di arrivare al cospetto di quello che si proclamava regnante di quelle terre povere e brulle.
Arrivarono in breve tempo al salone principale della rocca, una sala alta e rettangolare, con diverse porte ai lati che conducevano a sale più modeste o altre corridoi, sparuti e polverosi stendardi logori tinti in lontano passato di un rosso acceso e ora sbiadito pendevano inerti dalle pareti e un largo finestrone dal lato opposto al loro irrorava con bianca luce del mattino, svelando ogni piccoloo e decadente dettaglio della sala. A qualche passo dall'ampia vetrata, poco davanti a essa, un paio di scalini conducevano a un piccolo podio sopra il quale poggiava uno scranno di pietra, la cui ombra si allungava per tutta la lunghezza del salone, fino ai loro piedi.
Seduto mollemente su di esso, una sagoma di un uomo non più nel fiore degli anni, ticchettava le propria dita su un bracciolo. E ai suoi lati, una decina di guardie attendevano in piedi, con la picca poggiata a terra e l'elmo a coprire i loro sguardi.
« Vi porgiamo i nostri omaggi, Arconte Doleos.» Medoro si esibì un debole inchino, piegando il braccio sull'addome e chinando lievemente il capo. La deferenza avrebber importo loro di inginocchiarsi, ma entrambi sapevano che egli non era un Re, tantomeno il loro Re. Zephyr si prodigò nello stesso movimento, seppur più svogliato. « Come ser Brennt vi avrà già informato, siamo messi di sventura. Grame sono le notizie che portiamo, e meste saranno per voi le nostre parole. » il tono di Medoro si fece più deciso « Ma con noi portiamo anche speranza. »
Zephyr ebbe l'impressione che l'Arconte li sottovalutasse, al punto da non richiedere nemmeno che consegnassero le armi che tenevano alla cinta prima di presentarsi al suo cospetto. Indolente, o forse semplicemente troppo stupido e pieno di sè per curarsene. Con gli occhi che si erano abituati alla forte luce davanti a loro, notò come egli avesse fili grigi tra i capelli castani, senza barba e lo sguardo a metà tra il tedio e l'irritazione. Li stava scrutando dalla testa ai piedi, soppesandoli con silenziosa arroganza e smuovendo in Zephyr un nervosismo che forse non sarebbe riuscito a trattenere.
Dopo un paio di istanti l'Arconte si alzò per replicare al cavaliere giunto da lontano. « Mi dolgo quindi nell'apprendere le vostre nefaste notizie, ser Medoro, ma vi informo che sono già stato messo al corrente del motivo per il quale siete giunti fino alla mia dimora. Brennt me ne ha parlato ieri, e so bene cosa ne pensi il popolo di tutto questo, di come siano terrorizzati da questa guerra che andate profetizzando. »
Zephyr non ne fu sorpreso. Un umano che aveva provato a evitare l'inevitabile, uan storia vecchia come il mondo.
Si sarebbe aggrappato a qualsiasi cosa prima di trovarsi davanti alla scomoda verità. E invece di fidarsi ciecamente di ciò che gli era stato offerto aveva tergiversato. Come stava tentando di fare Medoro, anche Brennt aveva provato a evitare quello che anche per lui sarebbe stato lo scenario più sconveniente.
« E soprattutto quali richieste siete volete avanzare a me!.» L'Arconte picchiò il pugno sul bracciolo del suo freddo trono di pietra, alzando repentinamente e con sguardo furioso e l'indice che si alternava a puntare entrambi gli avventori che si erano presentati alla sua porta. « V-voi credete davvero che mi priverò del mio esercito, che lascerò i miei possedimenti sguarniti e in balia dei nemici per seguire la vostra Sovrana in una guerra lontana centinaia di leghe?! » Brennt, sbigottito da come quel discorso forse l'opposto di quello che gli era stato promesso il giorno prima, cercò di intervenire, recriminandolo debolmente per poi zittirsi dallo sguardo furente del suo Signore.
E loro avevano scommesso tutto su di lui. Che doveva convincere tutti della necessità della loro missione, e che aveva l'incredibile capacità di venire zittito da una persona come Doleos.
« Mio padre, ha conquistato queste terre dopo la dipartita di Ray!» -Zephyr ebbe un fremito nel sentire quel nome pronunciato senza aggettivi di contorno, quasi come si credesse al pari di un re; del Re - « e non sarò certo a svenderli a una puttana che ha conquistato quello che possiede solo per essersi donata a mezza corte in un tempo dove la lascivia veniva premiata più dell'onore! »
L'avrebbe ucciso seduta stante se non fosse stato per Medoro che, prendendolo per un braccio, lo fece desistere dall'estrarre la spada.
Gli ci volle un istante perchè la sua mano si convincesse a rinfoderare quel poco di lama che aveva già snudato.
Avrebbe dato a Medoro un'ultima possibilità. Ma un altro insulto verso il Re che non perde Mai, o la Rosa e l'Arconte sarebbe diventato un mucchietto di cenere.
« Il sommo Zoikar reclama l'armata invincibile del Leviatano per evitare il crepuscolo degli uomini, Doleos. » Medoro si fece avanti di qualche passo, per nulla intimorito dal nobile sbraitante « e i demoni che stanno apparendo nei villaggi sempre più spesso sono una prova che l'oblio sta nascendo dalle viscere della terra per inghiottirci. Dobbiamo unirci tutti contro questa minaccia. Possiamo davvero permettere che il perdurare della divisione del Dortan sancisca la sua fine ?. »
« In questa fortezza, con i miei soldati, saremo ben in grado di affrontare un demone, se si dovesse presentare l'occasione. »
« E i villaggi bruceranno uno dopo l'atro! Non capisci? Su cosa regnerà la tua avidità una volta che tutto sarà spazzato via? Quante morti dovranno subire gli abitanti dei villaggi circostanti per convincerti che non c'è altro modo se non quello di seguirci nella nostra battaglia? Con quale coraggio guarderai i tuoi uomini, quelli che chiami sudditi, affermando che non farai niente per proteggerli? Come potrai fregiarti dei tuoi titoli conscio della tua ignavia e della tua codardia nell'agire per un bene più grande? Come potrai... »
Diversamente dalla sua, la rabbia di Medoro nasceva dalla volontà di proteggere gli indifesi, nella speranza che l'Arconte mostrasse un minimo di considerazione per coloro che l'avevano reso ciò che era. Sarebbe stato un sovrano senza fiducia.
Voleva dargli modo di salvarsi, provando a convincerlo come aveva convinto Brennt, ma la risposta di Doleos gli fece capire come questo non fosse possibile.
« SMETTILA! » l'Arconte urlò furibondo, una presenza di spirito troppo blanda per resistere all'arringa di chi, un vero Re, l'aveva servito. « Io non devo spiegarti un bel niente, Medoro! Niente, assolutamente niente! »
« Dentro queste mura sono io che comando! Io faccio le domande e voi dovete prostrarvi. Le persone muoiono ogni giorno, e che sia per fame o per vecchiaia o per demoni, questo non cambia le cose. »
Paura. Zephyr gliela leggeva negli occhi, un terrore che aveva nascosto sotto una coltre d'indifferenza, rifugiandosi in quel castello insieme a tutte le sue guardie per rifuggere i pericoli oscuri che aveva sentito vessare i villaggi sotto il suo controllo.
Al sicuro, circondato dai soldati ai suoi ordini e alla servitù in attesa che la tempesta passasse. Ignorante e egoista.
Un comandante con poco coraggio e con ancor meno carisma.
Un uomo al pari degli altri, solo più dispotico e avaro, non certo un individuo degno di essere seguito, non quando una crisi senza precedenti incombeva su tutte le loro teste.
« Guardie, prendete questi due traditori e giustiziateli seduta stante! »
I soldati, dopotutto, erano semplici uomini con timori da superare e affetti da proteggere. Stupidamente, Doleos non aveva tenuto conto di questo. Si rivolse verso le guardie alle sue spalle.
Nessuno dei soldati si mosse di un passo, gli sguardi colmi di livore puntati verso l'Arconte.
Medoro scosse la testa sconsolato, Zephyr sorrise della prima gioia di quella giornata e Brennt ebbe un attimo di esitazione.
« Muovetevi! Vi ho ordinato di prenderli, catturateli e uccidet... »
Mentre ancora inveiva contro i soldati, le sue parole vennero spezzate da un getto di sangue e viscere, e dalla punta di una lama che gli sbucava dal costato. Provò per un momento a alzare le braccia tremanti come a cercare di estrarla ma caddero immote lungo i fianchi mentre gli ultimi palpiti di vita abbandonavano convulsamente il suo corpo.
Medoro ritrasse la spada, e il corpo morto dell'Arconte ricadde a terra alzando un lieve sbuffo di polvere sotto il suo sguardo laconico.
L'aveva colpito alle spalle, senza onore alcuno. Proprio come egli meritava.
Brennt, scuro in volto, si avvicino al cavaliere che ancora fissava il cadavere sotto di lui, comprendendo anch'egli il dolore al quale si era costretto, incapace di trovare un altro modo di agire. Aveva sperato in un esito diverso.
« Mi dispiace, Brennt. Ho fatto tutto il possibile ma... » il soldato gli mise una mano sulla spalla, comprensivo e al contempo frustrato. Sotto di loro, una chiazza di sangue si stava dipanando dal cadavere ancora caldo dell'Arconte.
« Lo so, Medoro. Nel momento in cui non abbiamo rispettato gli ordini di Doleos, ci siamo macchiati di tradimento, ma sono contento tu ci abbia sollevato dal crimine della sua uccisione. »



« Dobbiamo muoverci, Medoro. »
Era andato tutto come doveva andare.
« Non abbiamo più tempo, abbiamo ancora molta strada da fare. »


Medoro si rivolse un'ultima volta a Brennt, posando una mano sulla sua spalla come aveva fatto la notte che lo aveva salvato dal mostro.
Zephyr iniziò a incamminarsi verso le stalle, per nulla curioso di sapere in quale elogio Medoro si stesse prodigando nei confronti di Brennt o di come avesse intenzione di rincuorarsi a vicenda. Quello era stato solo il primo passo di un percorso che, in quel momento, era ancora interminabile. La prima scintilla di quello che doveva presto diventare un incendio.
Medoro lo raggiunse mentre lui stava ancora conducendo i cavalli fuori dalla stalla. « Meritava almeno un ringraziamento, dopo quello che l'abbiamo costretto a fare. » giustificò il suo ritardo con severità, provando a spiegargli qualcosa che Zephyr ben sapeva ma che poche volte aveva considerato importante. « Guiderà l'esercito di questo regno in battaglia solo perchè noi l'abbiamo ingannato e ucciso gente che conosceva da una vita. » si puntò un dito sul petto «Io l'ho convinto a tradire il proprio signore. »
Zephyr si chiese per quanto tempo i sensi di colpa avrebbero tormentato Medoro.

« Doleos era uno stupido. E un debole. Siamo venuti qui proprio per questo, perchè potevamo volgere la situazione a nostro favore. E lo stesso faremo almeno per un paio di altri regni... »


Prima ancora che la Rosa arrivasse alla locanda, il cavaliere aveva già mandato dei ricognitori a sondare la situazioni nei piccoli regni, cercando di capire con che gente si sarebbe ritrovata a trattare per unire nuovamente i regni del Dortan, prendendo informazioni sui sovrani e sulle personalità più importanti come i capi villaggio o soldati di alto rango per sapere quale genere di persone avrebbe dovuto tentare di convincere pacificamente a partecipare alla sua causa. Fu Zephyr che gli aprì gli occhi.
Partiti alla conquista dell'intero Dortan, Medoro aveva caparbiamente tentato con le sole belle parole di convincere il nobile di turno a cedere il proprio esercito per una guerra contro esseri che nessuno aveva ancora mai toccato con mano, troppo distanti, ancora troppo irreali. Ed erano stati cacciati in malo modo, evitando lo scontro armato per il rotto della cuffia.
Aveva voluto evitare vittime inutili, fallendo miseramente.
« Già, ma abbiamo comunque derubato Brennt del proprio onore. Ringraziarlo e incoraggiarlo mi sembra doveroso. »
E se quello era un regno piccolo e povero, e Doleos un regnante mal visto e avido e codardo, Brennt era stata la vittima perfetta.
Era bastato aspettarlo rincasare, per far saltare in aria degli edifici con un esplosione fragorosa, e ingannarlo prendendo le sembianze di un mostro nero. La sua cenere era diventata pece, e dopo una breve schermaglia con i soldati gli era stato sufficiente teletrasportarsi al sicuro lasciando dietro di se una sbuffata di liquame nero per fargli credere che Medoro avesse ucciso il mostro con le proprie mani.
Una farsa bella e buona. Di vero c'erano state solo le morti di qualche abitante e la p a u r a.
Anch'essa in parte magica, in parte terribilmente vera.


« Potrai ringraziarlo una volta finita questa guerra, nel caso riuscissimo a vincere. Altrimenti sarà lui a doverti ringraziare, per avergli dato la possibilità di combattere per la propria vita in prima linea. »
Zephyr montò sul cavallo, deciso a tagliare corto e dirigersi verso la tappa successiva del loro viaggio.
« Un Monarca non può permettersi di tergiversare o chinare il capo perchè, inevitabilmente, la corona cadrebbe dalla sua testa. » Non avrebbe permesso che chi li aveva trascinati in quella missione disperata finisse vittima di dubbi e moralismi dopo qualche sacrificio e un paio di bugie « pensi che la Sua mente abbia mai vacillato mentre inseguiva i suoi obiettivi? E come puoi te sperare di replicare le sue gesta, di resuscitare il Suo Leviatano se hai dei ripensamenti alla prima difficoltà? »
Partì al galoppo, lasciandolo dietro così che rimuginasse in solitudine alle sue parole e facesse pace con la sua coscienza.
Se veramente aveva ancora delle perplessità, avrebbe fatto bene a nasconderle meglio.
La loro missione era troppo importante.



...



« Non abbiamo il suo poter soverchiante o il suo intelletto, però ci rimane la p a u r a.
Il terrore di un Monarca Invincibile ha tenuto il Regno unito sotto la bandiera del Leviatano e gli eserciti hanno marciato sotto di lui, obbedienti e implacabili.
Dobbiamo solo farli sprofondare nell'abisso della disperazione e poi tendergli una mano caritatevole, aiutarli a rialzarsi e dargli speranza.
Dobbiamo ingannarli tutti, mentirgli e fargli credere che i demoni incombano su di loro, glieli faremo vedere più da vicino di quanto abbiano mai pensato fosse possibile.
Useremo i nostri uomini per spargere storie terrificanti, fomentando il terrore nelle piazze cittadine, predicheranno di guerre con i demoni e di come gli altri regni si stiano già muovendosi per combatterle. Di come anche il loro aiuto sarà necessario.
E poi, in alcuni regni qualche mostro lo faremo apparire davvero.
Mi basta solo qualche incanto e un pò di suggestione, e alla fine il paladino che dissolve l'oscurità che risolve la situazione. Loro assisteranno alla comparsi di un abominio, e le voci messe in giro dai nostri uomini aumenteranno esponenzialmente; noi, o meglio, tu diventerai il salvatore, l'eroe in armatura dorata che sconfigge il mostro, perorando la causa degli Dèì per convincere i più scettici.
Gli offriremo le bugie più reali che gli siano mai state propinate e saranno i popoli a convincere i propri regnanti a seguirci in battaglia! Anzi, nel caso in cui qualcuno di questi sedicenti sovrani si rifiuti, saranno loro a rivoltarsi contro di lui, destituendolo per accorrere da noi ansiosi di combattere, perchè penseranno che, più grande l'esercito, più grandi saranno le possibilità di vittoria.
Tutto questo solo con qualche illusione e al prezzo modico di qualche vita. Sai anche tu che è l'unico modo possibile.
E, se davvero riusciremo a beffarli tutti, consacreremo a lui questo enorme inganno.
Ci pensi, Medoro? Se tutto va come deve andare il mondo sarà nuovamente scosso dal Leviatano.
Come molti anni fa, Medoro.
Come quando ancora servivamo l'ultimo Re degno di essere chiamato tale.
»






Allora. Che fatica sto post xD
In pratica Zephyr e Medoro hanno intenzione di ingannare l'intero Dortan, inviando gli uomini di Medoro e della Rossa in tutto il Dortan a raccontare nelle piazze di attacchi da parte di demoni e di come l'unica speranza sia quella di combattere con l'esercito del Regno d'Oriente.
per rafforzare queste voci, in qualche villaggio interverranno direttamente anche Zephyr e Medoro.
Zephyr con qualche incanto (che se volete elenco, erano tutte maghi che possedevo in scheda xD) si trasformerà in un mostro e Medoro interverrà per "ucciderlo" guadagnandosi la fiducia degli abitanti del popolo etc. (usando anche un pizzico di malia psionica)
Le voci messe in giro dai complici, si uniranno quindi a quelle degli abitanti stessi e dei viaggiatori, alimentando sia la paura dei mostri che la fama di Medoro come salvatore. L'obiettivo è quello di far prendere tutti dal panico, dicendo che potrebbe apparirgli un mostro sotto casa da un momento all'altro (cosa che qualche volta succede davvero).

Ps: sono stato autoconclusivo solo per questo regno, spero di non aver esagerato :wow:


Edited by §_Gemini_§ - 28/11/2019, 23:38
 
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Jecht
view post Posted on 27/11/2019, 20:11






«A me, i Pelleverde, non sconfinferano!»
Jecht vagava tra le lande del sud a passo tranquillo, la fronte contratta da pensieri confusi, il tono della voce insicuro. C'erano cose che non potevano essere condivise con tutti, certi tabù che non andavano sfiorati, ma con Tidus era tutto diverso, lui era suo figlio, con lui poteva parlare di qualsiasi cosa, anche se lui non rispondeva... specie se lui non rispondeva.
«Aaaah che liberazione dirlo a qualcuno! Qui non fanno altro che darsi guerra a vicenda ma quando si tratta di razze son tutti buonisti. Ascolta me, figliolo, da padre a spada... I Pelleverde puzzano.»
La verità, posta quasi come un dogma, arrivò a ciel sereno con una decisione e un senso di liberazione che davano alla frase una sfumatura di velato pregiudizio. Il guerriero teneva la spada ben salda sull'impugnatura, il piatto della lama poggiato sulla spalla destra mentre i piedi callosi bruciavano le distanze col punto in cui - a detta di Medoro doveva trovarsi un accampamento Pelleverde.
«E no, no, no! Non in senso metaforico, puzzano proprio. Non è solo un discorso di pulizia, potrebbero essere appena usciti dal lago e puzzerebbero ugualmente. Non so cosa sia, forse il sudore, forse i loro pori, sarà qualcosa dentro quelle membra da Pelleverde, non lo so... però puzzano; un odore aspro, acre... acido!»
Una qual certa titubanza era palpabile già nel tono della voce, del resto quando mai Jecht aveva avuto il piacere di prendere il the coi pasticcini con un Pelleverde fresco di bagno caldo, bello lindo e profumato?
Il fiume di illazioni scorreva senza freno e - sebbene lo stesso uomo fosse incerto sul finale - in un modo o nell'altro si era ficcato di una discorso dal quale doveva uscire... e con classe!
«E non giudicarmi! Non sono razzista... semplicemente non mi fido di chi puzza. Ricordatelo come un insegnamento paterno... non fidarti di chi puzza! Ecco.»
Come padre - e soprattutto come essere umano - per oggi, aveva dato.

«Capisci ora? Di tutte le persone possibili, ti pare che io sia il più adatto a fare da ambasciatore? Ai Pelleverde poi? » Non aveva neanche tutti i torti, Jecht non aveva la fama di essere un tipo diplomatico; si poteva dire che avesse delle buone intuizioni, un istinto niente male, una bella presenza per un uomo sopra i cinquanta nonché un guerriero fatale per qualsivoglia avversario ma nessuno, mai, sulla faccia della terra, avrebbe messo il suo nome e l'aggettivo diplomatico nella stessa frasse.
«Per me Medoro non si è ripreso del tutto, senti a me! Mi sa che quel Lorch l'ha picchiato in testa più e più volte o non si spiega. Ma per i propri compari, alle volte, bisogna fare questo ed altro, figliolo... ricordatelo. »
Due lezioni di vita in una sola discussione potevano considerarsi un nuovo traguardo... o forse no. Del resto non ci si poteva aspettare di meno dal grande Jecht che ora, oltre ad essere un fenomenale guerriero, aveva ritrovato con la paternità il dono della saggezza illuminata.
Così, con un sorriso a trentasei denti stampato in volto, simbolo di quanto fosse soddisfatto del suo operato come padre, il Berserker continuò la sua marcia in allegria, tanto che non trovò neanche maleducato l'agguato di giavellotti riservatogli da una coppia sulla distanza. Schivato il primo e parato il secondo con il piatto dello spadone, il guerriero affilò i sensi e analizzò la situazione, comprendendo che il pericolo non proveniva unicamente dalla coppia ben in vista, ma che si trovava accerchiato.
«Spero non ci abbiano sentito o siamo nella merda.»
Sussurrò sottovoce, digrignando i denti. Non aveva idea di quanto il gruppetto potesse essere permaloso ma a nessuno piaceva sentirsi dire certe cose.

«Hey!»
L'urlo arrivò senza troppi convenevoli, chiarendo come il Berserker volesse risolvere la situazione senza necessariamente dover passare alle mani. Aveva appena finito di dire quanto fossero deboli le sue abilità da ambasciatore ma persino una testa vuota come lui poteva riconoscere quanto poco efficace fosse proporre un'alleanza partendo da un massacro.
«Vedo che riservate ancora un'accoglienza speciale per i visitatori.»
Con un sorriso sicuro, voltò il capo nella direzione in cui aveva avvertito la presenza degli altri cinque Pelleverde rimasti in agguato. Abbassò lo spadone, lasciando che la punta affondasse al suolo, così da chiarire le sue intenzioni pacifiche. I primi ad avvicinarsi furono i due allo scoperto, gli altri li seguirono solo dopo un nuovo invito del guerriero, questa volta palesato con un gesto della mano.
«In tempi come questi non vediamo di buon occhio chiunque calpesti il nostro territorio.»
L'orco armato di mazza chiodata fu il primo a ringhiargli contro parole scontate. Jecht non poteva dargli torto, anche a Ladeca la folla mal sopportava gli stranieri e la paranoia si era diffusa rapidamente, drizzando i nervi di tutti. Per tutta risposta, il guerriero alzò la mano libera, mostrando il palmo aperto per sottolineare ancora una volta le sue intenzioni; allo stesso tempo, il sorriso sornione non aiutava e generò fastidio in più di un volto.
«È per questo che sono solo e armato giusto per difesa. Non ho intenzioni ostili ma non sono qui neanche perché avevo voglia di farmi una scampagnata... Sono diretto all'accampamento madre, io e il vostro capo abbiamo di che discutere.»
L'ultima frase venne pronunciata con una serietà che non lasciava spazio ad altre interpretazioni. Avevano tutti i nervi alle stelle ma Jecht non aveva né tempo da perdere, né l'arguzia per fare giri di parole. Del resto - per ciò che ricordava dei Pelleverde - anche loro erano tipi diretti, del tipo da poche parole e più fatti, nonché più azione.
«Hai la lingua lunga, umano. Starebbe bene nello stufato di oggi.»
La vicina prese a ridacchiare mentre facevano cozzare le loro armi sui palmi callosi delle mani. L'idea sembrava quella di intimorirlo ma l'uomo non era certo il tipo da lasciarsi spaventare per così poco. Non rispose ma il suo sorriso altezzoso fu più che eloquente, suscitando un tacito rispetto.
«Sentiamo allora, per conto di chi sei venuto qui a p a r l a r e?»
«Che l'abbiate accettato o meno, presto saremo sotto attacco... è come se fossimo già in guerra. Di certo non sono qui per conto dei vostri prossimi nemici, dunque quale sia il nome dell'alleato mi sembra abbastanza marginale, no? Diciamo che sono qui per conto del Dortan.»
Un Pelleverde armato di ascia sputò per terra, prima di compiere un passo minaccioso verso il guerriero.
«Farà parte dell'esercito di Medoro, quella feccia. Non abbiamo niente da spartire con lui.»
«Taci, Krol, questi non sono affari che ci riguardano.»
In un modo o nell'altro - per quanto l'astio destinato a Medoro fosse ancora acceso - la paura della guerra incombente aleggiava anche tra i Pelleverde, seminando la possibilità di un alleanza anche tra le teste più dure.
«Hai fatto una strada inutile, guerriero, nessuno di noi alzerebbe le armi in nome di una sporca pedina. Vieni pure all'accampamento se vuoi, riceverai il nostro rifiuto direttamente dagli anziani.»

Come da programma, lo scenario si prospettava buio ma non vi erano alternative. Il Berserker avrebbe provato il tutto per tutto di fronte a chi aveva il potere di riunire i Pelleverde sotto uno stendardo comune.


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Terra, fango e aridità. Le tende sostavano su una zona una volta rigogliosa, ormai asciutta e priva dei doni della terra. L'accampamento era palesemente militare e il tintinnare del ferro del fabbro battuto sul metallo, si amalgamava all'aria di guerra che aleggiava nei dintorni. L'ingresso di Jecht venne accolto da sguardi torvi e volti scuri, i nervi di tutti erano visibili ad occhio nudo e, a giudicare dall'aspetto dei guerrieri, le cose non sembravano andare troppo bene. Al guerriero bastò un'occhiata per accorgersi di come il morale dei soldati fosse a terra e di come la minaccia imminente avesse gettato tutti nella confusione. Ciò che non sapeva era che ad infierire sulle sorti dei Pelleverde, vi era una mancanza che i soldati faticavano a digerire.
Solo di una cosa il Berserker era certo: quella puzza era dappertutto.
«Te l'avevo detto... la senti anche tu? Dimmi che la senti anche tu.»

Jecht venne condotto nella piazza centrale dell'accampamento, ove la terra era stata ben battuta e delineata da dei sassi disposti per formare una grande circonferenza. Al centro, i resti di un grande falò lasciavano il fumo salire verso il grigiore del cielo mentre le ossa del pasto della notte precedente rimanevano ancorate al suolo, aspettando di essere trascinate dall'impeto del vento. Quattro Pelleverde rimasero attorno a lui, osservandolo guardinghi mentre l'altro armato di mazza si divideva per addentrarsi nella tenda più grande dei paraggi.
Le dita della destra tamburellarono sull'impugnatura dello spadone mentre l'attesa si faceva snervante e la noia cominciava a palesarci. Ci volle quasi mezz'ora per avvistare una mezza dozzina di ombre incrociarsi presso l'uscita della tenta, monito dell'imminente arrivo dei saggi.
A mostrarsi furono quattro Pelleverde palesemente segnati dall'età e un grosso esemplare nerboruto, dalla stanza decisamente impressionante, perfino a paragone col Berserker. L'ultimo ad uscire fu proprio il Pelleverde armato di mazza, il quale - terminato il suo compito - si arrestò fuori dalla circonferenza segnata dalle pietre per osservare lo spettacolo dalla distanza. Con il mostrarsi dei quattro anziani, anche il resto della folla cominciò a raccogliersi attorno alla piazza. Con l'arrivo della sera, vennero accese le prime fiaccole e il vociare prese a farsi sempre più insistente. Nell'arco di un paio di minuti, quasi l'interezza dell'accampamento si era raccolto in piazza, ognuno curioso di sapere cosa stesse accadendo e quali sarebbero stati i risvolti.

Jecht era confuso. Trovandosi nell'accampamento militare si aspettava di trovare il capo dei Pelleverde, chiunque fosse in carica al momento. Non capiva la presenza dei quattro anziani, né il motivo per cui vi fosse tanto nervosismo nelle terre del sud.
Dopo aver preso un lungo respiro, il guerriero si rasserenò, svuotò la mente da inutili pensieri e piantò lo spadone al suolo, mettendo tutti in allarme al punto che più d'uno levò la sua arma, pronto a colpire. Il Berserker, al contrario, era il volto della tranquillità. Rilassato, manteneva un'espressione seria e composta. Sotto lo sguardo dei quattro anziani - che fino a quel momento erano rimasti ad osservare in silenzio - il guerriero mosse un paio di passi prima di sedersi a gambe incrociate per poi afferrare la borraccia legata al fianco, poggiandola sul suolo alla sua sinistra. Era il momento di cominciare a parlare e la cosa - col senno di poi - doveva ammettere che lo rendeva alquanto nervoso; non era l'uomo adatto e lo sapeva. Come se non bastasse, non aveva idea di come impostare il discorso, l'unico modo era andare a braccio. Dopo un colpo di tosse, si schiarì la voce, gonfiò il petto e cominciò.

«Che mi piaccia o meno, ammetto che tra voi e me vi sono parecchie cose in comune. Una di queste è la schiettezza, ecco perché voglio cominciare dicendovi che non ho la più pallida idea del perché io sia qui.»
Il vociare, che fino ad un momento prima era solo un leggero sottofondo, si alzò improvvisamente, costringendo uno degli anziani ad alzare una mano per riportare la quiete.
«Parlare non è mai stato il mio forte, a menare le mani non ho rivali ma non ho idea di come mettere insieme le parole adatte per convincere le persone o discutere con loro. Sono bravo a provocare, questo sì... ma in questa situazione certo non mi aiuta. Sta di fatto che siamo tutti in una situazione delicata, tutti ne conosciamo il motivo e - per quanto il nostro orgoglio possa spingerci a dire il contrario - siamo tutti a rischio, umani o Pelleverde.»
«Ci è stato detto delle tue intenzioni, guerriero.»
Uno degli anziani lo interruppe bruscamente, lasciandolo completamente spiazzato.
«Sappiamo che Medoro sta mettendo insieme un esercito ma - astio o antipatie che siano - non siamo nelle condizioni di prendere una decisione tanto significativa. Pertanto la risposta è no.»
Le mani di Jecht, aperte e poggiate sulle ginocchia, si richiusero di scatto, graffiandogli le gambe. La risposta lo sorprese e il suo caratteraccio gli impose di ribellarsi. Non sapeva accettare un no come risposta e diavolo, non aveva neanche finito di parlare.
«Che diavolo vuol dire che non siete nelle condizioni? Avete un accampamento militare e uomini pronti a combattere, che altro vi serve?»
«Di un leader.»
Quella risposta, immediata e calzante, privò Jecht di qualsiasi appiglio. Non aveva idea di cosa stesse parlando, né cosa significasse. Il suo volto mostrava ingenuamente tutte le sue perplessità e un chiarimento non tardò ad arrivare.
«Bara-Katal è scomparso, da mesi ormai. Non si sa che fine abbia fatto ma di certo ci ha lasciato in un momento delicato. Noi potremmo anche prendere decisioni al suo posto durante la sua assenza ma anche qualora volessimo accettare la vostra alleanza, verrebbe a mancare la figura del comandante in grado di placare e gestire l'astio dei soldati.»
«Ehm, beh, ma...»
«Senza Bara-Katal, nessuno dei nostri uomini combatterebbe in nome di Medoro e anche qualora proclamassimo un nuovo leader favorevole a Medoro, non avrebbe l'esperienza per gestire l'astio di un intero esercito.»
«Arrenditi umano, non vi è possibilità di un riscontro positivo alle tue necessità.»

Jecht rimase in silenzio, lo sguardo basso, la mente arrovellata in mille pensieri. Non era più confuso, in un modo o nell'altro aveva capito le loro motivazioni e - inaspettatamente - le aveva accettate. Poteva comprenderli, lui per primo non avrebbe mai combattuto in nome di qualcuno che non rispettava. Persino ai tempi del Toryu, quando per la prima volta aveva combattuto Medoro, gli era stato chiesto di giurare fedeltà al Re senza nome, eppure lui aveva finito per giurare fedeltà allo stesso Medoro. Senza che il Berserker se ne accorgesse, il redivivo ci aveva visto lungo affidando a lui quella missione. Jecht era l'uomo più adatto a quello scopo poiché l'unico realmente in grado di comprendere i Pelleverde. Loro erano creature nate sul campo di battaglia, marchiate dall'orgoglio, devote alla forza, sudditi di Greion. Lui, come Berserker, nato e cresciuto come loro, poteva comprenderli.

«In questo caso ho una nuova proposta per voi, qualcosa che non riguarda Medoro.»
Sorrise, fomentato da una nuova idea illuminante. Il suo sguardo ardeva della fiamma della guerra, la stessa che aveva spinto il Daimon della guerra a posare gli occhi su di lui. Alzò l'indice indicando il Pelleverde nerboruto, per tutto il tempo era rimasto in silenzio a braccia conserte, lui era la chiave.
«Fatemi indovinare, è lui il campione destinato a succedere Bara-Katal, uh?»
«Insisti forse? Ti abbiamo già detto che anche con un nuovo leader nessuno seguirebbe Medoro.»
«Non m'importa di Medoro, mi sono rotto della diplomazia. Se quello è il vostro guerriero più forte...» sposto via gli occhi dagli anziani, la sua attenzione ora era tutta per il guerriero. «...voglio fargli il culo.»
Rewug scattò di un passo, sbuffando come un cinghiale, pronto a fare a pezzi l'essere umano tanto stolto da provocarlo in casa sua. Jecht, di contro, aprì la fiaschetta, rinfrescandosi la gola con del rum scadente, quasi in segno di brindisi, un brindisi a se stesso. Si alzò, mosse due passi indietro e poggiò la mano sull'elsa della spada, mentre la folla cominciava a scaldarsi, pregustando la visione del sangue.
«Fermati Rewug, non assecondarlo.»
Ma i quattro anziani erano ormai gli unici a voler placare il caos. La folla bramava lo scontro, la sacralità del combattimento, il confronto tra la potenza di due potenti avversari. Tutti i Pelleverde, dall'esterno del cerchio, alzarono le braccia e urlarono il nome del loro campione mentre il berserker, armato di suo figlio, era pronto a dare vita all'ultima, necessaria, scintilla.
«Hai sentito quindi? Ti hanno appena detto in faccia che non hai le palle per comandare il tuo esercito. Vuoi rimanere l'ombra di questo Bara-Katal o hai almeno le palle per venire a sfidarmi.»

Ciò che avvenne in seguito, fu un duello tra bestie della durata di tre ore, quarantatre minuti e sette secondi. I due guerrieri si affrontarono ognuno impugnando la sua arma, Jecht col suo spadone, Rewug con le sue gigantesche lame montate sugli avambracci. Il cozzare del metallo divenne martellante, tanto da alienare il pubblico dopo la prima ora. La folla non smise mai di incitare; per ogni Pelleverde che perdeva la voce, un nuovo grido si levava. In principio furono tutti per Rawug, in seguito ebbe la meglio la battaglia. Non aveva più alcuna importanza chi avrebbe vinto, volevano solo vedere quelle due creature dell'inferno continuare a martoriarsi, strapparsi lembi di pelle e sfiancare ogni singolo muscolo del loro corpo. Un Pelleverde infimo e mingherlino colpì Jecht con una picca su una coscia, venne assalito e ucciso dal resto della folla. Per bilanciare, Rewug si infilzò nello stesso punto con la punta di una lancia e i due tornarono a combattere senza sosta.
Al termine di quelle tre ore, quarantatre minuti e sette secondo, i due, ansimanti, non avevano più le forze per muoversi. Sfiancati e completamente privi di ogni energia, si avvicinarono l'uno all'altro come potevano, l'uno sorreggendosi sul suo possente spadone, l'altro arrancando a passi lenti. La loro forza era perfettamente eguale anche se un occhio esperto - forse - avrebbe notato alcune aperture del Pelleverde non sfruttate dal Berserker, magari volutamente.
La folla acclamava ormai i due guerrieri all'unisono, il sangue non era più ciò che volevano, il loro spirito era stato sfiancato tanto quanto quello dei guerrieri. Pertanto, così come i due protagonisti, anche i Pelleverde volevano un epilogo. Ormai ad un passo l'uno dall'altro, i due guerrieri caddero su stessi all'unisono, incrociando l'uno la fronte dell'altro, sorreggendosi vicendevolmente col loro peso, in un abbraccio di sangue e sudore.
«Puoi anche convincere i miei uomini, puoi anche battermi, ma non guiderò mai il mio esercito in nome di Medoro.»
«Non combattere per Medoro, combattete per me.»
Jecht, con le ultime forze rimastegli, lasciò lo spadone per afferrare il volto del suo avversario con entrambe le mani e trasmettergli col suo sguardo tutta la sua volontà.
«Insieme, abbatteremo anche gli dei.»



CITAZIONE
Ci siamo, parto con delle scuse doverose. Mi dispiace di aver sintetizzato e striminzito il duello finale ma purtroppo non sono più i tempi di una volta e tra lavoro e impegni, postare non è più così semplice. Lo stesso vale per quegli errori di battitura e distrazione che sicuramente mi sarò perso qui e lì. Ho preferito concentrarmi su altro per dare vita alla storia che avevo pensato per questo giro, continuare a giocare Jecht di sta divertendo un sacco e dargli un degno finale in questa storia collettiva mi emoziona.
Per il resto, Jecht si dirige in territorio Pelleverde per parlare col loro capo. Scortato alla base per svolgere il suo ruolo da ambasciatore, scopre che Bara-Katal è scomparso da mesi e che pertanto i Pelleverde sono senza un leader (dal momento che col Ba-Xian era diventato semi-immortale, ho preferito mantenere le sue sorti nebulose così da lasciare in caso a voi, in futuro, di farlo apparire come meglio credete). Sono i quattro anziani a ragguagliarlo su quanto accade al momento tra i Pelleverde. Questi non intendono seguire Medoro e anche qualora salisse al potere un leader disposto a farlo, l'esercito non lo seguirebbe. Jecht a questo punto ricorda cosa accadde con Medoro, di aver giurato fedeltà a lui e non a Ray e decide di ricreare la stessa situazione con i pelleverde. Provoca il futuro successore di Bara-Katal e da vita ad uno scontro interminabile, uno battaglia di muscoli, sangue e sudore, in grado di fomentare la folla. In alcuni frangenti, Jecht sceglie addirittura di prolungare volutamente lo scontro e quando entrambi sono privi di energie, chiede a lui e ai Pelleverde di combattere, non per Medoro, ma per lui. Questo è il suo modo di portare i Pelleverde all'interno dell'esercito che Medoro sta mettendo su.
 
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view post Posted on 28/11/2019, 23:10
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Non ha senso chiederci se abbia scelto l'uomo sbagliato.
Piuttosto cerca di capire il perché della Sua scelta.


...

Cavalca con me.

...

Sembra passata un'era dall'incontro alla locanda e i due uomini, l'uno accanto all'altro, sono quanto di più distante da quelli che hanno lasciato Ladeca. Il Demone è concentrato sull'orizzonte infuocato, cullato dallo scalpiccio degli animali sul sentiero ciottoloso: ha il mento alto, e l'uomo che tentava di sbronzarsi appartiene a una vita passata. Di nuovo in lui si legge l'orgoglio del guerriero, il senso di appartenenza a quel Dortan lacerato da una politica folle, mondato da qualsiasi idea di patria.
A cosa pensi?
Medoro monta accanto a lui, ha riacquistato la sua bellezza tanto decantata a Basiledra e sembra una gemma incastonata nella sua armatura. Tamburella le dita sull'elsa di Angelica, sorridendo.
Mi chiedo cosa farò qui da solo, dopo che il Kishin vi avrà massacrati tutti.
Una risata strappata al Bianco. Appena accennata, persa nel frastuono degli uomini che marciano dietro di loro.
Che gran fortuna avere un immortale con noi, così motivato e speranzoso poi!
Già. Silenzio. Temo che questa potrebbe essere l'ultima volta che vedremo sorgere il Sole.
Non per questo smetterà di sorgere.
Lo sguardo perplesso del Demone si posa sul Cavaliere, e con la coda dell'occhio riesce a leggere la tensione, la paura, l'esitazione della colonna che stanno guidando verso la fine. I cavalieri la percorrono avanti e dietro senza smettere di motivare i soldati, veri o presunti tali, strappati anche ai campi, che piangono in silenzio.
Non credevo fossi anche un filosofo.
E io non credevo fosse possibile tutto questo. Voltati, guarda questa gente...
Guarda tu i loro occhi, hanno paura! Lo interrompe, ma Medoro lo ignora.
...rappresentano la speranza! Forse non di distruggere il Kishin, ma sicuramente la speranza che tutto ciò che uomini come me, come te o Kuro o Joyce o Malzhar hanno fatto non è stato vano. Guardali Montu, hanno paura sì, tremano e piangono ed esitano ma sono qui! Perché a casa ci sono persone che amano, indifese, e tutti quelli che sono rimasti hanno fiducia nelle donne e negli uomini che sono con noi.
L'Eterno segue, ora in silenzio, il discorso di Medoro continuando a fissare il Sole che pian piano fa inesorabilmente capolino inondandoli del suo calore. Accarezza il collo del suo cavallo, compagno di innumerevoli battaglie.
È fin troppo probabile che moriremo tutti, ma non è più tempo di fuggire. La paura mi ha portato ad abbandonare Basiledra a Mathias e non me lo perdonerò mai, perché in questi anni ho capito che ci sono momenti in cui fuggire è peggio che morire.
E questo è uno di quei momenti.

Ancora ti chiedi se Zoikar si sia affidato all'uomo sbagliato? Non poteva essere nessun altro se non tu, Medoro. Sei il Suo Campione. Sei il nostro Campione!

eTJlDNE



Giorni prima.
In un villaggio qualsiasi dell'Alcrisia.



Era ora ti facessi vedere anche tu.
Continuo a dire che è una stronzata, specie qua: chi odiava Basiledra mi vedrà come il suo ultimo simbolo, e quei pochi che invece credevano nella Capitale mi giudicheranno come un traditore.
Montu osserva l'ombra dell'uomo che un tempo giudicava gli aspiranti membri del Toryu, e per un istante -uno dei tanti da quando il Cavaliere è entrato a Le Tre Lune- anche lui dubita di Zoikar.
Non conta quello che pensano ora, ma quello che penseranno quando andremo via.
Davakas ha contatti nella Roesfalda, quindi penserà lui al nord, ma qui la situazione è problematica. Se non vogliamo definirla tragica.
Un lungo sospiro del Demone, a tradire il fatto che neanche lui crede più di tanto in quello che stanno facendo. Non so quanto ti sia interessato di politica in questi anni, ma se qui già se ne fregavano di Basiledra quando c'era il Re ti lascio immaginare cos'è successo con la fondazione di Ladeca e del suo Parlamento. Anarchia.
Camminano verso la piazza principale insieme a una decina di uomini tra quelli reclutati nei giorni precedenti. Questi provano a convincere le persone cui passano accanto a seguirli, per ascoltare il discorso di Medoro, tornato dal regno dei morti.
Sputano a terra nel migliore dei casi.
Hanno costruito mura credendosi re nei loro castelli, e invece sono solo paglia e fango ammassati intorno a un porcile. Non sono bravo con le parole, direi chiaramente quello che penso di loro e credo sia il modo più sbagliato per convincerli a seguirci. Solleva le spalle, sorridendo come a voler dire a Medoro che la soluzione è una sola. Quindi ci penserai tu. Vada come vada.

...

In piedi in mezzo alla piazza, appoggiato a una sorta di pozzo trasformato in una fontana come se fosse una città vera, Montu ascolta Medoro studiando la reazione di quei pochi incuriositi dai soldati arrivati qualche ora prima.
...lotterete per liberare il Dortan dalla minaccia di un nemico antico quanto l'esistenza stessa! Per coprirvi di gloria nell'etern...
IPOCRITA! L'urlo che si alza dalla folla a interrompere il Bianco fa sussultare anche Montu, richiamandolo alla realtà perso com'era nei suoi pensieri. Una sola parola che tocca visibilmente Medoro. Ipocrita! Ci vieni a parlare di gloria, di nemici del Dortan... Ma dov'era il Dortan quando la gente dell'Alcrisia ne aveva bisogno?! Dov'era il Dortan quando i nostri vicini ci hanno circondato?! E tu... tu dov'eri quando Basiledra è caduta?
Un nervo scoperto, il Cavaliere del Toryu vacilla ma riesce a fare un cenno ai soldati che stanno per intervenire: quell'uomo deve poter parlare, non l'ha fatto per troppo tempo e questo l'ha portato a odiare la terra dov'è nato. Medoro può solo lasciare che si sfoghi su di lui.
Dicevano che fossi morto, e invece eccoti qui -vivo e vegeto- a farci la morale, a dirci di combattere. Il collo dell'uomo si gonfia, è rosso per il trasporto e gli si legge negli occhi che vorrebbe saltare alla gola del Comandante. Ho perso mio figlio nella battaglia di Basiledra. Credeva in te, credeva nel Dortan, aveva diciassette anni e ora è morto. Quindi dicci, Medoro, cos'è che hai pensato quando hai lasciato la città ai Lorch?! Cosa ti ha permesso di essere qui, oggi?! Urla, e schizza saliva mentre parla tanta è la rabbia.
Ho... avuto paura. Confessa in un soffio, appena sussurrato ma sufficiente a far scoppiare l'altro in una grassa risata.
Paura... e noi dovremmo morire per te. Un codardo...
No. Lo interrompe lapidario il Demone. Non devi morire per lui, forse hai ragione a credere che non lo meriti. E non devi farlo nemmeno per il Dortan, perché lontano da Basiledra o da Ladeca non è altro che una parola vuota. Lotta per difendere casa tua, la tua famiglia; per difendere ciò in cui tuo figlio ha creduto fino all'ultimo.
Un ghigno sommesso. C'è un castello a un'ora di marcia da qui, uno vero con le mura in pietra. Andremo lì. Le orde del Kishin saccheggeranno e appiccheranno il fuoco nei villaggi. Ma i campi si possono riseminare, le case ricostruire. All'interno di quelle mura noi sopravviveremo.
Non vengono a distruggere i campi o i villaggi! Sbotta Montu. Ma ogni essere vivente su Theras. Fino all'ultimo bambino! Ansima, ma ha ammutolito tutti. NON SIETE PIU' SOLI! VENITE CON NOI! AFFRONTATE CHI MINACCIA LA VITA STESSA.
Dal mormorio nella folla sembrerebbe che qualcuno si sia persino convinto.
Al fianco di un uomo che ha sbagliato, e sta pagando quell'errore portando un fardello con cui dovrà fare i conti prima della fine. Continua indicando Medoro con un cenno della mano. Lottate per voi stessi o per qualsiasi cosa che vi è cara, ma sappiate che non c'è altro modo se volete continuare a credere nel futuro.
Non un fiato, nessuna parola od ovazione. Montu fa scorrere lo sguardo su ognuno degli astanti, severo ma senza giudicarli.
Partiremo domani mattina. Conclude, dando un termine a quella loro proposta e iniziando ad allontanarsi. Non c'è molto altro da dire, moriranno e lo sanno. Devono solo decidere come.

...

Grazie Montu.
Non farlo, non ringraziarmi. Abbiamo appena iniziato, dobbiamo visitare ancora decine di villaggi e, per favore, non farti mai più mettere i piedi in testa dal primo che osa dubitare del tuo onore. Tutti abbiamo qualcosa di cui vergognarci, ma dobbiamo difendere quello che invece è per noi un vanto.

Sei Medoro, Zoikar ti ha scelto. Non lo dimenticare mai!



Tour delle piazze del Dortan per Medoro e Montu; ci sono stati -così come in Alcrisia- problemi ovunque ma in un modo o nell'altro sono riusciti a convincere un gruppo piuttosto numeroso a seguirli (lo stesso vale per Davakas al nord che però non meritava spazio nel post, poverino). Medoro grazie alla fiducia di Montu e di tutti i volontari sembra essere tornato quello di un tempo, forse accettando in parte sia la sua fuga davanti Mathias che la scelta di Zoikar di farne il suo Campione. I nostri si preparano a ricongiungersi alla colonna di Davakas e allo scontro.

P.S. Perdonate il ritardo e... sì, quella è proprio una mega semi cit. :sese:
 
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view post Posted on 9/12/2019, 11:41
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Majo_Anna, Gemini, Kita

« Ce l'abbiamo fatta, Rosa d'Oriente. »

Il cavaliere d'oro si inginocchiò al cospetto della sua nuova regina, di colei che avrebbe tramandato il grido del Leviatano, dell'unica speranza che il Dortan - e forse l'intera Theras - aveva di salvarsi dal dominio dei demoni.
Medoro era stupito dell'efficacia del suo governo; forse, pensava, non si era poi affidato alla persona sbagliata.

« I Quattro Regni sono finalmente riuniti sotto il tuo nome e sotto la speranza di poter sopravvivere al Signore delle Maschere.
La vittoria nei territori dell'Ystfalda vi ha permesso di conquistare la fiducia della gente.
»

« Ryellia e i Pelleverde? »

Il cavaliere si incupì improvvisamente.

« Non abbiamo sue notizie da settimane ormai. Crediamo che possa essere... »

Dalys comprese senza necessità di ulteriori parole. Si voltò, il viso contrito nella rabbia e nella delusione. Avrebbe voluto avere al suo fianco una dei suoi più importanti alleati, avrebbe voluto cercarla, ma... non vi era tempo.
Ora che era a capo dell'intero Dortan doveva fare i conti con le dure leggi della guerra.

« Capisco.
Chiama tutti i Generali dei Regni e la rappresentanza dei Pelleverde che ancora rimane fedele al mio nome.
Siamo pronti per muoverci.
»

« Sì, mia regina.
In nome del Sovrano.
»


CITAZIONE
Il progetto prosegue come descritto nei vostri post; l'uscita di scena di Ryellia ovviamente porta gran parte dei pelleverde a non unirsi al "team Dalys", che però riesce comunque a insidiarsi in tutti i territori grazie all'intervento di Medoro e Zephyr e dei loro stratagemmi e grazie anche a un'importante vittoria nel nord del Dortan. Dalys rappresenta quindi, agli occhi del Dortan, l'unica speranza che hanno di vincere questa guerra.

Jecht

« Sapevo di potermi affidare a te,
Berserker.
»

In un atto di strana fiducia, il Comandante delle guardie poggiò la propria mano sulla spalla del guerriero. Sorrise, sfoggiando una genuinità e una naturalezza che non erano affatto soliti a Jecht.

« Sai, forse Zoikar avrebbe dovuto scegliere te come suo Campione... sono felice di ricevere il tuo aiuto.
Le armate dei Quattro Regni sono finalmente dove dovrebbero essere. Unite, sotto il nome del Sovrano.
I guerrieri del See seguiranno il tuo nome in capo al mondo.
E Zoikar è con noi.
»

Medoro inspirò con fatica. Se da una parte sentiva l'orgoglio fluire in tutto il suo corpo, dall'altra sentiva di essere alla resa dei conti, nel momento più difficile.
Aveva lavorato così tanto e tante erano le speranze che avevano riposto nella sua figura, di nuovo.
Il terrore di deluderli era un monito che lo tormentava ogni giorno.

« E sia, berserker.
Siamo pronti.
»

Si voltò velocemente, dirigendosi verso l'entrata del Grande Templio dedicato a Zoikar.
Il suo popolo era pronto.

« Che Zoikar illumini la nostra strada. »


CITAZIONE
L'intervento di Jecht ha effetto, portando le armate dei pelleverde a seguirlo - e quindi a seguire indirettamente Medoro. Il Campione, finalmente con un'armata degna di questo nome, è quindi pronto a inoltrarsi verso le profondità del Baathos. Si dirige quindi nel grande templio di Zoikar per comunicare che il suo esercito è pronto.

Ramses

« Montu, io...
credo nel Dortan.
Nel Leviatano.
In Zoikar.
»

Si alzò velocemente dal piccolo trono sul quale era seduto, volgendo lo sguardo all'orizzonte ancora immacolato. Riusciva a vedere le grinfie dei demoni approfittare del proprio popolo, il ghigno delle Maschere eliminare qualsiasi forma di speranza dai cittadini del Dortan.
Li vedeva e provava un gran terrore; a questo, però, ora sembrava accompagnarsi un sentimento di speranza e sicurezza in sé stesso.
Era il Campione di Zoikar, era nel giusto.

« Non abbiamo bisogno dell'intero Dortan.
Quello di cui abbiamo bisogno è... speranza. Montu, possiamo farcela.
»

Sguainò la spada, puntandola in direzione del suo compagno, le cui parole lo avevano fatto rinsavire. Credere in quell'enorme progetto divino.

« Che le nostre spade possano riflettere la speranza del nostro popolo.

Zoikar sarà con noi.
»


CITAZIONE
Grazie agli interventi di Montu e il lungo "tour", Medoro sembra, seppur senza aver riunificato l'intero Dortan, essere speranzoso. Il capitano delle guardie, ora campione di Zoikar, decide quindi che è il tempo di provare a distruggere le armate del Kishin una volta e per tutte.


Il primo turno dell'evento si conclude qui.
Giudizi e punteggi verranno assegnati nel prossimo post.
 
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view post Posted on 9/12/2019, 15:55
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Maestro
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Rovine di Basiledra
Cripta dei Re


Ricavò l'ultimo anfratto dietro una colonna di pietra spezzata per metà. Impugnò l'elsa dell'arma senza esitazione e con un sonoro colpo, svirgolato alla giusta altezza, il colosso di pietra si tramutò in innumerevoli sassi più piccoli, sgretolandosi ed accasciandosi su di un lato.
Dietro vide l'ultima porta e il cuore gli balzò nel petto. Quando scrutò il legno massello ancora lucido, con le mani callose e sporche poté avvertire i sonori colpi con cui i fabbri del Bianco Maniero avevano disegnato le architetture del vecchio dominio del Re. Se li ricordava ancora, le barbe lunghe e gli occhi lucidi di stanchezza ed esperienza, a lavorare gli arredi con perizia e attenzione, ben coscienti che il loro lavoro era parte del Regno tutto; contribuivano al Leviatano al pari dei maniscalchi, dei cuochi, delle sguattere e di ogni singolo componente del borgo. Tutti insieme costruivano l'enorme mostro vincente che aveva conquistato ogni territorio conquistabile, e vinto ogni guerra che fosse possibile vincere, impugnando l'arma più potente al mondo: l'orgoglio di far parte di un impero millenario.

Una lacrima scavò il volto del comandante. Questo tirò su la mano e se la asciugò col palmo, rozzamente. Al tempo stesso, si portò la ciocca di capelli biondi sporchi dietro la testa, allacciandosela insieme al resto in una lunga coda di cavallo. Poi si aggiustò la bandoliera, che nel mentre gli era scesa giù fin quasi alla spalla.
Doveva essere perfetto pensò e la bocca si inarcò in un sorriso quasi naturale, sebbene sconfitto dal tempo e della cicatrici del suo animo.
Poi spalancò la porta e ciò che vide gli invase gli occhi.

« Sto arrivando, mio signore »

La cripta del Re era un lungo salone scavato nel cuore della terra.
Quasi cosciente di ciò che sarebbe poi accaduto, il Re aveva ricavato una stanza di dimensioni imperiali proprio sotto il Trono che non trema. I tappeti rosso porpora erano pieni di polvere, ma ancora adornavano la pietra levigata di sapienza e beltà, impreziosendo le pareti già adorne di arazzi e ricami dorati con un tocco di maestria. Ad ogni passo il Comandante poté ammirare le opere degli scultori, che si erano fatti pregio di imprimere le fattezze dei guerrieri più nobili dell'impero, così come delle dame più belle e dei cavalli più fieri, che comparivano dalle nicchie sui muri a intervalli regolari.
Tutto quanto richiamava la fierezza degli anni passati, accompagnando il penitente verso la purezza del suo prossimo omaggio. Ogni dipinto, ogni ricamo era un richiamo agli anni passati, col preciso scopo di ricordare all'uomo e al servo ciò che aveva perduto.
In quel modo, chiunque - anche il più sciocco - sarebbe stato costretto a porgere i suoi omaggi alla tomba del Re.

« È tutto bellissimo »
In realtà, non ricordava di essere mai stato in quel posto. Aveva seguito i dettami del Daimon che l'aveva seguito; aveva raccolto un esercito di grandi dimensioni e lasciato le proprie truppe a guardia delle rovine dell'antica capitale, soltanto per poter ammirare lo spettacolo, così come gli era stato suggerito e descritto.
Ma non lo ricordava. Non ricordava quando gli artigiani del Re avessero costruito quell'imponente opera, né il momento esatto in cui le ossa del suo antico Re fossero state traslate in quell'anfratto sotto le rovine di Basiledra.
Forse era accaduto dopo la sua diserzione; forse il mondo aveva capito e compreso il ruolo del vecchio Re, omaggiandolo coi dovuti onori.
Non importava in realtà. Ora era lì e non si sarebbe più fatto domande.
Non sarebbe più fuggito, ora che la sua vita era completa.

« È bellissimo! » Chiosò ancora, quando la vide.
Una scalinata di marmo bianco con venature dorate accompagnava il passo verso un'altare di bronzo e oro. Due figure alate, simili a draghi, si stagliavano ai bordi della tomba, circondando coi propri artigli testa e piedi di una figura umanoide, distesa su di un immaginario giaciglio reale con la propria spada poggiata all'altezza del cuore.
Quando lo vide, lo riconobbe. Si portò una mano alla bocca, nascondendo un singulto e poi pianse.
« Maestà » aggiunse Medoro, commosso. « Finalmente vi ritrovo, dopo tutto questo tempo. »

Si prese un attimo per sé. Giunse le mani in preghiera e chiuse gli occhi, immaginandosi lo spirito del sovrano a vegliarlo in quel momento di meditazione.
Poi si destò, quasi volendosi richiamare all'ordine. Girò il sacco che aveva sul fianco e se lo portò sul davanti, affondandovi all'interno le mani callose. Rovistò per qualche istante e, infine, vi tirò fuori un mucchio di stracci.
« Ve l'ho portata dopo tanto tempo, sire » ribatté, parlando alla tomba. Con la mano destra teneva il fagotto, mentre con la sinistra si premurò di levar le bende una a una, lentamente. Come se stesse carezzando un tenero cucciolo o contando i petali di una margherita a primavera.
Quando finì, ne emerse una maschera intarsiata di preziosi, placcata in rame e dipinta di rosso, curva. Impressa su di essa v'era uno sguardo ilare e, al tempo stesso, minaccioso.
« È la tua maschera... sire » aggiunse poi, fissandola con sguardo spiritato. « È ciò che i Daimon mi hanno chiesto di portarti... »

« Fermati, Medoro. »

Qualcuno richiamò l'attenzione alle sue spalle e per un attimo il comandante pensò che fosse stata la tomba a rispondergli.
Poi, però, fu costretto a voltarsi e sebbene ciò che vide gli assomigliasse molto, capì immediatamente che non era stato affatto il suo re a parlargli.
A metà della sala v'era un uomo con indosso calzoni scuri, fasciato di stracci bianchi. Teneva due spade corte sui fianchi e il rumore degli stivali cadenzava col suo passo il tempo che gli mancava a raggiungere Medoro. Il volto, però, era il particolare più evidente: quei lunghi capelli neri e quell'accigliato sguardo, impresso su di un viso magro e smunto, era disegnato su molti arazzi di quella sala. Ma non era lo stesso volto.

« Zeno » lo chiamò, Medoro. « O dovrei chiamarti Faust? »
« ...impostore, forse è più adatto? »

Zeno si portò a pochi passi da lui, fissandolo con aria seriosa. Il volto non nascondeva la stanchezza e il tempo; qualche capello nero ormai luccicava di un più maturo grigio e profonde occhiaie parlavano assai più della sua bocca, raccontando di notti insonni e lunghe battaglie. Non si era mai arreso a differenza sua. E questa cosa irritò Medoro ancora di più.
« Mi spiace per quello che ti è successo » aggiunse Zeno, serio. « Mi dispiace anche per non averti mai raccontato la verità su di me, o su Julien. »
Poi lanciò uno sguardo a ciò che il comandante teneva ancora tra le mani. « Ma questo è troppo; non posso permettertelo. »

Medoro sorrise, questa volta amaro. Erano stati compagni d'arme, un tempo. Vicini, molto vicini: ma mai davvero amici. Nessuno dei due aveva mai confessato all'altro le proprie emozioni: finanche il volto e il ruolo di Faust / Zeno era rimasto celato al suo comandante per anni. E ora, dopo tutto questo tempo, l'uno era venuto per fare la morale all'altro.
No. Pensò Medoro. Non l'avrebbe accettato.
Coprì lui stesso i pochi passi che lo dividevano dall'altro e gli si portò a un tiro di sputo, afferrandolo per il collo della blusa. « Che cosa sei venuto a fare, impostore? » Ringhiò, digrignando i denti.
« Sei venuto a farmi la tua ultima predica? A dirmi che risvegliarlo è sbagliato? » Abbaiò ancora, con un moto di inedia.
« Quello che sta succedendo al mondo intero è giusto, invece? » Proseguì, indicando con la mano un punto immaginario alla sua destra. « Da quando lui è andato via, tutto è andato storto! »
« Abbiamo bisogno di lui. »

Zeno non disse nulla, sul momento. Si limitò a staccarsi le mani dell'altro dal suo collo e a fare qualche passo indietro; si mosse piano, come quando non si vuole infastidire una fiera pronta all'attacco.
« Il mondo sta andando in pezzi, sicuramente » commentò, secco. « Ciononostante, risvegliare lui non potrà far altro che peggiorare le cose. »
Poi si limitò a fissarlo, portando - senza farsi vedere - una mano alla spada sul fianco destro. « Ora dammi quella maschera, Medoro; risolveremo tutto senza di lui. »
Medoro gli restituì un'occhiata gelida. « Quindi è solo questa che vuoi? » Fece un passo indietro e poi un altro, impugnando a sua volta l'arma. « Vieni a prendertela! »
Zeno non se lo fece ripetere due volte; scatto in avanti con agilità, svirgolando la spada destra con un fendente orizzontale, all'altezza dello stomaco e uno più in alto, poco sotto il mento. Medoro rimase stupito dall'atto, ma - per quanto arrugginito - la tecnica ancora non gli faceva del tutto difetto. Fece un altro passo indietro ed evitò il primo fendente, parando il secondo con il piatto della lama.
Poi fece un passo di lato e rispose con due affondi all'altezza dello stomaco, che Zeno schivò con agilità, rispondendo ancora con una finta in direzione della gamba destra, salvo salir su e tentare i colpire la mano destra con cui teneva ancora la maschera. Medoro, stanco e affaticato per il lungo cammino, capì con un attimo di ritardo la finta dell'altro, non riuscendo a evitare il colpo alla mano.
Il risultato fu che la lama del secondo gli strisciò sul palmo e dovette mollare la presa sull'artefatto. La maschera scivolò nell'aria e con un volo ad arco si aprì si andò a posare proprio sopra la tomba del Re.

Medoro ruggì di rabbia e rispose con un rapido fendente orizzontale che colpì Zeno di striscio, costringendo quest'ultimo a indietreggiare.
« Traditore! » Urlò ancora, col volto contratto e nuovamente in lacrime. « Confessa: la vuoi solo per te! »
« Vuoi per te la Maschera di Loec...! »

Zeno sbarrò gli occhi.
« Credi davvero che quella sia la Maschera di Loec? » Chiese, con voce atterrita. « ...magari sei anche convinto che questa sia la Tomba di Rainer? »
Medoro rimase immobile. Poi abbozzò un sorriso amaro, finto. Dubbioso, ma ancora incredulo. « Certo che questa è la Tomba di Rainier... e quella è la maschera di Loec... »
Mentre rispose, si girò a fissare l'artefatto che gli era appena scivolato dalle mani, ormai poggiato sulla tomba dietro di lui. Con orrore poté vedere una maschera assai diversa da quella fissata qualche istante prima: era una maschera priva di bocca, inespressiva, tutta bianca e con ghirigori dorati sulle guance a simulare un volto privo di emozioni.
Una maschera da Corvo.

In quell'esatto istante Medoro vide gli arazzi, le statue e gli arredi della Cripta del Re sciogliersi come neve al sole, dissimulando l'illusione che erano stati fino a quel momento.
Al loro posto comparvero le mura tozze di un cunicolo scavato sotto la terra brulla, spugnosa delle paludi del Sud del Dortan, con la puzza di umido che gli risalì fino al cuore.
Non si ricordava della cripta, perché non era mai esistita.
« Dove siamo, veramente? »

Ma conosceva benissimo la risposta.

Rovine di Basiledra
Cripta dei Re


Qualche tempo prima

« Un inganno? » Ribatté Haym, tendendo il volto in un'espressione mista di disappunto e stupore.
I suoi occhi vuoti presero a fissare un punto imprecisato della terra brulla. « Vuoi ingannare il comandante Medoro? »
« No » Zoikar sentenziò e la sua voce risuonò come un tuono.
« Non il comandante Medoro » ribatté. « Medoro il guerriero caduto in disgrazia; Medoro il vagabondo... »
Il suo elmo in ferro nero battuto tintinnò appena, mentre il colosso di ferro e nulla si stagliava con la sua prepotenza, rimbeccando di quelle parole fredde tutta l'ipocrisia del suo piano vittorioso.
« Inganneremo Medoro il disgraziato » sottolineò, girando il viso in direzione dell'altro. « Inganneremo un guerriero decaduto, che farà di tutto pur di riabilitare il suo nome agli occhi del suo re... »
« ...persino credere a una bugia. »

Calò un silenzio immobile tra i due; finanche il vento si placò, quasi tendesse l'orecchio per ascoltare.
« È crudele e sbagliato » sussurrò Haym, dissimulando un rigurgito di coscienza. « Non dovremmo farlo. »
« Ma lo faremo » gli rispose Zoikar. « Perché è necessario. »
« E quando tutto sarà finito, non potrà che giurare fedeltà al suo nuovo padrone. »

Si rialzò, scrutando il cielo plumbeo che iniziò a gocciolare di una pioggia scura e sporca.
« D'altronde non può farne a meno » concluse.
« Medoro non può fare a meno di servire un padrone; chiunque esso sia. »



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Abbazia di Acque Perdute
Ultima città dei Corvi


Scavata sotto la terra bagnata della palude, l'ultima città dei Corvi era stata un cunicolo di vermi.
Si erano rintanati dove nessuno li avrebbe trovati, soltanto per fuggire alle persecuzioni dei Regni ed evitare le esecuzioni sommarie. Poi, erano fuggiti anche da lì: si erano riabilitati come nobili, guerrieri, cantastorie o qualunque altro ruolo avrebbe nascosto al mondo ciò che erano stati o il credo cui avevano giurato fedeltà. Perché il Credo del Sovrano era divenuto qualcosa di innominato per i regni del Dortan, dopo la caduta dell'ultimo Re, Julien.
Ciò che era rimasto lì, nell'ultima città dei Corvi, era soltanto la memoria, il rimpianto e una cassa.
Una cassa di legno sporco, adagiata su di un piedistallo di pietra grigia e sporca, che Medoro fino a qualche momento prima aveva scambiato per un bellissimo altare.
Sulla tomba, invece, non c'erano draghi alati a impreziosire alcunché, né figure regali adagiate con una spada, ma soltanto un'asse di legno sbilenco e una scritta scura, rovinata e illeggibile.
E, ora, anche una maschera da Corvo, poggiata sul centro.

Quando si rese conto dell'inganno, il Comandante rovinò a terra, come se il peso della sua corazza fosse aumentato all'improvviso. « H-haym... c-cosa mi hai fatto fare...? »
Si accasciò in lacrime, seguitando a fissare la tomba con orrore, incapace di realizzare appieno ciò che era accaduto.
Zeno, invece, non si perse d'animo. Come una furia scatto in direzione della maschera; nel mentre, impugnò una delle sue due lame con entrambe le mani e svirgolò un un fendente dall'alto verso il basso, cercando di spaccarla in due. Con suo grande stupore, però, il colpo fu rimbalzato da una forza invisibile e quella stessa forza lo respinse con violenza, scagliandolo a diversi metri di distanza.
« Dannazione! » Urlò Zeno, colpendo la parete di terra brulla con la schiena. « È troppo tardi...! »
Con orrore, i due videro la maschera da Corvo sciogliersi in un liquido biancastro e poi scivolare all'interno della cassa di legno velocemente.
Dopo qualche istante, un urlo inumano risuonò dall'interno della cassa e, infine, un bagliore dorato investì entrambi e tutto il cunicolo di una luce accecante.
All'esito di quella scena, non c'era più alcuna tomba.

Solo una figura umanoide, nuda ed eretta sopra di essa, che li fissava con occhi infuocati e pupille dorate.
« R-rainer? » Chiese Medoro, continuando a fissarlo. Sperando in una risposta affermativa.
« Non insultarci con quel nome, Comandante Medoro » rispose l'uomo, con voce greve. « Sapete benissimo chi siamo »

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« Noi siamo Caino »

 
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